翁贝托·萨巴诗240首
Dodicenne fanciullo, io la tua vita
giorno per giorno posso dirti, ed ora
per ora. E adesso piú di prima, adesso
che l’estate è al suo colmo, ed offre tanti
vari piaceri a te e all’amico tuo.
Uno fra gli altri, a me il piú caro un tempo.
Di buon mattino la città attraversi,
variopinta città dove sei nato;
e ti rechi alla spiaggia. Lí dall’alta
trave nell’onda capofitto caschi,
o a gara con le palme il mar battendo
immensa fra voi due fate una schiuma;
e chi in mezzo ci passa? Di marini
giochi sazio alla fine, o stanco almeno,
lungo e dorato ti distendi al sole.
Sopra un ritratto di me bambino
Com’eri bello, o fanciulletto, e come
ne trasmuta la vita! Il vestitino
guardo alla mannaia; a simulata
nave t’appoggi, e buoni e dolci hai gli occhi,
quasi intenti a un prodigio, e d’abbandono
e d’ingenua goffaggine una posa.
Altri tempi, fanciullo, altra stagione!
Tedio è il presente, del passato ho solo
rimorso; l’avvenire è una minaccia.
Pur, fanciullo bennato, ch’io ti guardi,
i tuoi riccioli biondi, la tua fronte
luminosa, e alla vita e a me perdono;
che sí, il volto è mutato, ed il dolore
ci separano e gli anni; ma nel cuore
lo so, lo sento, ancor, bimbo, son quello.
raggio di sole entrato nella mia
chi sei, che appena ti conosco e tremo
se mi sei presso? tu a cui ieri ancora
«Il suo nome – chiedevo – signorina?»;
e tu alzando su me gli occhi di sogno
fatta di cose le piú aeree e insieme
nella città benedetta ove nacqui,
su cui vagano a sera i bei colori,
i piú divini colori, e ahimè! sono
che tieni in cuore? Io non lo chiedo. È pura
vi farebbe un pensiero quel che un alito
sullo specchio, che subito s’appanna.
Qual sei mi piaci, aureolata testina,
una qualunque fanciulla e una Dea
Che mi vorrebbe ad essere felice?
Una stanzetta, ma col fuoco acceso;
due tazzine, due piccole tazzine,
una per te, l’altra per me, Paolina;
e addolcire coi tuoi baci l’amaro
della bevanda. O mia piccina, ascolta;
non ti vedrò fra qualche giorno, io credo,
che di rado e di furto. E non vorresti
prima una volta, una sol volta, quello
che in un orecchio già ti dissi, e tu,
su me alzando una mano che nell’atto
fu di baci punita e ricoperta,
m’hai risposto «sfacciato»; e nel mio petto
nascondevi, ridendo, la testina.
Non vuoi, Paolina? Che di te un ricordo
serbi, sí dolce sí dolce, che il cuore
mi manchi pure nel ricordo, e sia
l’ultimo fiore che tra i vivi io colga?
L’addio
Senz’addii m’hai lasciato e senza pianti;
devo di ciò accorarmi?
Tu non piangevi perché avevi tanti,
tanti baci da darmi.
Durano sí certe amorose intese
quanto una vita e piú.
Io so un amore che ha durato un mese,
e vero amore fu.
Dopo un mese
Era un mese trascorso. E t’ho veduta
ferma, una sera, dei negozi al lume
e dei fanali, attender lí qualcosa.
O qualcuno? Non so. So che indiscreto
fui d’appressarmi e porgerti la mano.
E tu sí me l’hai data la tua mano,
ma come un’altra, come, nel suo guanto
chiusa, ritrarla subito cercavi,
quasi in colpa un fanciullo, e ch’io là fossi
per punirti, per fare io a te del male.
No, mia Paolina. E i tuoi begli occhi intorno
volgendo, d’una zia, poi d’un’amica
m’hai tenuto discorso, complicato
lungo discorso, di cui nulla intesi.
Male Paolina; male fu non dirmi:
Addio, mi lasci; un nuovo amico attendo.
Vergogna? Dopo un mese, un cosí lungo
volger di tempo ai giovanetti? Ed io,
son io forse un acerbo, o un vecchio sono,
da temerne i rimbrotti; io che le cose
amo quali esse sono, e piú non chiedo?
Per salutarti ero venuto, appena
per salutarti, e troppo fu, fu grave
colpa, e ne porto meritata pena.
La mia fanciulla
La mia fanciulla snella e polposetta
è come un arboscello con le poma:
una ne mangi ed un’altra t’alletta.
La mia piccola cara è una bambina.
Teme, se tardi rincasa, legnate,
suo castigo di quando era piccina.
E quando fa quella proibita cosa
si volge, e manda sospettose occhiate,
per veder se la mamma è là nascosa.
La mia piccola cara è troppo audace.
Mette la testa con la grande chioma
fra le mani, e mi guarda a lungo e tace.
Mezzogiorno d’inverno
In quel momento ch’ero già felice
(Dio mi perdoni la parola grande
e tremenda) chi quasi al pianto spinse
mia breve gioia? Voi direte: «Certa
bella creatura che di là passava,
e ti sorrise». Un palloncino invece,
un turchino vagante palloncino
nell’azzurro dell’aria, ed il nativo
cielo non mai come nel chiaro e freddo
mezzogiorno d’inverno risplendente.
Cielo con qualche nuvoletta bianca,
e i vetri delle case al sol fiammanti,
e il fumo tenue d’uno due camini,
e su tutte le cose, le divine
cose, quel globo dalla mano incauta
d’un fanciullo sfuggito (egli piangeva
certo in mezzo alla folla il suo dolore,
il suo grande dolore) tra il Palazzo
della Borsa e il Caffè dove seduto
oltre i vetri ammiravo io con lucenti
occhi or salire or scendere il suo bene.
Favoletta
Con larghi giri alla campagna piomba
re dell’azzurro spazio;
e di gemente misera colomba
quale – oh mio Dio! – fa strazio.
Certa notte mi parve esser falchetto,
e colomba eri tu.
Alte strida... ma poi chi piú diletto
ne avesse io non so piú.
La schiava
Io sono adesso un giovane signore,
e tu sei la mia schiava. Via, non farmi
di no, sciocchina; lo so ben ch’è un sogno;
ma il sogno di cui vivo è verità.
T’ho comperata, assai di qui lontano,
da quel vecchio in turbante, un giorno ch’ero
troppo infelice. E poi che singhiozzavi,
subito un bacio t’ho dato, poi buone
cose e dolci parole. Ora sei mia,
sei la mia cosa; ti potrei fanciulla
anche battere; invece solo bene
ti farò; ti farò fra un bacio e l’altro
se non dirmi, pensare almeno: È bello,
quando si è schiavi, avere un buon padrone.
Cosí, mio amore, se lontana sei,
cosí parlo con te, che già nel letto,
sveglio appena, nel mio cuore incomincio
a parlarti, a pensarti, a vaneggiare.
Favoletta
Al tempo che ancor rara è sulla balza
la verde erbetta,
sui piè diritta all’arboscello s’alza
gentil capretta;
e spia se piú non sono i rami bassi
di gemme spogli.
Ah foss’io una capretta, e mordicchiassi
altri germogli!
Forse un giorno diranno
Far cattiverie, dir qualche sciocchezza,
nulla al mondo è piú bello; quasi Dei
ci si sente. Ora m’odi, o mia dolcezza!
Forse un giorno diranno: «Ma chi era
questa Paolina, che le scrisse Saba
versi d’amore?» E penseranno ad una
strana creatura, assai da te diversa
fingendoti e da tutte. E tu, leggera
e vagante, che pensi tu che ai vivi
risponderei, se vivo io fossi? «Bella,
molto bella – direi – la Paolina;
ma, per quanto ricordo, poco all’altre
diversa che Trieste fan diletta.
E non aveva che la sua cosetta».
Commiato
Voi lo sapete, amici, ed io lo so.
Anche i versi somigliano alle bolle
di sapone; una sale e un’altra no.
L’amorosa spina
(1920)
1
Sento che in fondo ai miei pensieri, a queste
ore beate e meste,
sei tu, bambina.
Sei tu Chiaretta, che non son due anni,
non piú brutta, non bella
piú d’ogni altra monella,
in corti ancora sgraziati panni
ti s’incontrava per via, dalla mamma
per il pane mandata ed il carbone.
Ora sai sola quali a te son buone
cose: sul braccio reggi la borsetta,
chiudi in quella lo specchio, giovanetta
tu dai limpidi seni. E c’è lí dentro,
c’è quasi un cuore: uccelletto che a prova
canta un’antica e nuova
sua canzoncina.
2
Tu mi ammiri, fanciulla, tu mi senti
nel tuo cuor come un dio;
ma i tuoi baci mi neghi, i baci ardenti
dovuti all’amor mio.
Lusinghiera t’accosti, e già t’invola
delizioso timore.
È un vecchio gioco, un gioco che a te sola
piace, che a me è dolore.
Anche in sogno t’inseguo. In sogno l’arti
son, le menzogne, invano.
Questa notte sognavo io di baciarti
la freddolosa mano.
A forza tu la ritraevi, e poi...
tutto adocchiavi in giro.
Vedevi che nessuno era tra noi.
Con un lungo sospiro,
della tua mano mi porgevi invece
la rosa della bocca.
Del ben che il tuo gentile atto mi fece
tutt’oggi il cor trabocca.
3
Guarda là quella vezzosa,
guarda là quella smorfiosa.
Si restringe nelle spalle,
tiene il viso nello scialle.
O qual mai castigo ha avuto?
Nulla. Un bacio ha ricevuto.
4
Sento, fanciulla mia, sento che morte
piú conviene d’amore a me che t’amo;
e ch’essere sotterra ancor piú bramo
del bene a cui m’adeschi e neghi forte.
Bella ignuda adorabile fanciulla,
quale tu sei veramente, e piú quale
ti vede il mio pensiero innamorato,
altri che me farai di te beato,
ad altri il dono che non ha l’uguale
farai, che tutti a vivere innamora.
Poi ch’io sono il tramonto e tu un’aurora,
molto è vero sperai, molto avrei fatto
per te, per me, per questo dolce mondo
che fuggo, sí tenacemente amato.
Ma troppo sono triste, troppo al fondo
nutro amari pensieri. Uno zampillo
sei tu, un’uccella sul piú alto ramo,
una cosa felice. Ed io dovrei,
io che ho tanto con me, tanto passato,
essere l’uomo che potrà di un solo
sguardo strappar del tuo pudore i veli,
e rapirti con sé negli alti cieli!
5
Nasca da un amor mio un fascicoletto
di versi, io pago sono.
Ho avuto un figlio tenero e diletto.
Un figlio di piú lunga e meno mesta
vita che se di carne fosse, un buono
che a te pure dà pace.
Ma non nel cuore tu l’accogli; ahimè
l’omaggio solo è quello che ti piace;
che su tutte le cose tu di questa
godi: che molti soffrano per te;
e quanti piú essi sono meglio è.
6
La parola cercare che piú attrista
dovrei per te figliola;
dir che sei dura di cuore, egoista
e civettuola.
Pensi solo a te sola. D’infinite
cosucce i sensi appaghi.
Aprir ti piace amorose partite,
e non le paghi.
Nulla dirò. Dirò a me stesso invece:
questa è poi la tua mèta?
Sei uno che qualcosa al mondo fece,
ed un poeta.
Sono parole. Sanguina il mio cuore
come un cuore qualunque.
La dura spina che m’inflisse amore
la porto ovunque.
7
Come ho goduto tra la veglia e il sonno
questa mattina!
Uomo ero ancora, ed ero la marina
libera ed infinita.
Con le calme dorate e gli orizzonti
lontani il mare.
Nel fondo ove non occhio può arrivare,
e non può lo scandaglio,
una pietruzza per me, una cosina
da nulla aveva.
Per lei sola fremeva ed arrideva
l’azzurra immensità.
8
Lascia che m’inginocchi a te adorata,
lascia ch’io baci le tue mani, lascia
ch’io menta, e dica che te sola ho amata;
cosí perdutamente tu mi piaci!
Tu mi piaci, da me cosí remota,
che non conosco due anime al mondo
piú divise, che mi sei quasi ignota,
quasi estranea. E di me tieni il profondo.
Regalarti dovrei, Chiara, una rosa,
ed io stesso acconciartela sul seno;
poi tosto a me fare altro dono (cosa
non dico io a te), ma che dà pace almeno.
Oh, se il dono va bene a lei d’un fiore,
altro a me convenire può che il ferro?
penso; e alla vita, spasimo e dolore,
alla vita in cui sei, piú e piú m’afferro.
9
Hai un piccolo scialle, e con quel tutta
ti celi, ed i labbrucci spingi in fuori,
quando un bacio ti buschi. Io dico: «Brutta,
brutta tu veramente». E invece mai
cosí bella ti godo come allora
che t’adiri, e adirarti, ahimè, non sai.
Cara, quanto sei cara! Una un po’ viva
bimba, ancor quasi di scuola; ed io forse,
io t’assomiglio un satiro cui morse
il desiderio di te fuggitiva.
10
Dolorosi pensieri a volte passano
per la mia testa.
Tante notti che insonni a me trascorrono
tu vegli in festa.
Altri quel seno vergine disfiorano;
le ignude mani,
quelle mani ch’io bacio a turno premono
nei balli vani.
Là di fiori non sdegni omaggi accogliere;
e non t’annoi
a quei detti di cui so che piú stupidi
son solo i tuoi.
Dolcissimi pensieri a volte tornano
dentro il mio cuore.
Dalla lontana adolescenza vengono
per te, mio amore.
Mi dicono: Ella è tanto ancora tenera,
bambina tanto!
Potrai tu solo, avventurato, apprenderle
estasi e pianto.
È ghiaccio, ma che poco basta premere
perché si sfaldi.
Di sotto i mari troverai che fremono
azzurri e caldi.
11
E di nuovo arrabbiata! Il suo furore
va e viene pronto.
Sulle gote dolcissime il rossore
di un bel tramonto
per quanto poco è riapparso! Sapesse
che le farei;
sol che amore in mia mano la mettesse
povera lei!
Un modo io so, so un giusto modo e solo
di lei punire,
che al suo di monelluccia corpicciolo
può convenire.
Due lacrimette a giú scendere amare,
a sparir ratte;
e le si fa tra i sospiri obliare
sue malefatte.
12
Sovrumana dolcezza
io so, che ti farà i begli occhi chiudere
come la morte.
Se tutti i succhi della primavera
fossero entrati nel mio vecchio tronco,
per farlo rifiorire anche una volta,
non tutto il bene sentirei che sento
solo a guardarti, ad aver te vicina,
a seguire ogni tuo gesto, ogni modo
tuo di essere, ogni tuo piccolo atto.
E se vicina non t’ho, se a te in alta
solitudine penso, piú infuocato
serpeggia nelle mie vene il pensiero
della carne, il presagio
dell’amara dolcezza,
che so che ti farà i begli occhi chiudere
come la morte.
In riva al mare
Eran le sei del pomeriggio, un giorno
chiaro festivo. Dietro al Faro, in quelle
parti ove s’ode beatamente il suono
d’una squilla, la voce d’un fanciullo
che gioca in pace intorno alle carcasse
di vecchie navi, presso all’ampio mare
solo seduto; io giunsi, se non erro,
a un culmine del mio dolore umano.
Tra i sassi che prendevo per lanciare
nell’onda (ed una galleggiante trave
era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto,
un bel coccio marrone, un tempo gaia
utile forma nella cucinetta,
con le finestre aperte al sole e al verde
della collina. E fino a questo un uomo
può assomigliarsi, angosciosamente.
Passò una barca con la vela gialla,
che di giallo tingeva il mare sotto;
e il silenzio era estremo. Io della morte
non desiderio provai, ma vergogna
di non averla ancora unica eletta,
d’amare piú di lei io qualche cosa
che sulla superficie della terra
si muove, e illude col soave viso.
Il canto di un mattino
Da te, cuor mio, l’ultimo canto aspetto,
e mi diletto a pensarlo fra me.
Del mare sulla riva solatia,
non so se in sogno o vegliando, ho veduto,
quasi ancor giovanetto, un marinaio.
La gomena toglieva alla colonna
dell’approdo, e oscillava in mar la conscia
nave, pronta a salpare.
E l’udivo cantare,
per se stesso, ma sí che la città
n’era intenta, ed i colli e la marina,
e sopra tutte le cose il mio cuore:
«Meglio – cantava – dire addio all’amore,
se nell’amor non è felicità».
Lieto appariva il suo bel volto; intorno
era la pace, era il silenzio; alcuno
né vicino scorgevo né lontano;
brillava il sole nel cielo, sul piano
vasto del mare, nel nascente giorno.
Egli è solo, pensavo; or dove mai
vuole approdar la sua piccola barca?
«Cosí, piccina mia, cosí non va»
diceva il canto, il canto che per via
ti segue; alla taverna, come donna
di tutti, l’hai vicino.
Ma in quel chiaro mattino
altro ammoniva quella voce; e questo
lo sai tu, cuore mio, che strane cose
ti chiedevi ascoltando: or se lontana
andrà la nave, or se la pena vana
non fosse, ed una colpa il mio esser mesto.
Sempre cantando, si affrettava il mozzo
alla partenza; ed io pensavo: È un rozzo
uomo di mare? O è forse un semidio?
Si tacque a un tratto, balzò nella nave;
chiara soave rimembranza in me.
Canzonetta 1
La malinconia
Malinconia,
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v’è al mondo, non v’è al mondo niente
che mi divaghi.
Niente, o un nonnulla
forse. Fanciulla,
quello per me saresti.
S’apre una porta; in tue succinte vesti
entri, e mi smaghi.
Piccola tanto,
fugace incanto
di primavera. Biondi
riccioli parte nel basco nascondi,
ed altri ostenti.
Ma giovanezza,
torbida ebbrezza,
passa, passa l’amore.
Restano tristi nel dolente cuore
presentimenti.
Malinconia,
la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch’altro non spero.
Quando non s’ama
piú, non si chiama
lei la liberatrice;
e nel dolore non fa piú felice
il suo pensiero.
Io non sapevo
questo; ora bevo
l’ultimo sorso amaro
dell’esperienza. Oh, quanto è mai piú caro
il pensier della morte
al giovanetto,
che a un primo affetto
cangia colore e trema.
Non ama il vecchio la tomba: suprema
crudeltà della sorte.
Canzonetta 2
Il dolore
Dai miei prim’anni
d’ignoti affanni
io celo in me il terrore.
Il vero, il vivo, il presente dolore
m’è quasi amico.
Con dolce pena
da lui la vena
dei miei versi derivo;
e quando a lungo in compagnia ne vivo
lo benedico.
Con lui da pari
lottando a pari
le belle cose appresi,
tante e sí strane, che poi grazie resi
alla sua guerra.
Per lui son fuori
dei tuoi orrori,
volgo a me sempre odioso,
e sarà il nome mio per lui glorioso
nella mia terra.
O sia che accanto
l’abbia in un canto
di caffeuccio, o vada,
com’uom che fugge, per vie e piazze io vada
della città;
senza conforto,
quando per morto
il mio cuor s’abbandona;
sempre nasce da lui la mia piú buona
felicità.
Io pover’uomo,
già quasi domo,
mi rilevo beato;
e maledire piú non so il peccato
d’amor gentile.
Ma se il pensiero,
solo in lui vero,
mi pinge ignoto male;
credere posso non vi sia un mortale
di me piú vile.
Canzonetta 3
Il vino
La vita è cosí amara,
il vino è cosí dolce;
perché dunque non bere?
Ogni triste pensiere
tu abbia nella mente
ti si muta in delizia.
Quasi una puerizia
si fa l’età matura,
un intimo sorriso.
Allora è paradiso
quando al cuore ti torna
una dolce fanciulla.
Ogni altra gioia è nulla
per te rispetto a questa,
ogni altra luce è fioca.
La sua voce un po’ roca,
le volgari parole
che vogliono ceffate,
son tranquille beate
musiche che tu ascolti.
Piú non dici: Deh, basta!
La nudità sua casta
risplende come un sole;
ha una bontà sublime.
Lieve accennar d’opime
forme, un femmineo segno
ti fa piangere quasi.
Dicono i sensi, invasi
dall’incanto: Ella è buona,
buona come un buon Dio.
Al mio basso desio,
come un angelo all’uomo,
sorridente compiace.
Ogni mia voglia in pace
comporta; il suo sorriso,
ch’è rimprovero un poco:
«Tanto – dice – quel gioco
ti piace? E appena tocca
mia angelica natura.
Dall’amplesso piú pura
mi rilevo, e tu appena
puoi baciarmi le mani».
Come ai giorni lontani
della tua giovanezza
vuoi vedere una donna?
Fare in te una Madonna
d’una scaltra monella?
Questo il vino t’impara.
Canzonetta 4
La fanciulla e la gazza
Bimba, se avessi un cuore
fra i tuoi piccoli seni,
un cuor dolce e profondo;
quale sarebbe al mondo
di te cosa piú cara?
chi di me piú beato?
Tutto che già in passato
sognai, sarebbe al fine:
gaia bellezza e pura,
cui dato abbia natura
dolce bontà che amo.
Bimba, fossi tu tale!
Su e giú lungo il Canale
abbiamo fatto un giorno
la passeggiata insieme.
Il dubbio che mi preme
non t’ho, bimba, taciuto,
andando a passi lenti.
I tuoi begli occhi intenti
nei miei, nulla dicevi,
la favola ascoltando.
Dovevo a quando a quando
salvare i tuoi piedini
dall’acqua in pozze accolta.
Della gazza che sciolta
– io ti narravo – in casa
qual persona tenevo.
Ella con me, sapevo
io vivere con lei,
da me tanto diversa.
Che un’ingrata perversa
fosse non lo sapevo;
lo seppi un dí, Chiaretta;
uno che stretta stretta
sul braccio mio reggendola
molto amorosamente;
caddi, e a terra dolente
giacqui. Ella invece nulla,
nulla soffrí. Ma il nero
becco in me volse, e un fiero,
il piú nella sua forza
fiero, male m’inflisse.
Nulla il caduto disse
contro di lei, né fece.
Rise e si rilevò.
Ma questo ancora io so:
che spesso è in voi fanciulle
della mia gazza il cuore.
Canzonetta 5
Le persiane chiuse
Sensazioni lontane
mi trafiggono il cuore;
un ricordo improvviso.
Alza, fanciulla, il viso;
e quanto avviene ascolta
che per te mi rammenti.
Sono da poco i venti
dell’inverno caduti;
ed ecco, un mezzogiorno,
della scuola al ritorno,
vasta misteriosa
penombra in casa trovo.
Tutto mi sembra nuovo
con lei nella mia casa;
tutto ha per me un incanto.
Tutto mi piace tanto
cosí: persone, oggetti.
Provo strana esultanza.
Tempo è che in ogni stanza
han messo le persiane
che la penombra fanno.
Il presagio mi dànno
esse delle vacanze,
della vicina estate.
Ore in mare beate
sogno, ghiacce bevande
dopo corse affannose;
monti, vallette ombrose
che non vidi, ma lessi
di lor, chiuso scolaro.
Ogni dolcezza imparo
cosí, solo sognando.
E una voce mi chiama.
Oh, quante cose brama
saper la cara voce!
Se parla, io le rispondo;
ma se so, mi nascondo
pure da lei che amo,
pur dalla madre mia.
Come al fondo tu sia
di ciò, forse ti chiedi.
Bimba, abbassa il tuo viso.
Il tuo seno diviso
da un’ombra queste cose
mi richiamò beate.
Mi richiamò beate
cose un virgineo seno,
care cose lontane.
Canzonetta 6
Chiaretta in villeggiatura
Com’eri bella, Chiaretta, sui monti,
cui cingon boschi di pini le fronti,
e prati hanno nel mezzo.
Là, d’un albero al rezzo,
fra te sedevo e la sorella buona.
E bianca nuvoletta eri e persona.
Con che ingenua malizia là, bambina,
or bocconi giacevi, ora supina.
Quanto, della maggiore
tua sorella a rossore,
quanto scoprivi agli occhi miei beati,
giú rotolante per gli erbosi prati.
O la corsa prendevi ad altro clivo,
volgendoti a guardar s’io t’inseguivo,
come una ninfa antica.
Ed io, gentile amica,
io che fauno non sono, in pace stavo,
e d’intraviste beltà mi beavo.
Il cielo era coperto, il tuono in fondo
romoreggiante; l’estate sul mondo
ombre stampava e pace.
Era il tempo in cui piace
con l’amata fanciulla passar l’ore;
e godono gli occhi e tace il cuore.
Assai, bella Chiaretta, assai godere
si può con gli occhi; ma piú dolce è avere
chi s’ama, sola a solo.
Dietro ad un muricciolo
per man ti trassi, e sulla bocca ardente
ti baciai, ti baciai sí lungamente.
A forza quindi scoprendo il tuo viso:
«T’è spiaciuto?» ti chiesi. E tu, diviso
tenendomi col braccio,
un sorriso che taccio
accennavi, beato. Ed aspri intanto
da te udivo rimbrotti: «Osar qui tanto?»
Sospettosa guatavi, e: «Ci ha nessuno
– mi chiedevi – veduti?» Ed io: «Nessuno»
Ed indietro tornammo.
Gran compagnia trovammo
sotto l’albero; gli occhi in su eran volti.
Ira e dolore ben pareva in molti.
Dove ancor delle nubi il bianco velo
scorger lasciava l’azzurro del cielo
caldo pomeridiano;
un falco, ormai lontano,
predata aveva una in sé troppo fida
rondine. Noi n’udimmo ancor le strida.
Canzonetta 7
Il mendico
Andrei piú curvo per la via e piú mesto
quando tu mi lasciassi; altro che questo,
no, non creder, bambina.
Malinconia m’inclina
ai pensieri adoranti, alle dolcezze
del sogno, ad obliarmi in mute ebbrezze.
Di dubbi, d’amarissimi pensieri,
di te avevo, Chiaretta, ancora ieri
dentro di me la pena.
La via d’alberi amena
tra le case facevo, verso il basso
piú stretta ed affollata ad ogni passo.
Era mezza nel sol, mezza nell’ombra.
Cosa m’apparve che mi fece sgombra
l’anima del suo male.
Il piú triste mortale,
un mendico, m’apparve. Egli cantava,
appoggiato al compagno, e lento andava.
«Il paese – cantava – ove son nato
Livorno di Toscana vien chiamato».
Al passante, all’ignoto,
fermando intorno il moto,
la sua storia poetava, il suo destino.
Il suo mestiere fu dell’imbianchino.
Il sette agosto del novantasei
– l’ora che nel tuo letto appena sei
desta, e mal desta sogni –
in quello come in ogni
altro giorno era andato a lavorare.
Una facciata doveva imbiancare.
E la pittura gli fece difetto,
e si sporse a chiamar dal parapetto
nella corte il garzone...
Accorsero persone;
fu a braccia all’ospedale trasportato;
e tre mesi – cantava – vi è restato.
Lacrimava una donna alla finestra
bassa della sua casa; ogni altra destra
piú dell’usato dava.
Sol cui egli donava
nulla gli porse per campar sua vita;
non feci io a lui la carità fiorita.
No. Troppe cose mi chiamava a mente
la chiara faccia, la voce dolente.
Io, fermo a una colonna,
un soldato, la donna,
tutto il mondo che udiva, e Dio, era amico.
Di te, di me m’obliai nel mendico.
Canzonetta 8
L’incisore
Mi sogno io qualche volta
di fare antiche stampe.
È la felicità.
L’ora, il tempo che fa,
la stagione dell’anno
dicon l’albero, il muro.
Il dolce chiaroscuro,
la prospettiva ardita
son la delizia mia.
Com’è bella una via,
che lenta in prima, al mezzo
rapidissima ascende.
Desiderio mi prende
tosto di tratteggiarla,
fra luci ed ombre, in pace.
Di gioia il cor si sface
quando segno i passanti,
uno qua, l’altro in fondo.
Con non so che giocondo
ai fatti suoi va ognuno.
Quelli che vanno, vanno
in eterno; se stanno,
fra lor parlan per sempre.
Fuori d’un pianoterra,
nude le braccia, ferra
d’un cavallo la zampa
giovane maniscalco.
Io guardo il vero, e calco
qual’è la dolce vita,
con qualche cosa ancora,
che dice: guarda e adora;
guarda se il mondo è bello,
se il tuo dolor non vale.
Quante (e il diletto è uguale)
quante altre cose ancora
io sulla lastra segno.
Anche interni disegno.
Una stanza: sue bianche
tendine agita il vento.
Là senza un pentimento
(o non sa ch’altri spia?)
giace fanciulla ignuda.
Nella luce che cruda
entra dalla finestra
scopre il dorso gentile.
E quel che ha un nome vile
è un’assai gentil cosa
nelle mie stampe accolta.
Canzonetta 9
Chiaretta
Altre dopo di lei
fanciulle ho conosciute:
non l’uguaglia nessuna.
E per questo a nessuna
parlai, da che la vidi,
oggi sono due anni.
Oggi sono due anni,
Chiaretta mia; e se taccio
(e sai perché) il secondo;
per nessun bene al mondo
darei quel che un baleno
scorse, tra guerre e paci.
Che lotta i primi baci
sulle labbra tremanti;
e gli offesi pudori,
e i virginei rossori
dalle braccia nascosti
sulla guancia infuocata.
Quante, da che t’ho amata,
quante piú cose afferma
l’anima, e meno nega!
Nell’oscura bottega
d’antiquario, la mia,
ti condusse il bisogno.
E poi ci hai fatto il sogno
della tua adolescenza,
signorile Chiaretta.
Subito t’ho diletta.
Ti vidi appena, e dissi:
Com’è gentile e frale!
Mai le farò del male;
e pur dolce sarebbe
farla, un poco, patire.
E poi quanto soffrire
per me, per te che care
cose, da idillio, avevi.
Con che grazia facevi
non sai, d’antichi tempi,
ogni tuo lavoretto.
Come ad un fanciulletto
dare un libro sapevi!
Quanto dolce all’amara
vita hai mesciuto, cara
tenera delicata
onesta ispiratrice
Chiaretta! Oh me felice
se pur posso ancor dire:
Male non feci io a lei.
Canzonetta 10
Le quattro stagioni
L’infanzia è un verde prato.
Nello spazio infinito
sembra, al tempo eternale.
Là l’uomo e l’animale
sono una cosa sola
con l’erbe e l’alte piante.
Meraviglie son tante
quanti fra l’erba sparsi
fioretti l’agnel pasce.
Porta il sol quando nasce
l’allegra fame, e i lunghi
sonni al suo tramontare.
La giovanezza è un mare
tempestoso; mai pace
la tua barca vi trova.
Tende alla Terra nuova
il desiderio, a un mondo
che nessun piè ha calcato.
E quel ch’è sempre stato,
sempre sarà, ha in dispregio
la stanca anima ardente,
che disperatamente
sente da sé lontano
della vita il mattino.
Un lago cristallino
è la maturità;
una sosta, una pace,
un dolore che tace,
e tranquillo si crea
la giornata operosa.
Nella luce ogni cosa
splende; il già odiato vero
è la cosa perfetta.
Ama qual’è Chiaretta:
come al fanciullo il tempo
sembra, a chi opra, eterno.
La vecchiezza è l’inverno,
spesso ai ricchi felice,
al povero tremendo.
Quei che in sua mano avendo
il suo tesoro, in vane
cure, qua e là, lo sperde;
anche quel poco perde
che a sé serbava, quando
la piú ardua età viene.
Ma chi accresce il suo bene,
chi lo sperde, oblia tutto
sotto un erboso prato.
Canzonetta 11
Il poeta
Io non so amare,
io non so fare
bene che questa cosa,
cui dava a me la vita dolorosa
unico scampo.
Io dico l’arte
d’incider carte
di difficili versi,
che spesso stanno fra lor come avversi
nemici in campo.
Quando piú dolce
la rima molce
l’orecchio, e quando pare
che della canzonetta il vago andare
segua d’amica;
ahi che nessuno,
fuor di me e d’uno
ne sa il prezzo in dolore.
Chi beve il vino, e dell’agricoltore
sa la fatica?
Per questo bene
di quante pene
devo regger l’assalto!
Muovere audace, trar rapido un salto
fuor della rete.
Ardito e scaltro,
per far non altro
che la mia buona guerra,
quante forze ho d’abbatter sulla terra,
e in me secrete!
Campar la vita
con l’infinita
pena di rei negozi;
e dar la mia giornata per gli ozi
aspri d’un’ora.
E tanto in cuore
aver d’amore
da dire: Tutto è bello;
anche l’uomo e il suo male, anche in me quello
che m’addolora.
Canzonetta 12
Sopra un mio antico tema
Di Piazza Grande
nel ciel piú grande
c’è là verso la riva,
nuvoletta rosata, che l’estiva
sera prepara.
Come beata
la delicata
nell’azzurro si culla,
e come mi ricorda una fanciulla
che ha nome Chiara.
Tutti felici
i miei amici
la guardano con me,
coi miei occhi la guardano, al caffè
stando seduti.
Sono per lei
quei versi miei
che feci or son vent’anni,
(i primi), ignaro che avrei tanti affanni
e beni avuti.
Nella mia stanza,
muta esultanza
dentro il cuore premendo,
stavo un mattino, in me lieto volgendo
il destin mio.
D’ingenuo amore
batteva il cuore
pel caro amico allora.
M’affaccio e vedo quel lume d’aurora
nel ciel natio.
In due spezzarsi
e dileguarsi
poscia in aere lo vidi;
ed un mesto e soave anche in lui vidi
ammonimento.
Or che non oso
fama e riposo
sperar fuor della morte,
nella mia nuvoletta la mia sorte
amo e rammento.
Finale
L’umana vita è oscura e dolorosa,
e non è ferma in lei nessuna cosa.
Solo il passo del Tempo è sempre uguale.
Amor fa un anno come un giorno breve;
il tedio accoglier numerosi gli anni
può in una sola giornata; ma il passo
suo non sosta, né muta. Era Chiaretta
una fanciulla, ed ora è giovanetta,
sarà donna domani. E si riceve,
queste cose pensando, un colpo in mezzo
del cuore. Appena, a non pensarle, l’arte
mi giova; fare in me di molte e sparse
cose una sola e bella. E d’ogni male
mi guarisce un bel verso. Oh quante volte
– e questa ancora – per lui che nessuno
piú sa, né intende, sopra l’onte e i danni,
sono partito da Malinconia
e giunto a Beatitudine per via.
Autobiografia
(1924)
1
Per immagini tristi e dolorose
passò la giovanezza mia infelice,
che l’arte ad altri ha fatte dilettose,
come una verde tranquilla pendice.
Tutto il dolor che ho sofferto non lice
dirlo, né voglion mie rime festose.
Amano esse chi in suo cuore dice:
Per rinascer torrei le stesse cose.
A viver senza il molto ambito alloro
fui forse il solo poeta italiano;
né questo ancor mi fa un’anima amara.
Quando un debole sono non m’accoro.
L’orgoglio è il mio piú buon peccato umano.
La mia giornata a sera si rischiara.
2
Quando nacqui mia madre ne piangeva,
sola, la notte, nel deserto letto.
Per me, per lei che il dolore struggeva,
trafficavano i suoi cari nel ghetto.
Da sé il piú vecchio le spese faceva,
per risparmio, e piú forse per diletto.
Con due fiorini un cappone metteva
nel suo grande turchino fazzoletto.
Come bella doveva essere allora
la mia città: tutta un mercato aperto!
Di molto verde, uscendo con mia madre,
io, come in sogno, mi ricordo ancora.
Ma di malinconia fui tosto esperto;
unico figlio che ha lontano il padre.
3
Mio padre è stato per me «l’assassino»,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
piú d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggí come un pallone.
«Non somigliare – ammoniva – a tuo padre».
Ed io piú tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.
4
La mia infanzia fu povera e beata
di pochi amici, di qualche animale;
con una zia benefica ed amata
come la madre, e in cielo Iddio immortale.
All’angelo custode era lasciata
sgombra, la notte, metà del guanciale;
mai piú la cara sua forma ho sognata
dopo la prima dolcezza carnale.
Di risa irrefrenabili ai compagni,
e a me di strano fervore argomento,
quando alla scuola i versi recitavo;
tra fischi, cori, animaleschi lagni,
ancor mi vedo in quella bolgia, e sento
sola un’intima voce dirmi bravo.
5
Ma l’angelo custode volò via,
e tacque in cuore quell’intima voce.
Tanto amavo una cosa quanto è ria.
Ogni veleno cercavo che nuoce.
Scuri pensieri con malinconia
mi dava l’ozio che a lascivia doce.
Quando rinacqui un’altra era la mia
anima, come un’altra la mia voce.
Dal fanciullo era nato il giovanetto,
ma triste ancora, ancor senza baldanza,
ed incerta ai suoi occhi era la mèta.
A sé e ad altri crudele, del suo letto
in un canto sedeva in buia stanza,
come chi finge una pena secreta.
6
Ebbi allora un amico; a lui scrivevo
lunghe lettere come ad una sposa.
Per esse appresi che una grazia avevo,
e a tutti ancor, fuor che a noi due, nascosa.
Dolci e saggi consigli io gli porgevo,
e doni a tanta amicizia amorosa.
Sulle sue gote di fanciul vedevo
l’aurora in cielo dipinta di rosa.
Su quelle care chiome avrei voluto
por di mia mano l’alloro una sera
di gloria, e dir: Questo è l’amico mio.
Fede il destino a lui non ha tenuto,
o forse quale mi apparve non era.
Egli era bello e lieto come un dio.
7
Era già il tempo d’amare; un giocondo
l’alba mi dava ed il vespro stupore.
Cosí cammina per le vie del mondo
chi veramente del mondo è signore.
Ai colli uscivo la sera o al rotondo
lido del mare, e mi diceva il cuore:
Dell’umana natura essere al fondo
pensavi, e invece ne sei quasi fuore.
Un poeta, di cui quando va il canto
per l’ampia Terra, si vede la gente,
pure a lui grata, volgersi per via,
a riguardarlo! Ed io son nato a tanto,
io qui su questo lido ora giacente.
È possibile, oh ciel, che questo sia?
8
Cosí sognavo, e in ciel la vespertina
stella brillava presso al dolce e bianco
spicchio lunare, e in grembo alla marina
si rifletteva, tremula. O uno stanco
esser credevo, al sole che vien manco
visibilmente, mia scialba mattina
paragonando. E piansi, e feci anco
pianger mia madre ad abbracciarmi china.
Voluto in parte, in parte era pur vero
il mio dolore. Ma che sia soffrire
lo seppi poi, quando un’idea improvvisa
mi strinse il cuore, m’occupò il pensiero
di mostri, insonne credevo impazzire.
E questo fu verso i vent’anni, a Pisa.
9
Notte e giorno un pensiero aver coatto,
estraneo a me, non mai da me diviso;
questo m’accadde; nei terrori a un tratto
dell’inferno cader dal paradiso.
Come da questo spaventoso fatto
io non rimasi, ancor lo ignoro, ucciso.
Invece strinsi col dolore un patto,
l’accettai, con lui vissi viso a viso.
Vidi altri luoghi, ebbi novelli amici.
Strane cose da strani libri appresi.
Dopo quattro o cinque anni, a poco a poco,
non piú quei giorni estatici e felici
ebbi, mai piú; ma liberi, ed intesi
della vita e dell’arte ancora al gioco.
10
Vivevo allora a Firenze, e una volta
venivo ogni anno alla città natale.
Piú d’uno in suoi ricordi ancor m’ascolta
dire, col nome di Montereale,
i miei versi agli amici, o ad un’accolta
d’ignari dentro assai nobili sale.
Plausi n’avevo, or n’ho vergogna molta;
celarlo altrui, quand’io lo so, non vale.
Gabriele d’Annunzio alla Versiglia
vidi e conobbi; all’ospite fu assai
egli cortese, altro per me non fece.
A Giovanni Papini, alla famiglia
che fu poi della «Voce», io appena o mai
non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece.
11
Me stesso ritrovai tra i miei soldati.
Nacque tra essi la mia Musa schietta.
In camerata, durante i sudati
giochi, nella prigione oscura e stretta,
pochi sonetti mi cantai, beati
di libertà, per un’appena detta
vena di nostalgia qua e là dorati,
volti a chi solo il tuo ritorno aspetta.
Ero come in un sogno m’hai sognato
tu, Lina, allora. E il sogno mi narravi
cosí che la tua lettera ho baciata.
«Marinaio in licenza eri tornato,
e con quanto entusiasmo mi parlavi
della tua vita a me meravigliata!»
12
Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il piú della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.
Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di piú ardita
sincerità; né dalla sua fu fin’
ad oggi mai l’anima mia partita.
Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un’altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.
Per l’altezze l’amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.
13
Ero con lei quando il mio libro usciva,
il primo, e n’ebbi i primi disinganni.
Qualche porta qua e là vero s’apriva
alla mia Musa dai semplici panni;
ma niuno intese quale custodiva
letizia in cor di superati affanni;
nessuna voce alla collina udiva
di Montebello giungermi in quegli anni.
Di nuovo ero con lei quando a Bologna,
per quelle rosse anguste vie a me care,
la Serena cantai Disperazione.
Ed a Milano, dove non si sogna
d’arte felicemente, e me pensare
potevo già fra le spente persone.
14
Ritornai con la guerra fantaccino.
Fui cattivo poeta e buon soldato:
vorrei ben dirlo! Ma non pur bambino
amavo contro il vero esser lodato.
Cantai di Zaccaria, cantai di Nino,
e d’altri figli del popolo amato.
Ma non piú dei miei giorni in sul mattino
troppo sotto alle cose son restato.
A Giorgio Fano, al buon Guido Voghera,
ai dolci amici di Trieste andava
l’anima da caserme e accampamenti.
Dell’Europa – pensavo – ecco, è la sera;
quella che a noi fanciulli s’annunciava
per gli estremi bagliori in lei fulgenti.
15
Una strana bottega d’antiquario
s’apre, a Trieste, in una via secreta.
D’antiche legature un oro vario
l’occhio per gli scaffali errante allieta.
Vive in quell’aria tranquillo un poeta.
Dei morti in quel vivente lapidario
la sua opera compie, onesta e lieta,
d’Amor pensoso, ignoto e solitario.
Morir spezzato dal chiuso fervore
vorrebbe un giorno; sulle amate carte
chiudere gli occhi che han veduto tanto.
E quel che del suo tempo restò fuore
e del suo spazio, ancor piú bello l’arte
gli pinse, ancor piú dolce gli fe’ il canto.
Il lussurioso
Ero, fanciullo, il primo in ogni ludo;
e sempre, come avessi avuto l’ale,
tendevo all’alto. Or tutto il bene e il male
in un pensiero che non dico chiudo.
Da me ogni gioia, fuori una, escludo
in cielo e in terra; al mio ardore mortale
il tronco è dato per castigo, al quale
Amore m’ha legato inerme ignudo.
Ahi, questi dispietati atroci nodi
m’entran sí dolci nella viva carne
che libertà, potendo, non torrei.
Piú caro li stringesse in nuovi modi
Amore intorno alle mie membra, a farne
sprizzare il sangue giovanile, avrei.
Il violento
Dov’è un cuore del mio piú alto e umano
nel mondo che il mio amore tutto abbraccia?
Morti e rovine segnan la mia traccia,
sempre, fin dove l’occhio va lontano.
S’alza per benedire la mia mano,
e tutto, quando scende, opprime e schiaccia.
Ritorno in me da un’amorosa caccia,
sangue anelante, e per sospetto insano.
Chi andando teme quanto me che un’erba
il suo piede non pesti, un fiorellino?
E sgozzo, e violo, e faccio altre sciagure.
Sola una cosa a una vita mi serba
odiosa: l’odor vostro divino,
umili sante offese creature.
L’accidioso
La vita, non so bene in che, m’offese.
Ed io non chiedo piú a lei che le cose
che son simili a morte. Gaudiose
io dico l’ore in cupi sonni spese.
Nasce l’uomo alla gloria, ad alte imprese,
a militare in schiere sanguinose.
Reo disgusto che in me Natura pose tale,
nel fiore degli anni, mi rese,
che far del giorno notte è il mio pensiero.
Ho in odio fin l’amorosa tenzone,
ed in occulto mi corrompo solo.
Fissa mia moglie in me il suo occhio nero,
dove sta scritta la mia dannazione;
e pietoso mi guarda il mio figliolo.
L’ispirato
Tutto, se lo spavento non m’atterra,
son luce. E tutte le cose create
vengon sí stranamente a me accoppiate
che il senso occulte rispondenze afferra.
Ma temo. Temo dei casi la guerra,
dell’uomo a me, alle in me imprigionate
forme, che a libertà reco. Giornate
troppo avrei dolci, senza questo, in terra.
Or d’amori inumani, or della sorte
pensoso, porto in me quasi ogni vita.
Tal dono e tal castigo ho ricevuto.
Non esser nato non vorrei, né morte
innanzi tempo; vorrei già compita
l’opera ch’è il mio Fato: esser vissuto.
L’empio
In me lo spirito uccisi, e il dolore
ch’è sacro ai beni della carne ho volto.
Se mai di me, del mio pallido volto,
misto sentissi di pietà l’orrore,
fuggi: è il deserto ove non cresce un fiore
l’anima mia: nessuna voce ascolto
che quella della femmina che accolto
m’ha in lei, che vive del mio basso ardore.
Sogno la baia piú molle che il sole
piú caldo illustra; di sotto il suo cielo
fammi vivere, in quella io sono nato.
Perché mi fruga il tuo sguardo, e che vuole?
Non temere: mia nausea a me non celo.
Non guardo sempre in su l’Appassionato?
L’appassionato
Natura, perché ardo, m’ha di rosso
pelo le guance rivestite e il mento.
Non è una brezza lo spirito: è un vento
impetuoso, ond’anche il Fato è scosso.
Deh, siimi amico, e vedrai quanto posso
darti; se mi resisti cadrai spento.
Sentissi in parte l’amore ch’io sento
per te, saresti a inginocchiarti mosso.
Non conosco nell’uomo che un delitto:
è non udir la mia implorante voce,
è non cedere al mio geloso affetto.
Ero Mosè che ti trasse d’Egitto,
ed ho sofferto per te sulla croce.
Mi chiamano in Arabia Maometto.
L’amante
Sul capo io porto un serto glorioso.
Amo una donna con cui mai non giacqui,
né mai mi giacerò, cui sempre tacqui
l’amor mio, che affissarla appena oso.
Ho su tutti in dispregio il Lussurioso.
Poiché, lode agli dèi, cotale io nacqui
che sempre e solo di quel mi compiacqui
che l’uomo fa nel giorno luminoso.
Come amerà una donna chi la sprezza
fino a corrompersi in lei? Di lei farmi
ho saputo una palma trionfale.
Veramente il mio nome è Giovanezza;
ma se un altro, o gentile, tu vuoi darmi,
chiamami il figlio di Teseo immortale.
L’eroe
Sempre, come ritorni primavera,
di me tu devi ricordarti. Io sono
il matricida Oreste, e un sacro dono
porgo ai mortali: la Tragedia austera.
Figlio di re, nella reggia straniera
vissi a un pensiero, e non parvi ancor buono
a cinger l’arme, che per tutto il suono
si udí di mia vittoria orrenda e fiera.
Come anelavo alla vendetta, e come
poi ti giunsi a baciar, terra paterna,
ahi, troppo presto! Nel terrore fiso,
immobile è il mio sguardo, erte le chiome
stanno sulla mia fronte. Ha gloria eterna
con me costui, non mai da me diviso.
L’amico
Nella sua reggia l’ospitò capace
il padre mio, di mano al suo nemico
lo trafugò, con me lo crebbe, antico
piú di lui di due anni. Cauto e audace,
io son Pilade, io son colui che tace
la propria pena per l’altrui, che dico
il vero, e mento per salvar l’amico,
temprando il suo furor con la mia pace.
Due compagni sembrammo, due nel mondo
giovani, in cerca d’avventure. Allato
gli stavo io sempre, in lieti casi e avversi.
Quello un tempo fu a noi quasi giocondo!
Ma tutto il suo dolore ei m’ha svelato,
io quello del mio cor mai non gli apersi.
Il tiranno
O tu che narri disutili fole
di cui possono i bimbi dilettarsi
e le donne ozïose, un caso darsi
ben può, il piú iniquo, e che a nessuno duole.
Non di servi certezza e di figliole
avean costor quando a dar legge apparsi;
pur sempre vidi alla mia ombra farsi
vuota la piazza cittadina al sole.
Chi dice che sol reco peste e fame,
tutta quanta volendo per me solo
la terra, che di tutti vuol natura,
quelli è un suddito reo, giusto è che a infame
laccio s’appenda, sul suo capo a volo
calin gli uccelli e n’abbiano pastura.
L’ossesso
Io son prigione d’un pensiero. Ossesso
da lui, mentre fra gli altri uomini vivo
(mera apparenza), sol da lui derivo
l’essere, tutto quanto in lui son messo.
Qual morte v’abbia piú subita spesso,
per sfuggirgli, indagai; né a tanto arrivo,
che il mio coraggio è debole, e il piú schivo
del dolore son io, io che me stesso
non amo, e al volto puoi vederlo, ai panni.
Stagioni il mondo non muta, né aspetti
per me, sí tutto con lui s’assomiglia.
Onte sol n’ebbi e senza scampo affanni;
com’è ver che per lui sto fra gli eletti,
m’ergo per lui sull’umana famiglia.
Il melanconico
Melanconia mi fu sempre compagna.
Ebbi solo da lei mie tante e care
gioie; quel bello ella m’ha fatto amare
che le mie ciglia di lacrime bagna.
Amo il lido del mare e la campagna
solitaria; da un libro poche e rare
legger parole, e molto meditare,
con una voce che in aere si lagna,
e un ruscelletto che tra i sassi o i fiori
le risponde; un po’ china amo la fronte,
e tocca già di tristezza la cosa.
Solo il volgo m’offende, egli che fuori
del mio bene mi trasse, e con impronte
dita toccò la mia ferita ascosa.
La vittima
Il bianco agnello che sul verde prato
pascola è in parte il mio dolce fratello;
che il suo destino egli non sa, coltello
non vede sul suo collo alto levato.
Io nulla ignoro, e prego anzi che il Fato
in me s’adempia, desidero quello
per cui la faccia tu ti veli; è bello
aver le mani nei ceppi, frustato
non piangi, anche il morir t’è meno amaro,
che ti spia fra le nubi il Dio in cui credi,
e il tuo sangue di rose il terren stampa.
In me tu vedi un giovanetto caro
ai tuoi sogni di bimbo: Isacco vedi,
ma senza il braccio d’Iddio che lo campa.
Il beato
Io non posso soffrire. Io sono tale,
per lieto arbitrio degli dèi, che niuna
pena mi tocca, e vivo tra una cuna
e una bara, ignorando il vostro male.
Forse sono io stesso un Immortale.
Guardami ben: vedi tu in me pur una
traccia del tuo dolore? E quanto aduna
tristezze in voi me a rattristar non vale.
Tanta bontà è nel mio cuore, che un gioco
m’è la guerra; ogni volto si fa bello
s’io l’affisso, ogni voce è una canzone.
E se dar mi potessi un’ora, un poco
del tuo dolore, io ti darei per quello
l’alta letizia di cui son prigione.
Il silenzioso
Quante cose nel mondo sono sparte
in me tu le ritrovi, in me cui piace
di bel silenzio cingermi. Mendace
non sai s’io sono, o veritiero. Parte
di me ti svelo, e ti nascondo ad arte
quanto non vo’ di me tu sappia. In pace
va’ dopo questo; se lungi aver pace
puoi, tu che in me come in aperte carte
legger presumi. Assai dagli altri udisti
lor segreto. Di me, ultimo fiore
di questo serto, tanto udir non lice.
Se m’allieti di te o di te m’attristi,
se il mio schiavo sarai, se il mio signore,
la mia bocca bellissima non dice.
Fanciulle
(1925)
1
Nuda in piedi, le mani dietro il dorso,
come se in lacci strette
tu gliele avessi. Erette
le mammelle, che ben possono al morso
come ai baci allettar. Salda fanciulla
cui fascia l’amorosa
zona selvetta ombrosa,
vago pudore di natura. Nulla,
altro ha nulla. Due ancora tondeggianti
poma con grazia unite
pare chiamino il mite
castigo della fanciullezza. Oh, quanti
vorrebbero per sé ai miei occhi il lampo
del piacere promesso,
che paradiso è spesso,
e piú spesso è l’inferno senza scampo!
2
Ammalata d’un intimo malore
ha gli occhi grandi e neri.
Reggere sogna fieri
interminati gli assalti d’amore.
Forse è vergine ancora, forse solo
pensò, pensa quel bene.
Forse in deserte arene,
tornata fiera, uccise il suo figliolo.
Eppur bella è cosí, fiore di spina,
che, se il male si tace,
toglie a te la tua pace
col franco riso di buona bambina.
Ma se piange spettacolo ti tocca
di sconvolta natura,
e se parla hai paura:
dice cose confuse la sua bocca.
3
Questa che innanzi mi viene è una fronte
di parvenza regale.
D’un qualunque mortale
a lei gli amori sembrerebber’onte.
Sempre ti dirà «prego» e non mai «voglio»;
ma, di tue lodi schiva,
in un peccato è viva,
ismisurato e divino: l’orgoglio.
Quante ha dolci compagne, ch’ella buona
da se stesse protegge;
ed a quella ch’elegge,
quanto è docile piú, piú di sé dona.
D’un dio in attesa, di potergli dare
suo cuor forte e sereno,
seno premendo a seno,
con le vergini uguali ama danzare.
4
Questa che ancor se stessa ama su tutto
ha bei capelli d’oro,
e le riveste un oro
impalpabile il corpo come un frutto.
È bella quanto può cosí acerbetta
esser bella fanciulla.
Non è fatta di nulla
la sua grazia? Non è la mia Chiaretta?
Vedi come al sapore della lode
le s’imporpora il viso.
Io le dico: «Narciso».
Si specchia nell’ingiuria ella, e ne gode.
Fortunata creatura! Ma gli anni
mutano affetti e voglie,
e l’aerea una moglie
sarà, la madre dura negli affanni.
5
Questa è la donna che un tempo cuciva
seduta alla finestra.
Nell’ago era maestra,
e l’occhio, l’occhio nella via fuggiva.
È la sartina. Ufficio oggi ha diverso,
e altrimenti è nomata.
Ma è pur la stessa. Amata
risana, langue se amore l’è avverso.
È la stessa. O mutata è sí, ma in parte
piccola veramente.
L’occhio un giorno sfuggente
oggi affissa. E di segni empie le carte.
Ma chi la vede per la via passare
sul ben calzato piede,
nella vita piú fede
sente, e in se stesso. E si volge a mirare.
6
Questa chi è che par cosí lontana,
chiusa in se stessa, assente?
Siede tra la sua gente
composta ad una maestà popolana.
Ha gli occhi grandi e freddi, da cui l’ira
tragge vive faville.
Non v’è uno su mille
che la vede e destarla non sospira.
Certo – direte – quando avrà uno sposo
sarà un forte, un guerriero.
Invece il suo pensiero
sempre a un mite s’affissa, a un doloroso.
Fra tante giovanezze ha scelto quella
che la tisi distrugge.
Ma non lo sa, e non fugge
chi giustamente la chiama sorella.
7
Com’esser può che già la cinga fiamma
d’amori e nulla veda?
Suoi nuovi amici creda
poco per sé, tutti per la sua mamma
venuti e per il babbo? Invano ad una
domanda insidiosa
speri coglierla. A cosa
tu tendi ella non sa; ti guarda e alcuna
nube le corre la fronte. Dagli occhi
scuote un ricciol castano,
il mento nella mano
rimette, un libro aperto ha sui ginocchi.
Forse natura la destina al gelo
degli alti luoghi; forse
sazia è ancor di rincorse
sul prato, con le amiche e il cane anelo.
8
Nata di gente antica e disperante,
fiore d’adolescenza,
Lina è Rebecca senza
anfora. E il suo pallore è affascinante.
Con lei ti senti come alla tua casa
fossi tornato, come
se, deposte le some
degli anni e del dolore, ancora invasa
fosse l’anima tua dei mesti sogni
d’umiltà, di perdono.
Tanto il suo sguardo è buono,
ch’esser dei suoi, per meglio amarla, agogni.
E non sai se il suo volto è, come pare,
d’ogni volto il piú bello;
ma, come il buon cammello
piega i ginocchi, tu devi adorare.
9
Maria ti guarda con gli occhi un poco
come Venere loschi.
Cielo par che s’infoschi
il suo sguardo, il suo accento è quasi roco.
Non è bella, né in donna ha quei gentili
atti cari agli umani.
Belle ha solo le mani,
mani da baci, mani signorili.
Dove veste, sue vesti son richiami
per il maschio, un’asprezza
strana di tinte. È mezza
bambina e mezza bestia. Eppure l’ami.
La sai ladra e bugiarda, una nemica
dei tuoi intimi pregi;
ma quanto piú la spregi
piú la vorresti alle tue voglie amica.
10
Oh quanto amor nei suoi sdegni nasconde
questa che invan tu molci,
che se le dici dolci
cose con una mossa ti risponde.
Piú t’ama e piú nel suo poco si stringe,
da nemico ti tratta.
Non è che finga; è fatta
cosí Malvina; se adora respinge.
Solo a taluno ell’è cortese a dare
tutto di sé, fin’anco
un sorriso. È allo stanco
della vita, a chi ha sol certezze amare.
Ma nel sogno, nel sogno che dismente
la veglia, e annuncia il vero,
non un caduto, un fiero,
per dargli amore si foggia, un vincente.
11
Come potrebbe all’ultimo convegno
ella mancarmi? Appena
potrei soffrirlo, appena
senza di lei finire il mio disegno.
Ella è Fiammetta che si giacque in braccio
a due, notti serene.
Tutto di lei ritiene,
e gli anni, e il viso, e il non mai farsi un laccio
dell’amore. Di te quanto può prende,
bimbo, e dei doni tuoi;
ti lascia se t’annoi
libero alla tua sorte, e non t’offende.
Lieta si dà perché ne prova alquanto
di dolce e punto duolo,
e qualche volta solo
perché non pianga un che la prega tanto.
12
Io non credo alla donna. Alcun insulto
non le faccio, se dico
che se l’uomo ha un nemico
questo è ancora la donna. Ella in occulto
tesse la fila eterna abbominanda
di nascite e di morti,
causa le male sorti,
ed ogni suo negozio a un fine manda
di copula e di letto. Oh come invece
l’amo ancora fanciulla!
In queste mie v’è nulla
che m’offenda, son quasi un’altra spece.
Ah, che la vita è solo ancora un gioco
generoso per esse
con levità connesse
come gli dèi, tutte simili un poco.
Sonetto di paradiso
Mi viene in sogno una bianca casetta,
sull’erto colle, dentro un’aria affatto
tranquilla; e il verde del colle è compatto
e solitario, e l’ora è benedetta.
Mi viene in sogno una dolce capretta,
che mi sta presso, e mi sogguarda in atto
placido umano, quasi un muto patto
ne legasse. Poi pasce ancor l’erbetta.
Volge il sole al tramonto; un luccichio
cava dai vetri, un dorato splendore,
della casetta su in alto romita.
E tutto il dolce che c’è nella vita
in quel sol punto, in quel solo fulgore
s’era congiunto, in quell’ultimo addio.
Canzonetta nuova
Or che si tace
– sia per brev’ora –
quanto m’accora
in me, nel mondo;
ed alla pace
che m’ha beato
è il cuore grato
quanto è profondo;
il mal non scordo
che in sé tenuto
m’ha chiuso, muto
nel suo tormento,
che a quel ricordo
di quel soffrire,
di benedire
anzi mi sento.
Era la pena
ch’intima è solo,
che piú gran duolo
par non vi sia.
Già senza lena
l’anima stava,
già boccheggiava
nell’agonia.
Piú acuto morso
sentivo, è vero,
per il pensiero
d’estranea vita,
che col rimorso
del cuore umano,
guardavo invano
chiedermi aita.
Come fu orrendo
non lo so dire;
tanto patire,
credo, è peccato;
ché, l’uomo essendo
cosa mortale,
anche il suo male
sia limitato.
Chi a liberarmi
da mala sorte,
chi la mia morte
a protrar venne?
M’ha date l’armi
di cui mi giovo
fisico nuovo
mal che sorvenne;
che lunghe l’ore
fa e dolorose,
ma d’altre cose
poi mi guarí.
Non piú il mio cuore,
soffron le membra;
oh, come sembra
dolce cosí!
Come ancor bella
la vita appare,
che pur d’amare
degno non sono,
che è sempre quella
dei miei prim’anni,
che è tutta affanni,
che è tutta un dono.
Ecco: credevo
d’essere a terra,
mia lunga guerra
perduta già,
quando mi levo
col corpo infranto,
ma in cuore un canto
di libertà.
E con sua asprezza
il mal mi dice:
Per me felice
esser saprai.
Tua giovanezza,
lo senti, è morta,
né in te risorta
piú la vedrai.
L’ultima crisi
passata è or ora;
vedi che ancora
tremi a pensarla.
Quasi due uccisi
si lasciò dietro;
al bene io tetro
seppi portarla.
Cosí il mio corpo
mi dice, il saggio,
che sa il viaggio
lungo e la mèta.
Ma mentre il corpo
mi dice questo,
libero e mesto
mio cuor s’allieta.
Penso indefesse
cure d’amore,
ed il rossore
d’un caro viso,
dolci promesse,
bei pentimenti,
e casti accenti
di paradiso.
Li ascolto quali
presenti ansiosi,
immetto ascosi
palpiti altrui.
Fò di due mali
un sommo bene;
fra tante pene
non dico: Io fui.
Due felicità1
Cinque persone fra loro congiunte,
e non di sangue, del Caffè in quel canto
che dalla via la vetrata separa,
siedono, venti e piú anni, ogni sera.
Di malizia nascosta ed in sé paga
brillan sotto gli occhiali gli occhi d’una
di queste; un’altra sopra il marmo bianco
fa suoi strani disegni; odono tutte
quand’una parla . . . . .
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
Nulla a vedersi, povere esse sono,
senza credito, quasi ignote: il meglio
della grande città dove son nate.
Un marinaio inglese ad un esterno
tavolo siede tranquillo. Ha il berretto
bianco, il vestito colore del cupo
mare, davanti una bottiglia, a mezzo
vuota, di birra. Dalla dolce terra
lontano a lungo e in fior di giovanezza,
dovrebbe, a terra, divertirsi. Invece
pensa, o pare che pensi. Una ragazza
gli siede muta di contro, che manda
dalle labbra sottili azzurro fumo.
Estranei sono: egli la guarda appena,
e, un attimo, sorride.
1 Alcuni versi di questa poesia mi sono caduti dalla memoria. Ho cercato invano di ricostruirli, piú invano ancora di sostituirli. Sono i quattro versi e mezzo, al posto dei quali l’indulgente lettore troverà dei puntini.
La vetrina
Sono a letto, ammalato. E gli occhi intorno
giro per la mia stanza. Oltre i lucenti
vetri un mobile antico a sé li chiama,
alle cose ch’esposte in lui si stanno.
Bianche stoviglie, ove son navi in blu
dipinte, un porto, affaccendate genti
intorno a quelle. Altre vi sono cose
ch’erano già nella materna casa,
cui guardo con rimorso oggi ed affanno,
e cosí lieto le guardavo un giorno,
che di nuove acquistarne avevo brama.
Ciascuna d’esse a un tempo mi richiama
che fu sí dolce, che per me non fu
tempo, che ancor non ero nato, ancora
non dovevo morire. Ed anche in parte
ero già nato, era negli avi miei
il mio dolore d’oggi. E in un m’accora
strano pensiero, che mi dico: Ahi, quanta
pace era al mondo prima ch’io nascessi;
e l’ho turbata io solo. Ed è un mendace
sogno; è questo il delirio, amiche cose.
Quanto un giorno v’ho amate, belle cose,
che siete là nella vetrina, e altrove
siete, nell’ombra e nel sole, ed oh quale
ho nostalgia di lasciarvi! Nel buio,
tornar nel buio dell’alvo materno,
nel duro sonno, onde piú nulla smuove,
non pur l’amore, soave tormento
sí, ma a me fatto intollerando. È il letto
questo in cui venni da quel caro buio,
molto piangendo, alla luce, alle cose
ond’ebber gioia i miei occhi. E mortale
non so che piú quel dí deprechi. E male
non ho che m’impauri, o è solo interno.
Come ogni notte, quando il lume spengo,
che agli occhi miei gravi di sonno apporta
esso fastidio, e metto il capo sotto
la coltre, e tutto a me stesso rinvengo,
tutto in me mi rannicchio, or sí vorrei
fare, e che piú per me non fosse giorno!
E sí tutto m’arride. Anche la gloria
viene; il suo bacio, ancor che tardo, io sento.
Del divino per me milleottocento
amate figlie, qui dalla lontana
Inghilterra venute, di voi dico,
pinte tazzine, vasellame usato
dagli avi miei laboriosi, al tempo
che la vita piú degna era e piú umana,
e molto prima che nascessi, io so
la vostra istoria, che ai vecchi la chiese
il poeta ch’è pio verso il passato.
Approdava ogni mese un bastimento
a questo porto di traffici amico,
con di voi sí gran copia che il mendico
come il ricco ne aveva. Aveva il tempo
fornito appena atroce guerra, e pace
era sui mari, ma non mai nel cuore
dell’uomo. Or voi nella vetrina state
che v’è coetanea, semplice, capace
di molte e belle forme. Ed io a guardarvi
non so, nel mio dolore, altro che morte
non so invocarmi. Non vissuto invano,
piú d’esser nato la sventura sento.
La casa della mia nutrice
1
O immaginata a lungo come un mito,
o quasi inesistente,
dove sei tu, ridente
casina, che dal primo verso addito?
Dov’è quella che avevi, viso a viso,
la tua Cappella antica?
E la finestra aprica
dov’è, che dà su tanto paradiso?
E quello che dal tetto fuor t’usciva
con odori di cena,
dimmi, lo sparse appena
il vento? O tutta una vita fuggiva?
Perché dai suoi negozi al tuo beato
pendio torna chi corse
cosí lontano? Forse
sta per morire? O forse è innamorato?
Ama forse chi amare egli non deve,
o in silenzio soltanto,
fin che a un sorriso il pianto
matura, e un dono la vita riceve?
Io so dove tu sei, ma non lo dico,
cara amata casina.
Del tutto una rovina
ti fece il tempo, ai deboli nemico?
O dentro ancor la donna ti sfaccenda,
lei che già giovanetto
con un tenace affetto
visitavo, e la luce par vi splenda
di quelle sere? Mesto ero e felice,
e in ogni male puro.
No, non dico il tuo muro
a qual s’appoggia divina pendice.
2
Glauco, tu che ammonivi
me dei giorni perduti,
(poco dei tuoi piú astuti
erano i miei pensieri,
solo un poco piú vivi,
solo un poco diversi)
vivono intatti i versi,
bimbo, a te scritti ieri.
Ieri, ora sono venti
quattr’anni, un giorno appena.
Io per taciuta pena
vò solingo, e tu, caro,
con le rime innocenti,
tu bel marinaretto
mi parli, e fai che in petto
piú ne gusti l’amaro.
Forse tanto non era
quell’amaro. Anche un poco
forse fingevo, e a gioco
m’ammonivi. D’allora,
o anima leggera,
dove ti sei posata?
Nuvoletta infuocata
sei, che all’alba scolora
e alla sera ritorna?
O tra i piú sozzi un sozzo
uomo? O il divino mozzo
della mia canzonetta,
che sul mar, come aggiorna,
canta un addio all’amore,
e salpa. Ed il mio cuore
sente allentar sua stretta.
Come ancor mi parlassi
t’odo, del mar natio;
col tuo invitando il mio
corpo all’onda turchina.
Io t’ascoltavo, e i passi
lenti volgevo altrove.
Oggi ti dico dove:
a una vecchia casina.
Sulla difficil’erta
alle caprette amica,
stava in faccia all’antica
Cappella, e giú mirava.
Io per la via deserta,
Glauco, salendo ad essa,
l’idea m’ero in cor messa
che a me, che a me pensava.
Che un pensiero amoroso
sempre un altro ne chiama;
non s’accende una brama
nell’universo invano.
Pensavo io quell’ascoso
soggiorno, e quello me.
Ma non lo dissi a te,
troppo allora lontano.
Ché di me riso avresti,
Glauco, fanciul giocondo.
Era un altro il tuo mondo,
oggi al mio meno avverso;
oggi che ai giorni mesti
torno dell’età prima,
e l’unità sublima
tutto ch’era disperso.
3
Ed a te non dirò strane parole,
se ancora operi e vivi,
a te che custodivi
me nella casa da cui sorse il sole
dell’infanzia, su cui tramonta quello
dell’abbagliante vita?
Ahi, che troppo smarrita
sei nel ricordo; il volto che sí bello
certo mi parve, è quale sulle mura
che umidità corrose
quella che un dí vi pose
immagine una pia rozza pittura.
Dov’è la donna che faceva fiori
di carta? Io non la vedo
che in ombra, mentre siedo
nella stanzetta con antichi odori.
E il balio che di molte cose sparte
ne congegna una sola?
Dove il tempo che invola
tutto, portò quella domestic’arte?
S’io non lo so, non lo saprebbe alcuno
oggi nel mondo dire.
Di una casetta uscire
se vedo il fumo fuor del tetto bruno,
sempre quella che pare, e non è, un mito,
mi richiama alla mente,
che è quasi inesistente,
un sogno dall’adolescenza uscito;
un mesto sogno del tempo felice
che nel male ero puro,
nato da un vecchio muro
poggiato ad una solatia pendice.
La brama
(Alla venerata memoria
del pittore Vittorio Bolaffio)
O nell’antica carne
dell’uomo addentro infitta
antica brama!
Illusione, menzogna,
vanità delle cose
che lei non sono, o lei
per non parere vestono diverse
forme, e son pur quest’una
in cui quanta dolcezza ha in sé il creato
la carne aduna.
Quanto ha l’uom vaneggiato
per te, feroce brama!
Nel notturno silenzio lo richiama
la tua voce, che prima è una carezza,
è, tra i pensieri e le cure, una brezza
in pomeriggio senza vento, e tuono
si fa ben tosto che assordante impera.
Ti riconosce colui che alla sera,
con lotta e pena, della vita è giunto;
ti riconosce e, per sfuggirti, morte
s’invoca; ahi, che da te
vorrebbe avere quella morte, antica
brama! E fuor del suo letto,
già profanato, nel disgusto balza,
e nell’orrore di se stesso, il fiero
giovanetto, che in cuore una vergogna
preme poi, com’è lungo il dí, e un rimorso.
Ma in questo ancora tu celi il tuo corso
sotterraneo, prepari il tuo ritorno
fatale nell’antica
carne dell’uomo senza scampo infitta
antica brama!
Con lui nata, che vale
ch’egli da sé ti scuota,
la piú mobile tu, tu la piú immota
fra le cose del mondo, antica brama!
Onnipresente, strani aspetti assumi,
ed or ti veli, ed or t’imponi in nuda
forma impudica.
Altro che te che ho detto
io nei modi dell’arte, che ho nascosto
altro che te, o svelato?
Quel che ai miei sensi ingrato
parso sarebbe senza te, e al mio alto
spirito in odio, quanto avrei siccome
di me indegno fuggito, ben cercato
l’ho per te, cupa brama.
Né maledirti ancor saprei, che troppo
sei me stesso, sei gli avi dei miei avi,
e dei miei figli i figli.
Ahi, che vorrebbe invano
rinnegare la vita
chi disse nei soavi
abbracciamenti, una sol volta disse
il «sí» cui persuadi
tu con grave dolcezza, o nell’antica
carne dell’uomo troppo addentro infitta
antica brama!
Quando l’autunno
ogni foglia colora
del suo rosso di sangue, il cor tu affanni
come un monito estremo, antica brama.
Metti il rimpianto dei giorni perduti,
delle imprese lasciate,
delle cose che avrebbero potuto
essere e che non sono,
e nell’uomo caduco
come le foglie
metti indistinte voglie
di vincere la tomba, o generante
brama! E per quali vie,
per quali accorgimenti
a questo giungi, o causa
tu del mio male, ed anche,
sí, del mio bene; che per te ora vedo
gente andare e venire,
alte navi partire,
del vasto mondo farsi
per te sola una cosa, o nell’antica
carne dell’uomo dall’inizio infitta
antica brama!
Quando ritorna
primavera che l’aria
raddolcisce, tu d’ansia il cor mi stringi,
di te lo ammali sul far della sera.
Covi lascivie nell’inverno, in sogni
mostruosi la calda estate stagni.
E talvolta ti lagni
pietosamente in sguardi ed in parole,
come fa il bimbo tenero e sperduto
che un bacio implora.
Tale alcuno t’accolse
nei suoi giovani anni, or sí altra cosa
in sé ti sente,
che vorrebbe, di dosso
per scuoterti una volta,
la tenebra aver tolta
e non la luce, il giorno che alla luce
venne, con nella nuova
carne te antica brama
sí addentro infitta.
Con gli amici talvolta
di te gioco mi prendo, assidua brama.
E v’ha tra questi uno a me caro, triste
fra i tristi, e nell’aspetto
dalla vita il piú domo.
Gioie non ha, ch’io sappia,
da te, ma lutto d’uomo.
Devotamente egli la mano stende,
che d’ansia trema, a colorir sue tele.
Sopra vi pinge vele
nel sole, accesi incontri
di figure, tramonti sulle rive
del mare e a bordo, e su ogni cosa un lume
di santità, che dal suo cuore viene
e in altrui si riflette.
Di te nulla egli mette
nell’arte sua di fanciullo, del tutto
di te pare innocente. Or quegli in lunghe
ore d’insonnia, per interi inverni
che la sua mano un segno
piú non osa, non vecchio ancor, ma curvo
come un vecchio, per te egli sogna cose
quali poi spaventose
gli sarebbero a udire, o nell’antica
carne dell’uomo per suo strazio infitta
antica brama!
Il borgo
Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m’avvenne.
Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d’uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
Non ebbi io mai sí grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent’anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.
Dove nel dolce tempo
d’infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d’umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d’immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l’alta gioia ottenuta
di non esser piú io,
d’essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.
Nato d’oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
– eco perduta
di giovanezza – per le vie del Borgo
mutate
piú che mutato non sia io. Sui muri
dell’alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.
La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da una parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m’aspetta.
Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovanezza, avrà pur egli chiesto,
sperato,
d’immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d’allora.
Girotondo
Fosse vero che invano
non si vive? E che tutto
ritorna, tutto
si dà la mano?
Di’, ne saresti lieta,
tu conscia anima mia,
riprendere la via
stessa alla stessa mèta?
Forse. Ma meno ancora
ti basta a naufragare
con piú pace nel mare
da cui venivi allora
che la madre ci diede
questo corpo mortale,
col cuore ch’ebbe il male
e non smarrí sua fede,
con gli occhi avidamente
sulle parvenze aperti
delle cose, gli esperti
occhi miei, che alla mente
tanta luce han recato,
tanto bello han veduto,
che come avrei potuto
tacere? uscire ingrato
dalla vita che invano
non si vive, in cui tutto
non torna, e tutto
si dà la mano?
Tre punte secche
1 FAVOLETTA
Il cane,
bianco sul bianco greto,
segue inquieto
un’ombra,
la nera
ombra d’una farfalla,
che su lui gialla
volteggia.
Ignara
ella del rischio, a scorno
gli voli intorno
parrebbe.
Ignara
gli viene, o astuta, addosso.
Egli di dosso
la scuote,
e volgesi
vorace all’ombra vana,
che si allontana
dal greto,
e sopra
un fiore, a suo costume,
rinchiude il lume
dell’ali.
Sappiate,
dilettissimi amici,
che nei felici
miei giorni,
ai giorni
che il mio, oggi arido, cuore
era all’amore
rinato,
anch’io,
con preda piú stupenda,
ebbi vicenda
uguale.
Ed era
bella! L’ultima cosa
che in me di rosa
si tinse.
Ed io,
io le lasciai sua vita;
io ne ho ghermita
un’ombra.
Sapevo
– sconsolata dolcezza –
ch’era saggezza
umana.
2 IL CAFFELATTE
Amara
si sente. Quanto
piú bramerebbe è quanto
non ha.
Bramerebbe, adorata
bambina,
potersi ancora un poco addormentare,
un poco
sognare ancora ad occhi aperti. Poi
che piano piano entrasse una servente
antica, alla sua culla
devota,
che porge in tazza grata
bevanda.
Il latte vi ha sapor di menta alpina,
il nero
caffè un aroma d’oltremare. Invece
sta presso il letto la sua madre arcigna;
domestica miscela
le impone.
Bramerebbe, levata
sul tardi,
avere una stanzetta ove la vita
non entra
che come un vago sussurro. Una dolce
poltrona, un libro ad aspettarla sono;
un pensiero che tace
v’è forse.
Invece, con l’usata
rampogna,
a lei fa fretta la materna voce,
temuta
come il castigo sotto il quale, è un anno,
tra bianche coltri altro bianco scopriva.
Il non suo caffelatte
giú manda.
Amara
si leva. E sente
che torna lentamente
felice.
3 COLLOQUIO
«Il cane
come all’aspetto
in ogni affetto
è nudo.
È meno
e piú che umano,
da me lontano,
ahi tanto!
Il dubbio
lo tocca appena;
con breve pena
risolve.
L’offerta,
conforme piace,
lento o vorace
abbocca.
E quanto
è a lui nocente
subito sente
e sdegna.
In pace
talvolta e in guerra,
egli pur erra
qual uomo;
e cedere
deve al piú forte,
come alla sorte
nemica.
Ne ha il danno,
non mai vergogna,
e tosto agogna
ad altro.
Un dio,
di’, non ti sembra,
già dalle membra
perfetto?»
Si accende,
parte il tuo riso,
come improvviso
un razzo.
Illumina
la tua certezza,
e la bellezza
d’un volto.
Mi scopre
fragile foglia
nella mia spoglia
umana.
Eros
Sul breve palcoscenico una donna
fa, dopo il Cine, il suo numero.
Applausi,
a scherno credo, ripetuti.
In piedi,
del loggione in un canto, un giovanetto,
mezzo spinto all’infuori, coi severi
occhi la guarda, che ogni tratto abbassa.
È fascino? È disgusto? È l’una e l’altra
cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa,
pensa se questo è l’amore. I lustrini,
sul gran corpo di lei, col gioco vario
delle luci l’abbagliano. E i severi
occhi riaperti, là piú non li volge.
Solo ascolta la musica, leggera
musichetta da trivio, anche a me cara
talvolta, che per lui si è fatta, dentro
l’anima sua popolana ed altera,
una marcia guerriera.
Tre apologhi
1 TRASFORMAZIONE
Io so d’un uomo che quando nel fiore
era degli anni, un animo pesante,
un animo mostrava assomigliante
nel suo dolore,
al vecchio che nel chiaro dí s’aggira,
affaticato in tutte le sue membra,
che triste in sé, piú triste ancora sembra
a chi lo mira.
Ma come gli anni passarono, e affetto
al suo fermo dolore lo sostenne,
l’animo suo mutò, quello divenne
del fanciulletto,
che se per un toscano il padre crede
mandarlo, per un fiasco di vin nero,
ci va di corsa, saltando leggero,
anche su un piede.
2 LATTERIA
Entrano in una latteria a me cara
un uomo ed una giovanetta. Al banco,
altra fanciulla dal viso piú stanco
mesce e prepara.
(Però un apologo questo non dico;
non c’è nessuna morale nascosta.
Forse è solo un disegno, o gli si accosta
il verso amico).
Egli per sé, per la bruna vezzosa
ordina, a un bianco tavolo sedendo.
L’altra, a quel che ha intuito sorridendo,
porta qualcosa.
3 IL FANCIULLO E LA VERGA
«Io verga t’ammonivo un dí: Conviene
essere saggi. E quando là in un canto
eri preso, ed a me sposato, oh quanto
poco di questo era per te il diletto!» –
«Oh strano, oh triste, oh risibile oggetto,
come farti ai miei occhi osi presente?» –
«Un dolore ricordo, io a te, cocente?» –
«Certo: ed ira e vergogna». – «Or che ti tiene
di gettarmi lontano?» – «Dici bene,
odiata verga; e meglio io fo: ti spezzo». –
«Ancor non l’osi, ancor non sei che a mezzo
un uomo. E se mi spezzi, è prova questa
che ancor mi temi». – «Oh, a me non sei molesta
da gran tempo!» – «Da un anno. Ma tu m’hai,
senza toccarmi, spezzata, se sai
già ridere di me, delle mie pene».
Il canto dell’amore
(Una domenica dopopranzo al cinematografo)
Amo la folla qui domenicale,
che in se stessa rigurgita, e se appena
trova un posto, ammirata sta a godersi
un poco d’ottimismo americano.
Sento per lei di non vivere invano,
di amare ancora gli uomini e la vita.
E le lacrime salgono ai miei occhi,
e mi canta nel cuore una canzone:
«Di’, non ricordi una maglia arancione,
e dello stesso colore un berretto,
che la faceva simile a un’arancia?
Di’, non ricordi la piccola Erna?»
È ancora viva la piccola Erna;
anzi è piú viva e piú allegra d’allora.
Io la credevo altrove, e qui non sola
la vidi, e in compagnia per me non bella.
«Ero – mi disse poi – con mia sorella
e col suo sposo». Ed io non t’ho creduto.
O buona, o cara, o piccola bugiarda,
mai t’ho creduto. E di crederti ho finto.
Fummo, un poco, infelici. E quando estinto
lo credi, il cuore a battere ritorna.
E mai non batte cosí come quando
a lui morto cantavi un miserere.
Non sono cose dolcissime e vere
che ho dette? E non son forse io un solitario?
Ed un poeta? E insieme anche qualcosa
d’altro e di meglio? Or questo a che mi vale?
Se questa folla qui domenicale
mi fosse estranea, mi fosse remota,
un cimbalo sarei che senza grazia
risuona, un’eco vana che si perde.
Preghiera per una fanciulla povera
Erna, strana fanciulla, oscura come
la grazia.
Un giovane
l’amava, ed ella non poteva dargli,
per quanta pena gli facesse, un bacio.
Li dava a molti i dolci baci, a quello
che la pregava piangendo, nessuno.
Di lui fu sorte ammalarsi (da tempo
era senza lavoro, era da tempo
anche a sé un peso) e la fanciulla, finta
un’improvvisa passione, la bocca
dipinta
giungeva a quella del morente.
Forse
ella può ancora guarire. Ma dove
cosa le accada di cui teme il freddo
questa fanciulla povera, Signore;
dove apparirti ella dovesse viso
a viso,
apri le porte del tuo paradiso.
Eleonora
Ero entrato davvero in agonia.
Una nuvola avevo innanzi agli occhi,
e il cor batteva lugubri rintocchi.
Mancar credevo, di colpo, per via.
Forse non era che malinconia.
Ma cosí orrenda, ma cosí... Lasciamo.
Non voglio dire cose che non amo,
che fanno pena. Voglio dire invece
come da quella morte a campar fece
l’anima mia, come da quel sí nero
flutto emerse il mio capo. Un buon pensiero
mi venne, un buon pensiero veramente.
Ed ubbidirgli non costava niente
dolore a me, niente dolore altrui.
Senza quasi volerlo, al luogo fui
dove, ai miei lenti passi, m’ha portato.
Là nella sua prigione – e par beato –
gorgheggia un merlo. Alla parete è appesa
la gabbia; egli, una lampadina accesa
col sol scambiando, fa il suo canto udire.
Là una fanciulla ti viene a servire,
del padre ancora e della madre amante.
O puro amore, o grazia folleggiante!
Ella ha un nome dolcissimo: Eleonora;
e un viso ancor piú dolce, di pastora.
*
A un uomo in agonia
davi conforto tu.
Non scorderò mai piú
questo, Eleonora mia.
È in te non so qual cosa:
una dolcezza strana,
oggi in creatura umana
quasi misteriosa.
Io non so s’altri scerna
quello che in te ho veduto.
Un angelo ho veduto
servire alla taverna.
Che pace in cor si spande
a vederti girare
fra i tavoli, portare
leggera le vivande.
Tuo corpicciolo intatto
porti fra l’ebbra gente;
accorri obbediente
bimba materna in atto.
Chi mi dava, e lo ignora,
nell’agonia conforto?
Senza chi sarei morto
ieri a sera, Eleonora?
Non è questo un amore,
lo so. È qualcosa d’altro,
che custodire scaltro
saprò dentro il mio cuore.
Da padre e madre come
ti venne il tuo sorriso,
ed il tuo dolce viso,
dolce come il tuo nome?
E lo sguardo che invano
mi chiedeva: Chi sei?
Io baciata t’avrei
la portatrice mano.
Io ti davo – o beata! –
appena una moneta.
Non volevi, poi lieta
l’hai nel palmo serrata
della mano; e una danza
il tuo passo pareva,
che fra noi due metteva
eterna lontananza.
Un uomo in agonia
hai confortato tu.
Non ti scordar mai piú
questo, Eleonora mia.
Preghiera alla madre
Madre che ho fatto
soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sí acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo)
madre
ieri in tomba obliata, oggi rinata
presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.
Pacificata in me ripeti antichi
moniti vani. E il tuo soggiorno un verde
giardino io penso, ove con te riprendere
può a conversare l’anima fanciulla,
inebbriarsi del tuo mesto viso,
sí che l’ali vi perda come al lume
una farfalla. È un sogno,
un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere
vorrei dove sei giunta, entrare dove
tu sei entrata
– ho tanta
gioia e tanta stanchezza! –
farmi, o madre,
come una macchia dalla terra nata,
che in sé la terra riassorbe ed annulla.
A Giacomo Debenedetti
Terrori s’affollavano d’intorno
al suo letto nel buio delle notti,
ed altro il suo patire era alla luce
del giorno.
Tra il padre contro a lui di verga armato,
e la madre che il volto di celato
gli baciava, nascosto egli in un canto,
premeva in cuore l’infantile odio
feroce,
che ritrovava talvolta nel pianto
conforto e voce.
Cresceva come tra le verdi fronde
un frutto,
che l’occhio al quale esso tondeggia al tutto
appaga, ma la mano ancor non coglie;
aspetta sia tra le ingiallite foglie
maturo.
Poco lontano dalla casa, amato
come la mensa ed il letto, di sparse
macerie ingombro, si estendeva breve
un prato.
Là con gli uguali a misurarsi in guerra
scendeva; ed or, pronto a rizzarsi, a terra
giacea fremente, ed or con l’avversario
abbracciato, su lui gravava intero
il peso
del corpo; ora piangeva solitario,
da un colpo leso.
Faceva come il giovane animale
che scopra
il simile, e se un poco a lui sta sopra
nella lotta, di gioia alza furenti
grida; soggiace, ed in pietosi accenti
si lagna.
Come la casa, ad un tratto gli apparve
squallido angusto dei giochi lo spiazzo;
e gli amici qua e là dispersi andati
in larve
si mutavano, in forme conosciute
nei sogni. Altrove le tristezze mute,
le lunghe noie recava del giorno;
o via con nuovi compagni di furto
fuggiva;
ma una punta, il pensiero del ritorno,
al cor sentiva.
O spiava da lungi il padre suo,
la sera,
che rincasava dal lavoro. Egli era
forse il nemico che a colpir s’appresta,
che di rado poneva alla sua testa
la mano.
Una prigione gli s’aperse oscura;
che tale il luogo l’accolse nel quale
fu messo, dove per la prima volta
a cura
si stette assidua, in potere di gente
estranea. L’ore del lavoro lente
gli gravavano addosso, riviveva
il disgusto per esse della pena
amara,
per colpa onde pentirsi non voleva,
diletta e cara.
Lo feriva talvolta come un dardo
al cuore.
Era una gioia improvvisa l’amore
per il compagno che gli era d’appresso;
sí che levava sorridendo ad esso
lo sguardo.
In quello stato lo vedeva ancora
che tra il sonno e la veglia è paradiso,
ma breve; ma ben presto l’operosa
dimora
di voci e di comandi risuonava,
ed egli, come a una croce, stirava
la forza delle braccia giovanili.
Fuori del caldo letto il corpo in piedi
mettendo,
pensieri lo ingombravano puerili,
già fatto essendo.
Diritto e saldo era il suo corpo, un bene
ignoto
a lui, che di lanciarlo in ogni moto
godeva. Un giorno del piacer le porte
gli schiuse la voluttuosa morte,
per sempre.
Il duro padre declinante in fosca
ombra, la madre a nascondere intenta
il pianto, che versato allevia, e il cuore
attosca
come piú al cuore è respinto; di pace
prive, e ciascuna sol per sé pugnace,
le sorelle; ogni cosa, in casa e fuori,
se il nuovo bene non era, era nulla
per lui,
e ne rideva come dei terrori
dei luoghi bui.
Uscenti dai suoi grandi occhi severi
gli strali
del desiderio andavano, fatali
piú che ad altri a lui stesso, al caro segno;
e gli ombreggiava non so che disdegno
il labbro.
Le catene da leggi antiche avvolte
a lui, come a dolente schiavo, intorno,
si sentiva di frangere capace,
che tolte
gli furono, per poco, d’altra mano.
Il suo compagno un dí l’attese invano
al lavoro, che ad essi là sembrava
non di quelle catene esser la meno
pesante.
Nel suo lettuccio, dí per dí, tornava,
col male, infante.
Perché non fu di lui come di foglia
che il ramo
lascia cadere anzi tempo? Al richiamo
della vita fu pronto egli a levarsi;
seppe il suo corpo di fortezza armarsi
novella.
E in ogni gara fu il primo. Fatica
non sentivano quasi le sue membra,
cui s’avvinceva la bellezza fatta
amica.
Donne che un tempo gli erano appena
raggiungibili in sogno, poi con pena
dalle sue braccia tolsero, commosse
e grate, il peso della loro carne
dolente,
a qualunque capriccio, pur che fosse
suo, compiacente.
Era la grande giovanezza, il dono
d’un dio.
Dopo il lavoro il sollazzo, l’oblio
dopo il sollazzo in un sonno profondo.
Dormiva come al principio del mondo
Adamo.
Nessun pensiero segnava la giusta
fronte, che all’ombra dei capelli in ciuffo
spioventi, piú che non fosse pareva
angusta.
Nel largo petto il suo cuore non era
altrui malvagio, la bocca di altera
forma era facile al riso, e se mai
un incaglio sorgeva, spalancata
nell’atto
di chi gridare usa al compagno: O fai
largo o ti batto.
La sua vita era tutta un trar di sorti,
un vario
volger di casi. E non piú solitario
perditore, in un canto, ora piangeva.
Col suo nemico il suo male volgeva
in riso.
Né, come di vantarsi egli era usato,
seppe di un colpo le catene frangere,
con cui l’aveva il destino servile
legato;
ma i nodi a lui dolorosi, pian piano,
con cauta piú che violenta mano
a disciogliere apprese, ed altri in vece
sua vi legava. Era ancor schiavo in parte,
e in parte
padrone. E a molti d’ubbidire fece
apprender l’arte.
Fece soffrire solo quanto aveva
sofferto.
E il garzoncello che alla legge esperto
sotto di lui diventava, era quello
che gli poneva piú che in un fratello
amore.
Era il tempo che a sé sola lo trasse
una donna. E non già che lei di tutte
piú gentile negli atti o lieta in volto
mirasse;
ma il misterioso fascino lo mise
con quella che nella sua carne uccise
piú a lungo ogni altro desiderio. Accanto
le sedeva tacendo; e come allora
leggero
mai piú non fu delle membra, né tanto
lieto a un pensiero.
Uscí per lei dalla dolente
casa del padre,
e la disse sua moglie, e fu la madre
dei figli suoi. D’ogni altra dolce cosa
parve l’anima sua fatta obliosa,
per sempre.
Poco gli amici lo videro. Vago
non era nato dei crocchi, e lo stare
in compagnia d’oziosi egli ozioso
mai pago
poté farlo del tutto. Adesso solo
si sentiva fra gli uomini. Il figliolo
suo, quell’incinta, la casa che sasso
costruiva su sasso, eran di cure
un monte
su lui, che gli facea talora al basso
piegar la fronte.
Come il merlo operava che di canti
consola
la sua donna che cova, e in largo vola
tanto e tant’alto che ne basti al nido,
da cui saluta il suo ritorno un grido
discorde.
D’assoluto padrone l’assoluto
comando egli poteva adesso imporre.
E molti ne temevano lo sguardo,
che acuto
aveva, e pronto a discoprir l’errore
nell’opra incorso onde sperava onore
gli provenisse e vantaggio. Fu buono
coi suoi; con gli altri, o almeno parve, duro.
Nessuna
cosa la vita gli lasciava in dono;
non donò alcuna.
Or si pensava a suo profitto solo
le some
recar pesanti sulle spalle. E come
degli anni suoi nell’aspra primavera,
di forze ancor piú imperiose egli era
lo schiavo.
Era, con tutta la sua forza, in mano
del Fato. E il Fato lo trasse dai suoi,
da quanto piú tenacemente amava,
lontano.
Vide, al ritorno spasimato, i guasti
dell’assenza; in potere dei rimasti,
o qua e là sperso, di sue pene il frutto.
Col costruito in giovanezza a terra
giacente,
fece come colui che sa il suo tutto
cavar dal niente.
Alla sua casa messa insieme pietra
su pietra,
piú cose aggiunse; e a farla meno tetra
in vista, e a dare piú spazio ai giocanti,
un giardinetto le piantò davanti,
ombroso.
Fu lieto piú che in giovanezza. In gioco
seppe volgere, in chiasso, ogni querela;
degli stessi dei quali era il padrone,
un poco
essere il servo. Se un uomo sostare
vedeva in mezzo alla fatica, a dare
egli era pronto la sua forza. Porre
gli era nulla in quel tempo il dorso a un peso,
per molto
che fosse, e con la sua letizia torre
l’ombra da un volto.
Donava solo quanto gli riusciva
soverchio.
Ma parco egli era, e mai volle dal cerchio
delle sue antiche costumanze uscire.
Con sé nessuno lo poteva dire
ingiusto.
Era all’estate della vita, al pieno
della sua grazia generante. I giorni
si aggiungevano ai giorni in un uguale
sereno.
Ogni compiuta fatica gli dava
il meritato compenso; sbocciava
qualche fiore da lui che della terra
viva nel grembo intrecciava le vive
radici.
Sempre piú mite fu nella sua guerra;
tornò agli amici.
Sopravvenne improvvisa la tempesta,
di dove
non seppe mai. Dentro una nube muove
il Dio che ne castiga. Le sue imprese
volsero al male, chi d’aiuto chiese
non volle.
Il ventre della sua donna s’apriva
anche una volta. Egli non n’ebbe gioia,
che d’un pensiero spaventoso il filo
seguiva.
Il novonato morí; né si dolse
egli di questo, né in pianto disciolse
quel suo nodo di dentro. Nell’attesa
si restrinse del peggio. E fu piú astuta
la morte,
e nel suo primo gli recò l’offesa
che urlar fa forte.
Come percossa da un’ira divina,
la casa
edificata dall’amore, invasa
dall’ombra della morte in ogni canto,
pareva a tratti sopra lui di schianto
crollare.
Dei rimasti il migliore un dí l’immerse
nell’angoscia, e partí lontano. Accanto
quel gli restava che cresceva in forme
perverse,
ed una giovanetta che di gelo
aveva il cuore, e cieca allo sfacelo,
solo un tormento non trovava vano:
tutta a se stessa di rose intrecciare
la vita.
La sua moglie col mento in una mano
parea impietrita.
Ora la casa assomigliava a quella
del padre,
da cui fuggiva fanciullo, e la madre
sua gli baciava, di celato, il volto.
Di ciò sofferse; da principio molto,
poi meno.
Lo prese come un sopore. Godeva
star fra gli estranei silenzioso; senza
un rimbrotto coi suoi, né una parola
sedeva.
Tornò, domato, al lavoro; di questo
non ebbe in prima che il tormento. Mesto
vi si recava; nel pieno talvolta
del suo affluire si sentiva addosso
gravare
come il disgusto di colui che ascolta
quale pena ha da fare.
Come in quel tempo lo subiva, ormai
quando le sue catene egli e l’amico
si pensavan di frangere. Piú dolce
poi gli si fece, ché ogni affanno molce
il tempo.
Ed ancora una volta lo conquise,
come in un mondo mutato, la vita.
Di cose apprese a rallegrarsi un tempo
invise.
Parve agli amici nei diporti un lieto
compagno; quello che sempre un segreto
era rimasto fra lui e il suo cuore:
dell’amorosa delizia il pensiero,
non tacque
fra i non tacenti; di piú d’un errore
rider gli piacque.
Era a quel punto d’una traversata
di mare,
quando la sponda lasciata non pare
piú da gran tempo; dell’altra, tra cielo
e mare, scoprí, se niente fa velo,
un’ombra.
Altre braccia s’avvinsero al suo vasto
petto, che ancora egli era bello, ancora
egli piaceva alla donna. Degli anni
il guasto,
la sua esperienza d’ogni male, caro
anche a taluna lo fece. Se amaro
era nei detti, e mal soffriva un torto,
poi piú che in giovanezza egli era grato
del bene,
da cui sperava un ultimo conforto
alle sue pene.
Ed il lavoro gli portò i suoi frutti
di pace.
N’era ancor piú degli altri egli capace,
che, se al sonno le membra rilasciava,
una scolpita immagine sembrava
del vespro.
Rifiorí l’agiatezza a lui d’intorno,
creata ancor dalle sue mani. Quelli
ch’era partito fece un improvviso
ritorno;
poi lo lasciò nuovamente. Il distacco
gli parve meno doloroso. Fiacco
non batteva il suo cuore; ma una sosta
gli concedeva la vita, un respiro
piú lento,
un adagiarsi nella legge imposta
men violento.
Alto e diritto andava per le usate
faccende.
Di quella luce fruiva che splende
all’orizzonte sul far della sera,
e dura a lungo, e in un punto s’annera
col resto.
Di ricordi viveva la deserta
casa, dove invecchiata innanzi tempo
la sua donna vagava come un’ombra
incerta.
Quella che un giorno fu l’intima ebbrezza
della conquista, la sua giovanezza
per lei, pei loro figli, altrui spietata,
or lo seguiva con negli occhi un muto
rancore,
quasi fosse la colpa in lui piantata
del suo dolore.
Dentro sentiva quello sguardo come
il morso
di cui soffre chi pensa essere incorso
involontario nel delitto atroce.
E se mai le parlava, era con voce
piú piana.
Come ai morenti parlava alla cara
sua donna, che, fanciulla ancor, sedeva
mano in mano con esso e bocca a bocca;
l’amara
e dolce cosa egli premendo in seno,
che o nell’acuta voluttà vien meno
del possesso, od uccide. L’ombra nota
per lei tornava della casa in ogni
suo canto.
A quel pensiero sentiva alla gota
umido il pianto.
Rimase solo come un tronco in mezzo
d’un prato.
Qualche virgulto ancora, delicato
troppo per esser vitale, n’usciva,
che dopo un breve sorriso periva
sul ramo.
E lasciò andare ogni cosa. Non ebbe,
o non espresse a parole, rimpianti;
non disse quanto di lasciar la vita
gl’increbbe,
ch’era la vita il suo lavoro, il duro
mestiere appreso da fanciullo. Oscuro
un pensiero gli nacque: ogni diletto
essere un male; e come dell’infanzia
già fuori,
la notte si stringevano al suo letto
strani terrori.
Qualche amico veniva ancor dei vecchi.
Con esso
di sotto il pergolato d’ombre spesso,
all’osteria gli era dolce sedere.
E rosseggiava a metà del bicchiere
il vino.
O a lenti passi lí tornava d’onde
con tanta pena era uscito. I garzoni
dall’opera sostavano, le facce
gioconde
verso di lui rivolgendo nell’atto
di chi mira uno strano oggetto. Affatto
egli non era necessario. Uguale
si volgeva la ruota delle cose.
Quel poco
che v’era di mutato, in bene o in male,
gli parve un gioco.
Ripensava stupito a quel suo umano
destino.
Si riviveva, a tratti, da bambino
fino a quel nulla ch’era ormai. Le larve
dei terrori, ogni sua inquietezza sparve,
per sempre.
Il tempo fu come sospeso. L’ore
rispondevano ai giorni, i giorni ai mesi,
i mesi agli anni d’una volta. Lotta,
furore,
non recava il presente, e non la gioia
breve rompeva la serena noia,
ed il silenzio in cui sedeva immerso.
Disutile sedeva, e come a mezzo
restato
tra i morti e i vivi; assai da quel diverso
ch’egli era stato.
Un nato da un suo nato, un bel monello
v’era, che un ciuffo di capelli aveva
sulla fronte spioventi. A lui parlava
di quello
no che al suo cuore era ancor triste, d’altro
gli parlava, di feste, di nient’altro
che di spassi e di feste. Sí che quando
piú non ne chiese, dissero le donne:
«Finita,
è finita col vecchio. A lui mancando
viene la vita».
A lui la lunga giornata finiva,
di cose
piena ora liete ed ora paurose;
ritornava soffrendo al buio eterno,
ei che dal buio dell’alvo materno
veniva.
Diventato era il corpo che si sface,
già poco piú d’un oggetto. Se un volto
sopra il suo si chinava, e, com’è l’uso,
di pace
mormorava parole, egli talvolta
poteva ancor sembrare uno che ascolta,
ma non degna rispondere. Fu lento
il suo morire; come il lume a estinguersi
vicino
mandava ancora qualche lampo; spento
giacque al mattino.
Era, morto sul letto, anche piú bello
d’allora
che sullo stesso egli adagiava, ancora
di voluttà desiderose, o affrante
di fatica, le membra di gigante
sommesso.
Preludio
Oh, ritornate a me voci d’un tempo,
care voci discordi!
Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi
io non vi faccia risuonare ancora?
L’aurora
è lontana da me, la notte viene.
Poche ore serene
il dolore mi lascia; il mio e di quanti
esseri ho intorno.
Oh, fate a me ritorno
voci quasi obliate!
Forse è l’ultima volta che in un cuore
– nel mio – voi v’inseguite.
Come i parenti m’han dato due vite,
e di fonderle in una io fui capace,
in pace
vi componete negli estremi accordi,
voci invano discordi.
La luce e l’ombra, la gioia e il dolore
s’amano in voi.
Oh, ritornate a noi
care voci d’un tempo!
Prima fuga
(a 2 voci)
La vita, la mia vita, ha la tristezza
del nero magazzino di carbone,
che vedo ancora in questa strada. Io vedo,
per oltre alle sue porte aperte, il cielo
azzurro e il mare con le antenne. Nero
come là dentro è nel mio cuore; il cuore
dell’uomo è un antro di castigo. È bello
il cielo a mezzo la mattina, è bello
il mar che lo riflette, e bello è anch’esso
il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori
viventi. Se nel mio guardo, se fuori
di lui, non vedo che disperazione,
tenebra, desiderio di morire,
cui lo spavento dell’ignoto a fronte
si pone, tutta la dolcezza a togliere
che quello in sé recherebbe. Le foglie
morte non fanno a me paura, e agli uomini
io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi,
del nero magazzino di carbone,
vedono il cielo ed il mare, al contrasto,
piú luminosi: pensa che saranno
chiusi domani. Ed altri s’apriranno,
simili ai miei, simili ai tuoi. La vita,
la tua vita a te cara, è un lungo errore,
(breve, dorato, appena un’illusione!)
e tu lo sconti duramente. Come in me
in questi altri lo sconto: persone,
mansi animali affaticati; intorno
vadano in ozio o per faccende, io sono
in essi, ed essi sono in me e nel giorno
che ci rivela. Pascerti puoi tu
di fole ancora? Io soffro; il mio dolore,
lui solo, esiste. E non un poco il blu
del cielo, e il mare oggi sí unito, e in mare
le antiche vele e le ormeggiate navi,
e il nero magazzino di carbone,
che il quadro, come per caso, incornicia
stupendamente, e quelle piú soavi
cose che in te, del dolore al contrasto,
senti – accese delizie – e che non dici?
Troppo temo di perderle; felici
chiamo per questo i non nati. I non nati
non sono, i morti non sono, vi è solo
la vita viva eternamente; il male
che passa e il bene che resta. Il mio bene
passò, come il mio male, ma piú in fretta
passò; di lui nulla mi resta. Taci,
empie cose non dire. Anche tu taci,
voce che dalla mia sei nata, voce
d’altri tempi serena; se puoi, taci;
lasciami assomigliare la mia vita
– tetra cosa opprimente – a quella nera
volta, sotto alla quale un uomo siede,
fin che gli termini il giorno, e non vede
l’azzurro mare – oh, quanta in te provavi
nel dir dolcezza! – e il cielo che gli è sopra.
Seconda fuga
(a 2 voci)
L’ultima goccia di dolcezza esprimi,
anima stanca e muori. Oh, nella mia,
di fresco nata, tu degnassi pia
mente passare! Un dono tu mi stimi
ben grande! Che se a me tu lo facessi,
come una nuvoletta i rai del sole,
t’accoglierei nel mio seno. Non vuole
questo il destino; ed io, se pur potessi,
non lo farei. Perché cosí m’affliggi?
Perché t’amo. Di amarmi dici, e il dono
ài te non mi faresti. Chiedi un dono
che sarebbe un castigo. Oh, me lo infliggi!
Anima fanciulletta, anima cara,
ecco prendi di me quel che tu puoi.
Io prendo tutto: la dolcezza, e poi,
che piú mi piace, la tua essenza amara.
Terza fuga
(a 2 voci)
Mi levo come in un giardino ameno
un gioco d’acque;
che in un tempo, in un tempo piú sereno,
mi piacque.
Il sole scherza tra le gocce e il vento
ne sparge intorno;
ma fu il diletto, il diletto ora spento
d’un giorno.
Fiorisco come al verde Aprile un prato
presso un ruscello.
Chi sa che il mondo non è che un larvato
macello,
come può rallegrarsi ai prati verdi,
al breve Aprile?
Se tu in un cieco dolore ti perdi,
e vile,
per te mi vestirò di neri panni,
e sarò triste.
La mia tristezza non farà ai tuoi danni
conquiste.
Ascolta, Eco gentile, ascolta il vero
che viene dietro,
che viene in fondo ad ogni mio pensiero
piú tetro.
Io lo so che la vita, oltre il dolore,
è piú che un bene.
Le angosce allora io ne dirò, il furore,
le pene;
che sono la tua Eco, ed il segreto
è in me delle tue paci.
Del tuo pensiero quello ti ripeto
che taci.
Quarta fuga
(a 2 voci)
Sotto l’azzurro soffitto è una stanza
meravigliosa a noi viventi il mondo.
A guardarla nei cuori la speranza
e la fede rinasce. Da un profondo
carcere ascolto. Tutto in lei risplende,
nuovo e antico: ogni vita al suo cammino
prosegue lieta, e ad altro piú non tende
che ad esser quale ti appare. Il destino
fu cieco e sordo: io dentro una segreta
mi chiusi, dove l’un l’altro tortura
nell’odio e nel disprezzo. E chi ti vieta
d’uscirne, e qui goder con noi la chiara
luce del giorno? Oh tu, che troppo sai
farti del mondo una bella visione,
hai mai sofferto di te stesso? Oh assai,
oh al di là di ogni immaginazione!
Quinta fuga
(a 2 voci)
M’ascolta, voce fraterna, m’ascolta
voce perdutamente un giorno amata:
io t’odio e con la mia ti «devo» spegnere.
Tu m’ami ancora, tu m’amerai sempre,
tu mi sarai sempre congiunta. Forse
una certezza che non provi ostenti,
forse t’illudi. Nei tuoi cari accenti
altro mai non udivo che me stessa,
me stessa ed il lontano mio avvenire;
m’erano cari per questo. Non altra
cosa in «noi» t’era cara, altro piú eterno
in me non ascoltavi? Troppo scaltra
tu mi risuoni, e troppo antica; io sono
l’acerba primavera. Ed io l’autunno,
il tardo autunno. Amo i paesi strani,
i mari azzurri d’isole fioriti,
dove, come qui il sole, arde la luna.
Ed io le nebbie e la deserta duna.
Se un’isola è tra quelle, cui nessuna
nave approdava, ad essa io voglio giungere,
ad essa dare il mio nome. V’è presso
alla duna un fanale: tutta notte
risplende solitario, e al navigante
il pericolo accenna. Or quello sono
io veramente: un monito a chi stanco
rincasa; nella notte un lume rosso
acceso fra le brume. Io un lume verde,
in una barca alla ventura andante.
Che importa a me degli scogli? Non amo
chi pericoli accenna; altro non amo
che me sulla mia barca, e quel richiamo
che si rispecchia nell’onda,
che l’onda allunga giú fino ai porti. Restare,
andare – tu non sai? – sono una cosa.
Tutto è sempre in un punto che paurosamente
circonda lo stesso infinito.
Il vecchio stanco ed il ragazzo ardito
sono anch’essi una cosa? Un aureo anello,
che nel suo giro mirabile ha unito
il principio e la fine. Ed io il principio
sono di un’altra primavera; io «sono»
la primavera. Ed io l’autunno; un tardo,
un dolcissimo autunno. E quando a sera
il cor d’occulta nostalgia si sface,
vorrei lasciarti, fuggire. Con pace
lasciami dunque; sotto l’ingiallito
fogliame parlerò sola a me sola.
Ecco, al pianto m’inclini; ecco, tu sola
spegni in me la mia forza. Oh, non è giusto
che in te io spenga la tua debolezza?
Come potresti? Da me nell’ebbrezza
ti slanci, e in me ricadi. E, se non menti,
dirai che m’ami. Quando i tuoi accenti
mi sono cari, è perché in essi ascolto,
credo ascoltare, il mio avvenire. O il nostro,
invece, il nostro lontano passato?
Sesta fuga
(a 3 voci)
1) Io non so piú dolce cosa
dell’amore in giovanezza,
di due amanti in lieta ebbrezza,
di cui l’un nell’altro muore.
Io non so piú gran dolore
ch’esser privo di quel bene,
e non porto altre catene
di due braccia ignude e bianche,
che se giú cadono stanche
è per poco, è a breve pace.
Poi la sua bocca che tace,
tutto in lei mi dice: ancora.
Spunta in ciel la rosea aurora,
ed il sonno ella ne apporta,
che a goder ci riconforta
della grande unica cosa.
2) Io non so piú dolce cosa
dell’amore; ma piú scaltro,
ma di te piú ardente, è un altro
che a soffrir nato mi sento.
Non la gioia, ma il tormento
dell’amore è il mio diletto;
me lo tengo chiuso in petto,
la sua immagine in me vario.
E cammino solitario
per i monti e per i prati,
con negli occhi imprigionati
cari volti, gesti arcani.
Mi dilungo dagli umani:
profanar temo repente
quella ch’è nella mia mente
una tanto dolce cosa.
3) Io non so piú dolce cosa
di pensarmi. Il puro amore
di cui ardo, dal mio cuore
nasce, e tutto a lui ritorna.
Quando annotta e quando aggiorna
io mi beo d’esser me stessa.
È la cura mia indefessa
adornarmi per me sola.
La mia voce in alto vola,
scende al basso; il male e il bene
tutto è puro quando viene
all’azzurra mia pupilla,
come a un’acqua che tranquilla,
coi colori della sera,
specchia i monti, la riviera,
i viventi, ogni lor cosa.
1) Io non so piú dolce cosa
dell’ascosa mia dimora,
in cui tutto annuncia un’ora,
in cui tutto la ricorda.
Dentro come tomba è sorda,
non le giungono rumori;
vi riflettono splendori
del dí vetri pinti ad arte.
D’Oriente in lei v’è parte
per i miei lunghi riposi;
per i giochi gaudiosi
ampio ha il talamo e profondo.
Tutto il bello che nel mondo
prende e alletta gli occhi tuoi,
là raccolto veder puoi
per la grande unica cosa.
2) Io non so piú dolce cosa
dell’ascosa mia stanzetta,
sempre in vista a me diletta,
nuda come una prigione.
Poche cose vi son, buone
sol per me, per la mia vita.
I rumori della vita
giungon sí, ma di lontano.
Tutto quanto al mondo è vano,
che mal dura e mal s’innova,
spazio amico in lei ritrova
qual pulviscolo in un ciglio.
Là in un canto è il mio giaciglio,
quasi il letto d’un guerriero.
Con me giace il mio pensiero,
la mia grande unica cosa.
3) Io non so piú dolce cosa,
né dimora altra mi piace,
che vagar nella mia pace,
come nube in cielo vasto.
A me stessa, è vero, basto,
non mi punge alcuna brama;
pure amar posso chi m’ama,
e investirlo del mio fuoco.
Voi m’udite ora; fra poco
chi sarà da me beato?
Forse un misero cascato
fino al fondo giú dell’onta.
Una grazia piena e pronta
gli fa impeto nel cuore;
trasfigura il suo dolore
nella grande unica cosa.
1) Io non so piú dolce cosa
dell’amore in giovanezza;
pur v’ha, dicono, un’ebbrezza
che sta sopra anche di quella.
Non per me che in una bella
forma appago ogni desio,
ma per chi si sente a un dio
nel volere assomigliante.
Non fanciulla, non amante
– vivo grappolo autunnale –
la dolcezza per lui vale
di piegarti al suo destino.
E si taglia egli un cammino
tra gli ignavi e tra gli ostili.
Pei tuoi sogni giovanili
io non so piú grande cosa.
2) Io non so piú grande cosa
di chi, al cenno altrui soggetto,
sente d’essere un eletto
all’interna libertà.
E non ha felicità
che non venga a lui da questo.
Non t’inganni il suo esser mesto,
il suo aspetto non t’inganni.
Fra i tormenti, negli affanni
propri solo alla sua sorte,
solo a lui s’apron le
porte d’un occulto paradiso.
Là uccisor non v’è, né ucciso,
e non torbida demenza.
Dalla mesta adolescenza
io non so piú lieta cosa.
3) Io non so piú lieta cosa
del sereno in cui mi godo.
Pure quando parlar v’odo,
e parlando vaneggiare,
la mia pace vorrei dare
per la vostra, oh lo potessi!
Ma dai limiti concessi
non c’è dato, o cari, uscire.
Folle amore, orgoglio d’ire,
paradiso me non tocca.
Se baciarmi sulla bocca
fosse lecito a un mortale,
proverebbe un senso, quale
della morte è forse il gelo:
tanto azzurro è in me di cielo,
tanto in me brucia l’amore.
1) Io non so piú caldo amore
dell’amor di questa terra,
quando tutta al cor la serra
nell’abbraccio il suo fedele.
Come pomo sa di miele
e d’acerbo al mio palato;
se un amaro v’è mischiato
è perché mai me ne sazi.
Se i tormenti, se gli strazi
che tu esalti, mi prepara,
quale ho mai cosa piú cara
della sola che possiedo?
Ma mi guardo intorno, e vedo
altro ancor che strazio e lutto
sulla terra, dove al frutto
morde ognun del caldo amore.
2) Io non so piú cieco amore
dell’amore della vita.
Nella mia stanza romita;
passeggiando solitario;
da un delirio unico e vario
tutta notte posseduto,
quante, quante volte ho avuto
il pensiero io di lasciarla!
Te felice se puoi darla
del tuo amor nei rischi avvolto;
piú felice ancora, e molto,
chi a gettarla si fa un vanto;
chi la getta come un guanto
al destino che disprezza.
Ah, perché la giovanezza
della morte ha in sé l’amore?
3) Io non so di questo amore,
io non so di questa morte:
immutabile è la sorte
conceduta alla mia gioia.
Ch’altri viva, ch’altri muoia
il pensiero in me non nacque.
A crearmi si compiacque
forse un’anima in un sogno.
Forse un’anima in un sogno
cosí bella mi creava,
con la mente al bene schiava,
con l’azzurra mia pupilla,
come un’acqua che tranquilla
tutto specchia e nulla offende.
Ah, perché tra voi mi prende
desiderio d’altra cosa?
1) Io non so piú dolce cosa
del presente. Ai di remoti
mi smarrivo anch’io in ignoti
desideri, ora non piú.
Voglio il bene, e nulla piú,
di cui possa uomo godere.
Belle forme amo vedere,
possederle amo piú ancora.
La bellezza m’innamora,
e la grazia m’incatena;
e non soffro un’altra pena,
se non è di ciò l’assenza.
Alla mesta adolescenza
ho lasciati i sogni vani.
Esser uomo tra gli umani,
io non so piú dolce cosa.
2) Io non so piú dolce cosa,
né piú amara a chi n’è privo.
Nel presente appena vivo,
vedo piú ch’altri non vede.
Beni a cui nessuno crede
mi sorridono al pensiero.
Tutto il mondo un cimitero,
senza quelli mi diventa.
Tutta in me la gioia è spenta,
sana gioia in cui t’esalti.
Troppo bassi son, tropp’alti
forse i sogni che altrui taccio?
Ahi, sognando io mi disfaccio;
notti ho insonni e giorni vani.
Esser uomo tra gli umani,
no, non v’è piú dolce cosa.
3) Io non so piú dolce cosa
che potermi in voi mutare,
solo un’ora; ma tornare
potrei dopo alla mia pace?
Sarei dopo ancor capace
di adornarmi per me sola?
La delizia che s’invola
chi sa mai se si riacquista?
Io che vedo e non son vista,
se soffrir potessi il morso
della brama, forse il corso
qui piú a lungo avrei fermato.
Forse avrebbe uno ascoltato
sul mio labbro accenti vani:
ch’esser uomo tra gli umani
parve a me una dolce cosa.
1) Io non so piú dolce cosa
della dolce giovanezza.
Fino il vento l’accarezza
sulla gota, o poco punge.
Se la gloria a lei s’aggiunge
sommo è il bene che in te rechi.
A me basta udirne gli echi,
berne a lungo le parole.
Giovanezza in me si duole
solo d’esser fuggitiva.
Altra pena non ho viva,
fuori questa, nel mio cuore.
E obliarla dell’amore
anche appresi nell’incanto.
Rattristare in te di pianto
come puoi sí breve cosa?
2) Io non so piú breve cosa
della dolce giovanezza.
Di me forse piú l’apprezza
chi è già giunto alla sua sera.
Della gloria menzognera
non ascolto io la lusinga.
Bella ogni altro se la finga,
io il suo fascino ho in me estinto.
Amo sol chi in ceppi avvinto,
nell’orror d’una segreta,
può aver l’anima piú lieta
di chi a sangue lo percuote.
Bagna il pianto le sue gote,
cresce in cor la strana ebbrezza.
Per lui prova giovanezza
la sua grazia anche ai supplizi.
3) Non mi nego ai tuoi supplizi,
non ho in odio i tuoi piaceri;
non so come, i miei pensieri
si smarriscono nei vostri.
Per la fede che mi mostri,
tu a una gioia, e tu a un dolore,
se mortai fosse il mio cuore
di lui quanto vorrei darvi!
Pur son lieta di mirarvi,
e l’udirvi anche m’è caro.
Per voi provo un dono raro,
del diamante la virtú;
che in bei gialli, in rossi, in blu,
quando a un raggio di sol brilla,
lo splendor nativo immilla;
e non so piú dolce cosa.
1) Io non so piú dolce cosa
di ascoltarti, chiara voce.
Ma se nulla a te non nuoce,
ecco, esaudi quanto chiedo.
Te che ascolto e che non vedo
sei, celata, una fanciulla?
Se tal sei, dalla tua culla
d’aria scendi al mio richiamo.
La tua faccia veder bramo,
senza lei m’è il giorno oscuro.
Tanto bella io ti figuro
come dolce a udirti sei.
La tua bocca io bacerei,
tenerezza che tu ignori.
Uno fare di due ardori,
io non so piú dolce cosa.
2) Io non so piú dolce cosa,
né piú vana, amico errante.
Parla un angelo, e un amante
in lui pinge il tuo desio.
Oh t’inchina invece al mio,
che di solo udirti ho sete.
D’onde vieni, a quali mète
sei rivolta, io dir ti prego.
All’abbraccio te non lego
d’un mortale, aereo fuoco.
Ma dimora ancora un poco
qui con noi, fra terra e cielo.
Forse invan mirarti anelo?
Non hai corpo, non hai viso;
non sei forse che un sorriso.
Parla, amica, oh parla ancora!
3) Parla tu, gentile, ancora,
se di udirmi ancora agogni.
Non m’hai forse nei tuoi sogni
prima d’ora mai raggiunta?
Quando in ciel l’aurora spunta?
Nella veglia che beata
chiama questi, e n’ha celata
la sua nausea egli, il disgusto.
Nata son dal suo disgusto,
nata son dal tuo tormento:
tanto viva esser mi sento
quanto amate il viver mio.
Ma se voi tacete, anch’io,
ecco, in aere mi risolvo;
con voi libera m’evolvo,
muoio libera con voi.
Settima fuga
(a 2 voci)
La vita,
che d’altre vite si nutre, o è fugace,
o tace,
pauroso arcano, la sua propria mèta.
Sapessi almeno, non triste e non lieta,
giungere, in pace con me stessa, al giorno
estremo.
Io tremo
quando tu parli, io tremo d’ogni cosa.
Il mio cuore è una piaga dolorosa
aperta.
Esperta
io di mali, pur vivo ansia dell’ora
che ancora
deve arrecarmi il piú grande. Un amore
mi nomava alla gioia, ed il dolore,
solo il dolore, è quello che mi ha fatta
matura.
Oscura
è ancor piú la mia sorte, e disperata.
Tale sei divenuta, io sono nata
tremante.
Amante
delle forme immutabili, a me intorno
il giorno
con la sua guerra, con i suoi piaceri
la notte, mi fa l’oggi ognor dall’ieri
diverso, e cosa in tanto moto ferma
non trovo.
M’innovo
con onta. In triste vicenda infinita,
quante vite per vivere una vita
divora!
L’aurora
e il tramonto, che il del tingon di rosa,
che cosa
vedono, questa non sia che tu dici?
Siamo prese nel turbine, infelici
sorelle; e penso che una colpa è stata
il nascere.
Il nascere,
come il vincere, è contro gentilezza.
E la pietà di chi soggiace spezza
il cuore.
Orrore,
pietà, di lacerarmi fanno a gara.
Amara
sono ad altri e a me stessa... Eppure in fondo,
nell’intimo dell’essere, profondo
piú del dolore, hanno stanza pensieri
celesti.
Ridesti
anche in me sono. È come se oltre il folto
del bosco a un tratto m’apparisse il volto
del cielo.
Il gelo
si scioglie al fiato della primavera,
la nera
terra discopre di germogli piena.
Tale è l’anima mia sotto la pena.
Che mi vorrebbe ad essere felice?
Osare.
Mi pare
ch’io lo potrei. Ma nell’attimo sento
che un piú dolce rifugio è il mio tormento
antico.
Mi dico
non piú triste di te, né piú beata,
io nata
col nome di Letizia. E ascolto che ogni
vita è come la nostra, ma o di sogni
si pasce, o estranei del suo proprio male
accusa.
Rinchiusa
in me stessa, vorrei non piú vedere,
né udire. Viva, di morta giacere
fò prova.
S’innova
ogni vita per altre in lei distrutte;
di tutte
una non v’è che dica di sí atroce
legge il modo d’uscire. E quanto nuoce
n’è caro, ed anche noi l’incerta vita
amiamo.
Restiamo,
per meglio amarla, in questo ascoso porto.
Qui nessuno può toglierci il conforto
di piangere.
Ottava fuga
(a 2 voci)
Sono una fogliolina appena nata,
e intenerisco ai giovanetti il cuore.
Son la fresca vernice d’un vapore
che fischia per salpar la prima volta.
La dolcezza di muovermi m’è tolta,
se non è al venticello della sera.
Duolmi lasciarti, affollata riviera,
dove con esso anch’io venni ammirata.
Oh potessi seguirti! Oh te beata
che «devi» rimanere! E tu, potendo,
non partiresti? Non lo so. M’attendo,
come il giovane mozzo alla sua prima
prova, veder di grandi cose. In cima
del mio ramo attaccata, io ti saluto.
Io, se ritorno, quello che ho veduto,
ed altro ti dirò, foglia bennata.
Nona fuga
(a 2 voci)
Cielo che splende dopo l’uragano
piú terso;
bimbo che trova la materna mano,
ch’errava sperso;
tale io mi faccio, se da me il dolore
vien tolto;
e la felicità torna al tuo cuore,
e sul tuo volto.
Ma come un’ombra in me rimane, un mesto
pensiero.
Anch’esso, credi, anch’esso come il resto
è passeggiero.
No, che in me potrà solo con la morte
passare;
sí che dovresti la tua umana sorte
ancor piú amare.
Noi gli effimeri siamo, e siamo quelli
cui tocca
maggior grazia? Un mio bacio ti suggelli
ora la bocca.
Dov’eri, che piú baci non mi davi,
fuggita?
Non sono quella che un tempo tu amavi,
la calda vita?
che piú fugge chi n’è piú disperato
amante;
che nel petto il suo artiglio t’ha piantato
piú straziante;
che in me la voluttà, l’amore ardente
profonde;
e se ti lagni, oh come dolcemente
l’Eco risponde!
Decima fuga
(a 2 voci)
Io che una tregua vanamente imploro,
sempre agitato da un intimo moto;
io che sempre ritorno, e ti percuoto
sempre, eppure non t’odio, amica sponda;
– ti sento come una carezza: l’onda
a me che fa? – la ferma tua quiete
oh quanto, io mare, invidio! In mare liete
vivono l’onde; io solitaria esploro;
– non vedi come e in quante vite io moro,
per ricompormi in lor sonoramente? –
e alla mia noia immobile silente
nave alcuna da lungi piú non viene.
D’essere un porto nostalgia ti tiene?
Già l’ero, e grande. E azzurro cielo ed acque,
altro non vedi? Il fanciullo cui piacque
a te sposarsi nel tramonto d’oro.
Undicesima fuga
(a 2 voci)
La vita,
come per me piú inclina al suo tramonto,
piú pronto
trova alla gioia il mio danzante piede.
Da quali abissi il cielo mi rivede?
O forse un nuovo mi sorrise antico
affetto?
Diletto
fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera.
Torna l’anima mia, per lei, qual’era
un tempo.
D’un tempo
alle lacrime torno ed al sorriso.
Ucciso
forse ho il triste pensiero a me funesto
sí lungamente? Non è, ahimè!, che questo
che la vita mi fa sí dolcemente
amare?
Cantare
io devo dunque un inno alla vittoria;
altri al tuo capo il serto della gloria
imporre.
Se torre
mi vuoi di colpo alla conquisa gioia,
che muoia
in te il mio canto incominciato appena,
parla di gloria a me, della sua pena.
Il prezzo che per noi grida il mercato
ben sai;
né mai
piú saggia d’ora m’apparivi e scaltra.
Nasconderti in te stessa, è questa un’altra
tua grazia.
Io sazia
mai non sarò di udire le mie lodi,
se m’odi
tu, se sei tu che mi rispondi. Invano
ci mesceremmo alla folla; ogni umano
spregio sarebbe contro noi rivolto,
sorella.
È bella
la nostra solitudine. Ma pure
sento in essa echeggiar le altrui sventure
piú grandi.
Espandi
la materna pietà tu in ogni accento,
che spento
non ricade nel nulla. Io qui t’ascolto;
che t’importa del resto? Una di volto
e d’animo noi siamo, una nell’altra
beate;
rinate
una nell’altra. E il nostro amor profondo
è pure un dono che facemmo al mondo
noi sole.
Chi vuole
cosí non so, ma una forza fatale
il male
sempre al bene rivolge. Or fu abbastanza
detto di questo; all’intima esultanza
ritorni il canto, che la notte è forse
vicina.
Turchina
è ancor la volta del cielo, ma gli ori
delle nubi già volgono ai fulgori
supremi.
Tu tremi
a quell’immagine nostra. Per quanto
fu il pianto
che in passato versammo, che versare
dovremo ancora, or piú ci sieno care
le gioie fuggitive e il nostro eterno
affetto.
Diletto
fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera.
Ci fu l’autunno e non la primavera
propizio.
Propizio
piú della lunga e troppo accesa estate.
Ingrate
saremo dunque alla vita? ed il viso
dove col pianto combatte il sorriso,
non vuoi che ad essa per l’ultima volta
volgiamo?
Serbiamo
di questo istante il ricordo, sorella.
Può farci il male meno atroce, e bella
la morte.
Dodicesima fuga
(a 3 voci: l’Uomo, l’Eco e l’Ombra)
Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri
del cielo la tua voce ti rimando.
Ma il fanciullo dov’è che qui esultando
corse a destarti, aerea meraviglia?
Dallo stupore inarcava le ciglia,
commosso udendo i tuoi suoni lontani.
E batteva di gioia anche le mani.
Ne serba l’Eco il ricordo? Ne serba.
Io del tuo corpo son l’ombra. Sull’erba
la tua forma ripeto ingigantita.
Non ti compiaci a mirarmi? La vita
che ricevi da me, ripeti in strana
forma. E una cosa tu mi credi vana
perché ti riesco impalpabile? Eppure
esisto. Esisti; ma le mie sventure
non provi. Anche tu a vuoto, Eco, sussurri.
*
Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri
parlo ad un cuore onde ogni cura è sgombra. –
Se in pace siedi sull’erba, anche l’Ombra
che con te siede ti può divagare. –
Di quante voci tu ascolti, piú care
non ti sono le mie? Eco ripete
le tue parole. Se le dici liete,
liete le ascolti; se tu piangi io piango. –
Discacciarmi non puoi; con te rimango,
io che nacqui con te. Ma fare io posso
che non mi veda. – Che non m’oda io posso
fare. – Egli tace. – Nelle dure membra,
grave in volto, dimora. – Sí che sembra
il demonio, che in fine è poi scornato.
Perché dite cosí? Di voi beato
non fui già lungo tempo, ombre e sussurri?
*
Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri
del cielo, se m’interroghi, rispondo.
Ma io non sono un fanciullo, un giocondo
fanciullo. Io sono un’ombra, vana cosa,
lo so, ma ad occhi mortali paurosa
anche talvolta. E da me vuoi che ancora
di te mi meravigli? Come allora
che a te nuovo sembravo – ahi! – troppo nuova. –
Se t’accorgi di noi, questa è la prova
che la vita non t’ha, Uomo, distrutto;
che sai ancora stupire. Del tutto
a voi m’arrendo, amabili parvenze
di me stesso. E di molte amare assenze
consolarti sapremo. Ed io in mercede
godrò sempre di voi, di voi che fede
tenete, da me nate ombre e sussurri.
Primo congedo
Dalla marea che un popolo ha sommerso,
e me con esso, ancora
levo la testa? Ancora
ascolto? Ancora non è tutto perso?
Secondo congedo1
O mio cuore dal nascere in due scisso,
quante pene durai per uno farne!
Quante rose a nascondere un abisso!
1 Non essendo pubblicabile (nel 1928) il «Primo Congedo», l’avevo sostituito nell’edizione originale («Solaria») con questo. Ora pubblico volentieri e l’uno e l’altro; che dànno, il primo, il clima esterno; ed il secondo una delle ragioni interne dalle quali – in parte – sono nate le «Fughe».
Tre poesie alla mia balia
1
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.
Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien meno!
Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.
2
Insonne
mi levo all’alba. Che farà la mia
vecchia nutrice? Posso forse ancora
là ritrovarla, nel suo negozietto?
Come vive, se vive? E a lei m’affretto,
pure una volta, con il cuore ansante.
Eccola: è viva; in piedi dopo tante
vicende e tante stagioni. Un sorriso
illumina, a vedermi, il volto ancora
bello per me, misterioso. È l’ora
a lei d’aprire. Ad aiutarla accorso
scalzo fanciullo, del nativo colle
tutto improntato, la persona china
leggera, ed alza la saracinesca.
Nella rosata in cielo e in terra fresca
mattina io ben la ritrovavo. E sono
a lei d’allora. Quel fanciullo io sono
che a lei spontaneo soccorreva; immagine
di me, d’uno di me perduto...
3
... Un grido
s’alza di bimbo sulle scale. E piange
anche la donna che va via. Si frange
per sempre un cuore in quel momento.
Adesso
sono passati quarant’anni.
Il bimbo
è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
di molti beni e molti mali. È Umberto
Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch’ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d’allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.
Appeso al muro è un orologio antico
cosí che manda un suono quasi morto.
Lo regolava nel tempo felice
il dolce balio; è un caro a lui conforto
regolarlo in suo luogo. Anche gli piace
a sera accendere il lume, restare
da lei gli piace, fin ch’ella gli dice:
«È tardi. Torna da tua moglie, Berto».
Infanzia
Emilio ha ricevuto da sua madre
un caro dono.
Ed io, per un ricordo, gli perdono
la sua felicità.
La gabbia è appesa al muro; entro le sta
il caro dono. Egli ha un amico adesso
che assai gli piace. E quando anch’io per gli anni
ero un fanciullo, tre ne avevo. Sopra
di loro, come madre in lieti affanni,
con il piú tenero affetto imperavo.
Al merlo austero m’identificavo;
uno stornello era il fanciul vivace,
che non ero, che avrei voluto
essere. In pace
parlavo, e a lungo, a una gallina.
A lungo
cosí oggi parlo alla donna che tiene
del villaggetto carsico natio,
a lei che il seno mi porse.
E ora addio,
ma non per sempre, amata infanzia. Il fiore
della mia vita a te lo devo; ad essere
io rimasto un fanciullo, uno che reggere
ben sa gli umani pesi, e ha, in piú, il dolore
che di tra i gravi e tetri uomini appena
può far la cosa che non far gli è pena
grande: giocare.
Berto
Timidamente mi si fece accanto,
con infantile goffaggine, in una
delle mie ore piú beate e meste.
Calze portava di color celeste;
quasi un muto rimprovero gli errava
negli occhi. Una dolcezza al cor m’inferse,
grande, che poco piú, credo, sarei
morto od un grido avrei gettato. «Dammi
– pregai – la tua manina». Obbediente
egli la mise nelle mie. Ed a lungo
ci guardammo in silenzio; oh, cosí a lungo
che il tempo, come in una fiaba, a noi
non esisteva. Senza voce: «Berto
– gli dissi al fine – non sai quanto t’amo.
Io che me stesso oggi non amo, privo
del tuo pensiero vivere non posso».
Ma non pareva quanto me commosso;
anzi tolse alle mie mani la sua,
ai miei occhi i suoi occhi. «Ho tante cose,
bambino, che vorrei chiedere a te».
Quasi atterrito si ritrasse, e in se
stesso di rientrar desideroso.
«Berto – gli dissi – non aver paura.
Io ti parlo cosí, sai, ma non oso,
o appena, interrogarti. Non sei tu,
tornato all’improvviso, il mio tesoro
nascosto? Ed io non porto oggi il tuo nome?»
«Non hai – rispose; ed un sorriso come
disincantato gli corse sul volto –
non hai lí al petto la catena d’oro,
con l’orologio che mi fu promesso
un giorno?» – «Piú non usa, bimbo, adesso.
Ed il solo orologio che mi piace
ha colonnine d’alabastro, in cima
genietti che giocan con l’alloro;
è fermo a un’ora per sempre». Egli volse
a quello la gentil testina, e rise;
poi la sua mano nella mia rimise,
mi guardò in volto. «Ed io ricordo – disse –
uno ancora piú antico». – «Ed io ricordo
l’amor che in collo ti tenne, e i tuoi passi
guidava ai verdi giardini, l’amore
che ti fece – e lo sai quanto – beato». –
«Ed in guerra – rispose – ci sei stato?
Hai ucciso un nemico?» – «E sei tu Berto,
tu che mi fai queste domande? Or come
non parli invece a me della tua mamma,
che nel giorno che a noi fu cosí atroce,
per solo averti lei sola, all’amore
di cui tre anni vivevi, ti tolse?»
«La mamma che alla mia Peppa mi tolse
è morta?» – «Sí. Morí fra le mie braccia,
e di morire fu lieta. Ma prima
del tuo volto rivide ella una traccia
nella mia figliolina. Invece vive,
vive sí la tua balia, e quanto bene
ti vuole ancora! Se un bambino vede
che a te un poco assomigli, ecco che in collo
lo prende, al seno se lo stringe, dice
quelle parole che diceva a te,
tanti e tanti anni or sono. È viva ancora,
io te lo giuro; ma mutata è molto,
molto mutata d’allora... Perché,
Berto, in volto t’oscuri? Parla». – «Io sono
– rispose – un morto. Non toccarmi piú».
Cucina economica
Immensa gratitudine alla vita
che ha conservate queste care cose;
oceano di delizie, anima mia!
Oh come tutto al suo posto si trova!
Oh come tutto al suo posto è restato!
In grande povertà anche è salvezza.
Della gialla polenta la bellezza
mi commuove per gli occhi; il cuore sale,
per fascini piú occulti, ad un estremo
dell’umano possibile sentire.
Io, se potessi, io qui vorrei morire,
qui mi trasse un istinto. Indifferenti
cenano accanto a me due muratori;
e un vecchietto che il pasto senza vino
ha consumato, in sé si è chiuso e al caldo
dolce accogliente, come nascituro
dentro il grembo materno. Egli assomiglia
forse al mio povero padre ramingo,
cui malediva mia madre; un bambino
esterrefatto ascoltava. Vicino
mi sento alle mie origini; mi sento,
se non erro, ad un mio luogo tornato;
al popolo in cui muoio, onde son nato.
Ninna-nanna
Fa la nanna, bambin. Nell’altra stanza
veglia tua madre, e il cuore le si spezza,
sola. E una lieta ti annuncio certezza:
Piú non ritorna il tuo cattivo padre.
Oggi tuo padre
son io. Mi assumo, e m’è lieve, il tuo affanno.
I tuoi dolori e le tue gioie vanno
pei cieli azzurri come squille d’oro.
Se v’è un tesoro
nel mondo sarà tuo – e lo senti – un giorno.
Domani, come il sol farà ritorno,
tra balio e balia ti risveglierai.
Tu li vedrai,
le manine battendo come a un gioco,
portarti il cibo appena desto, un poco
contendersi i tuoi primi ingenui amori.
Semplici cuori
ti concede, all’inizio, il tuo destino,
perché, riconoscente ad essi, e fino
alla morte, non ami tu altra cosa.
La paurosa
notte è nemica ai pargoli mal desti.
Possono indizi scoprirvi funesti,
veder cosa che impetra al muto orrore.
Nessun dolore
ti viene in sogno dalla tua adorata.
È la goccia di nettare che data
t’è per sola una volta, e non per nulla.
Nella sua culla
dorme il tuo amico e tuo rivale Armando,
che ti piace col pugno a quando a quando
mandar piangente sulla nuda terra.
Diversa guerra
t’attende, di maggiori rischi ingombra.
Forse presso ad avvolgerti è già l’ombra
che muterà in tristezza il tuo coraggio.
Del tuo viaggio,
che lungo io penso e quasi occulto, un’orma
dietro ti lascerai, profonda. Or dorma
l’anima tua; di piú dirti non posso.
Domani in rosso
dipinto o in giallo, e col suo verde stelo,
la balia un fiore ti farà di un velo
di carta, a riguardar meraviglioso.
Lieto il suo sposo,
a lei tornando dal lavoro, un dono
ti recherà, molto gradito. È buono
con te il tuo balio, il mite macellaio.
Qual è il piú gaio
lo sai di tutti i giochi e il piú piacente.
E lo sa la tua amica, che ridente
si getta, o ad arte minacciosa, al suolo;
e là, tra strilli acutissimi, solo
ti gode a sola. Ché, nel suo pensiero,
è lei tua madre, e tu il suo figlio vero,
cui prende e giura amorosa costanza.
Nell’altra stanza
veglia una donna e il cuore le si spezza,
sola. Ti viene di là la tristezza
che avvolge la tua vita a poco a poco.
Preghiera all’angelo custode
Mi abbatto a un caro ricordo. Chi eri?
Quale sostanza t’informava? In sogno
t’ho veduto una volta: un fanciulletto
di me piú grande, ma non molto. Azzurri
calzoncini vestivi e, ben rammento,
in mano avevi una candida piuma.
Chi eri? Di saperlo oggi m’illudo,
poi che in me stesso l’appresi. Sostanza
eri d’amore, eri l’amore intorno
alla mia vita vigilante. E tutto
il tuo bel sogno ricordo. Volavi
per la stanzetta, ove il mio letto unito
poggiava a quello di mia madre. Un poco
t’abbassavi, chiedevi a lei se buono
era il figlio, e se il dí dato le avesse
l’obbedienza dovuta. Diceva
ella di sí; sul mio guanciale allora
tu deponevi la candida piuma;
e poi dalla finestra t’involavi;
e poi non sei piú ritornato. Ed oggi
che in sulla fine a me ritorni, quasi
del morto bimbo un aereo riflesso,
il liberato fantasma; io prego
solo una cosa: che fra crolli tanti,
sopra tanta rovina, a lungo io possa
e il mio compenso ritrovare, e un poco
del mondo nuovo con esso, in fra questi
puerili adorabili pensieri.
Lo specchio
Guardo un piccolo specchio incorniciato
di nero,
già quasi antico, semplice e severo
a un tempo.
Una fanciulla
– nude l’esili braccia – gli è seduta
di contro. Ed un ricordo
d’altri tempi mi viene, mentre in quello
seguo le sue movenze, e come al capo
porta le braccia, e come ai suoi capelli
rende la forma voluta. E il ricordo
narro a mia figlia, per diletto:
«Un giorno
fu, che tornavo di scuola. Il maestro
ci aveva fatta ad alta voce, e come
allora usava, la lettura. Immagina
un bambino che va solo in America,
solo a trovare sua madre. E la trova
sí, ma morente. Che se appena un attimo
ritardava, era morta. Io non ti dico
come a casa giungessi. E quando, vinto
dai repressi singhiozzi, apro la porta
e volo incontro a mia madre, lei vedo
al tuo specchio seduta, nello specchio
il primo suo capello bianco... Ed ecco
tu ridi adesso, e anch’io ne rido, o quasi,
ma non quel giorno o quelli poi».
«Non rido,
babbo, di te – mi risponde; – ma tanto
s’era a quei tempi, o eri tu solo tanto
stupido?»
E getta
le braccia intorno al mio collo, e mi bacia;
e dallo specchio e da me s’allontana.
Il carretto del gelato
Una tragedia infantile adorabile
mi si va disegnando.
Ecco il cortile: nel cortile in bianco
dipinto e in rosso un carretto. Bambini
gli fanno ressa d’intorno: montato
uno è sul mozzo della ruota. Io guardo
dalla finestra: l’occhialino al punto
stesso ha rivolto anche mia madre. «Vedi
– mi dice – se tu fossi oggi restato,
non dico molto (due ore) a studiare,
beata adesso io ti direi: Va’, e prenditi
come gli altri uno svago». Io non rispondo;
né pur le dico: Ma è vacanza. Sento
che a capo in giú cado dalla finestra,
giú lungo il muro della casa. E penso,
cosí precipitando: Oh che dolore
avrà mia madre! Quando sarò giunto
al basso, e morto sarò là trovato!
Quanto per me dovrà piangere! E lieto
non fui per me, ma per lei, come in piedi
rinvenni, a un tratto, alla finestra.
Un buono
tra i buoni? Un figlio generoso verso
la sua colpevole madre? O tra i piccoli
mostri, un mostro crudele? La vendetta
in sé trovare, cosí atroce ed abile!
Una tragedia infantile adorabile
mi si va disegnando.
Il figlio della Peppa
Le rondini
han fatto il nido intorno alla casetta,
dove mi accoglie colei che mi aspetta
ogni domenica sera; il sorriso,
solo a me dolce, del suo vecchio volto
tigrino.
Mi accoglie come accoglieva il bambino
quando saliva beato alla povera
casa della sua balia. Paradiso
era al fanciullo, è paradiso ancora
all’uomo in lotta colla vita. In tavola
mette l’usata cena; a lungo parla
di cose vive a noi soli; mi narra
come, morto il suo figlio unico, in luogo
m’ebbe di quello; il suo dolore quando
anch’io le fui, senza sua colpa, un giorno
rubato.
Da una madre amorosa a lei rubato,
dopo tre anni, all’improvviso. Troppo
tardi – mi dico – mentre l’alberato
lungo viale discendo, che al turbine
mi riconduce. Una freschezza ignota
agli altri gravi mortali la gota
mi bagna d’una lacrima, mi rende
dei giovanetti e dei fanciulli il mesto,
il solitario coetaneo. In un mondo
nuovo m’aggiro; quello ch’era al fondo
dolore si fa lieto in superficie.
Vacanze
Emilio è a Grado, ai suoi amati bagni
di mare.
Ma piove un giorno e un altro ancora. Fare
che può un bambino in casa chiuso? Offrirsi
di suo fratello maggiore, che a macchina
scrive, alla giusta collera? Nel mezzo
della stanzetta, con fracasso orrendo,
tirare il canapè? Dar noia agli altri
quanta egli stesso ne prova?
Ritorno,
a lui pensando, fanciullo in vacanza,
in un giorno di pioggia. Come Emilio,
e piú, mi annoio. E strane cose invento
onde alcuno di me s’occupi. Invano.
Da sé mia madre mi vuole lontano;
se la carezza ne cerco mi accusa
piú fastidioso di una mosca. Fingo
di rompere un oggetto, né un castigo
pur ne ricevo; è molto se a una smorfia
son fatto segno di dispregio. E sento,
come mi passo sul viso una mano,
che devo agli altri apparire, che sono
io veramente diventato brutto.
Mi butto
sulla mia bella cugina materna
Elvira. È bella, ma perfida. Come
nella sua casa signorile (un anno
v’ero vissuto in sua custodia) odora
di rose e mandorle amare. Se al seno,
solo un momento, mi stringesse! O almeno,
di me tediata, mi picchiasse! Invece
la bella mano mi scosta, poi dice
ella a mia madre: «Hai educato molto
male tuo figlio». E sull’altero volto
la mia condanna per sempre s’incide.
Mi ride
l’anima adesso a queste cose. Allora
io ne soffrivo. Chi ne soffre è ancora
Emilio, che i miei lieti versi ispira.
Partenza e ritorno
Di padre
serbo in Serbia era nata. E aveva a Padova
la bella casa signorile.
Disse
mia madre un giorno: «Se mandassi Umberto
da zia Stellina e dall’Elvira? Forse
al suo ritorno alfine m’amerà.
Forse, lontano restando, la Peppa,
l’eterna Peppa dimenticherà».
E andai lontano, a Padova. L’Elvira
molto mi piacque, meno assai la zia,
vecchia donna e severa. E quante cose
la bella Elvira m’apprese! le lettere
dell’alfabeto, un po’ d’astronomia
perfino. Il nome di lei mi piaceva,
e la sua stanza, e il suo profumo ch’era
di rose e mandorle amare. E una sera,
dalla finestra che dà sul giardino,
sento per nome chiamarmi. «Mi pare
– dico – mi pare di sentir la voce
della mia mamma di Trieste».
Un muro
vedo ed ombre danzanti, un’altra ombra
china su me, che mi tranquilla. Sono
ritornato a Trieste; in un lettuccio
giaccio ammalato. Ma, guarito appena,
chiedo ancora di lei, della mia amica.
E tanto faccio che le son condotto,
subito. Piú non m’aspettava, io credo,
la mia buona, la mia fida nutrice.
«Oh Berto, oh Berto!» esclamava, felice
a me versando il caffelatte. Io tutti
i miei progressi le appresi. Poi quando
– come un secreto fra noi due – mi chiese
se stavo bene a Padova, se stavo
meglio laggiú o con mia madre: «Era bello
coll’Elvira – le dissi; – ma con te
– e la pregai si abbassasse, che dirle
io volli questo in un orecchio – è ancora
piú bello».
Alla sua cara Itaca Ulisse
non ebbe forse un piú lieto ritorno
del mio, di Berto in via del Monte. Il giorno
era sereno fulgido; modello
rimasto in me d’ogni bel giorno, immagine
viva parlante di felicità.
Eroica
Ecco el vapor che fuma,
che vien dalla montagna.
Addio papà e mama,
me tocca de andar soldà.
Nella mia prima infanzia militare
schioppi e tamburi erano i miei giocattoli;
come gli altri una fiaba, io la canzone
amavo udire dei coscritti.
Quando
con sé mia madre poi mi volle, accanto
mi pose, a guardia, il timore. Vestito
piú non mi vide da soldato, in visita
da noi venendo, la mia balia. Assidui
moniti udivo da mia madre; i casi
della sua vita, dolorosi e mesti.
E fu il bambin dalle calze celesti,
dagli occhi pieni di un muto rimprovero,
buono a sua madre e affettuoso. Schioppi
piú non ebbi e tamburi. Ma nel cuore
io li celai; ma nel profondo cuore
furono un giorno i versi militari;
oggi sono altra cosa: il bel pensiero,
forse, onde resto in tanto strazio vivo.
Appunti
Un tiro di cannone ed una fuga
di colombi nell’aria.
Mezzogiorno
annuncia ai cittadini il lieto sparo
che i volanti impaura.
Ad un vicino
tavolo un uomo con cura gelosa
regola al polso l’orologio; a leggere
riprende, grave, il suo giornale. Io l’odio;
l’odia in me il piccolo Berto. E ad un tempo
di non assomigliargli mi fa onta,
d’essere solo e diverso...
I colombi
si sono in pace rimessi; il becchime
cercano nella piazza al sol deserta.
Congedo
O troppo per te stesso d’amor cupido
– come i deboli, ahimè! – piccolo Berto,
molto m’hai detto. Eri un bambino, io penso,
non dagli altri dissimile; minore,
in parte, ai molti tuoi compagni, larve
oggi nei sogni, che intravedo ancora
con te seduti in una stanza, e strane
cose fra loro si dicono. L’ultimo
tuo segreto mi celi? Un giorno, senza
ch’io te lo chieda, a me vorrai spontaneo
– è nei tuoi modi – confidarlo. In pace,
fino a quel giorno, in me dimora. O a prova
– se piú t’aggrada – sulle buie scale
le angoscie e i pianti di quel dí ripeti
che alla piú forte eri ceduto. O in cielo,
come due nuvolette una ne fanno,
diventa col tuo angelo custode
un sol roseo ricordo. O fra due madri,
la lieta e quella di che il mesto viso
rinnovi, oscilla. Ma da me diviso,
come una cosa a riguardarsi bella,
che tardi stringersi al cuore non giova.
Parole
Parole,
dove il cuore dell’uomo si specchiava
– nudo e sorpreso – alle origini; un angolo
cerco nel mondo, l’oasi propizia
a detergere voi con il mio pianto
dalla menzogna che vi acceca. Insieme
delle memorie spaventose il cumulo
si scioglierebbe, come neve al sole.
Risveglio
La notte vede piú del giorno.
Parte
di quella ancora, ad occhi aperti sono
il montone dipinto da Bolaffio,
che solo torce di tra il branco il muso
umano.
Non vano
godimento ne provo; quasi vivo
fosse l’amico che pur ieri è morto.
Neve
Neve che turbini in alto ed avvolgi
le cose di un tacito manto,
una creatura di pianto
vedo per te sorridere; un baleno
d’allegrezza che il mesto viso illumini,
e agli occhi miei come un tesoro scopri.
Neve che cadi dall’alto e noi copri,
coprici ancora, all’infinito. Imbianca
la città con le case e con le chiese,
il porto con le navi; le distese
dei prati, i mari agghiaccia; della terra
fa’ – tu augusta e pudica – un astro spento,
una gran pace di morte. E che tale
essa rimanga un tempo interminato,
un lungo volgere d’evi.
Il risveglio,
pensa il risveglio, noi due soli, in tanto
squallore.
In cielo
gli angeli con le trombe, in cuore acute
dilaceranti nostalgie, ridesti
vaghi ricordi, e piangere d’amore.
Ceneri
Ceneri
di cose morte, di mali perduti,
di contatti ineffabili, di muti
sospiri;
vivide
fiamme da voi m’investono nell’atto
che d’ansia in ansia approssimo alle soglie
del sonno;
e al sonno,
con quei legami appassionati e teneri
ch’ànno il bimbo e la madre, ed a voi ceneri
mi fondo.
L’angoscia
insidia al varco, io la disarmo. Come
un beato la via del paradiso,
salgo una scala, sosto ad una porta
a cui suonavo in altri tempi. Il tempo
ha ceduto di colpo.
Mi sento,
con i panni e con l’anima di allora,
in una luce di folgore; al cuore
una gioia si abbatte vorticosa
come la fine.
Ma non grido.
Muto
parto dell’ombre per l’immenso impero.
Primavera
Primavera che a me non piaci, io voglio
dire di te che di una strada l’angolo
svoltando, il tuo presagio mi feriva
come una lama. L’ombra ancor sottile
di nudi rami sulla terra ancora
nuda mi turba, quasi anch’io potessi
dovessi
rinascere. La tomba
sembra insicura al tuo appressarsi, antica
primavera, che piú d’ogni stagione
crudelmente risusciti ed uccidi.
Distacco
Muta il destino lentamente, a un’ora
precipita.
Per lui dovrò lasciarti,
mia città cosí aspra e maliosa,
dove in fondo a una bigia via è il celeste
mare.
La tua scontrosa
grazia saluterò, già vecchi amici
e pietre bacerò – cuore fedele –;
come piange il fanciullo sopra il seno
amaro, a distaccarsene per sempre.
Ritratto di Dionisio Romanelis
Dietro gli occhiali che un tuo gesto raro
squilibria, questo dicono i tuoi occhi:
«Un dio mi sento nella vecchia pelle
d’un uomo».
Un uomo
non forse, un pe2zo
sei di Trieste, come la sua Piazza
Piccola,
o degli amici a me il piú caro.
Confine
Parla a lungo con me la mia compagna
di cose tristi, gravi, che sul cuore
pesano come una pietra; viluppo
di mali inestricabile, che alcuna
mano, e la mia, non può sciogliere.
Un passero
della casa di faccia sulla gronda
posa un attimo, al sol brilla, ritorna
al cielo azzurro che gli è sopra.
O lui
tra i beati beato! Ha l’ali, ignora
la mia pena secreta, il mio dolore
d’uomo giunto a un confine: alla certezza
di non poter soccorrere chi s’ama.
Ulisse
O tu che sei sí triste ed hai presagi
d’orrore – Ulisse al declino – nessuna
dentro l’anima tua dolcezza aduna
la Brama
per una
pallida sognatrice di naufragi
che t’ama?
Cinque poesie per il gioco del calcio
1 SQUADRA PAESANA
Anch’io tra i molti vi saluto, rosso
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari
soli d’inverno.
Le angosce,
che imbiancano i capelli all’improvviso,
sono da voi sí lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.
Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente – ugualmente commosso.
2 TRE MOMENTI
Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi
che all’altra parte vi volgete, a quella
che piú nera s’accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.
Il portiere su e giú cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia,
e all’erta spia.
Festa è nell’aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun’offesa varcava la porta,
s’incrociavano grida ch’eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.
3 TREDICESIMA PARTITA
Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando
– smisurata raggiera – il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarí il presentimento della notte.
Correvano su e giú le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva
essere cosí pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.
4 FANCIULLI ALLO STADIO
Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.
Ai confini del campo una bandiera
sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l’immagine lieta; a un ricordo
si sposa – a sera – dei miei giorni imberbi.
Odiosi di tanto eran superbi
passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.
5 GOAL
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.
Cuore
Cuore serrato come in una morsa,
mio triste cuore,
rallegrati di questa ultima corsa
contro il dolore.
Quale angoscia non hai viva abbracciata,
vivo restando?
Una piccola cosa ti è bastata,
di quando in quando.
Inverno
È notte, inverno rovinoso. Un poco
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l’occhio nero;
che quello che hai veduto – era un’immagine
della fine del mondo – ti conforta
l’intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.
Poesia
È come a un uomo battuto dal vento,
accecato di neve – intorno pinge
un inferno polare la città –
l’aprirsi, lungo il muro, di una porta.
Entra. Ritrova la bontà non morta,
la dolcezza di un caldo angolo. Un nome
posa dimenticato, un bacio sopra
ilari volti che piú non vedeva
che oscuri in sogni minacciosi.
Torna
egli alla strada, anche la strada è un’altra.
Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci
spezzano mani operose, il celeste
rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa
che ogni estremo di mali un bene annunci.
Stella
Stella che m’hai veduto un giorno nascere
– passavi in cielo al primo mio apparire –
del bene in cambio che, nudo ed inerme,
da tanto male ho derivato, dammi
scendere in breve volontario all’altra
riva; ogni linea si cancella, tace
ingiustizia, non pesa piú abbandono,
fuori della tua orbita ch’io giunga,
o tu che in cielo passavi funesta.
Fantasia
Come la schiuma sul mare galleggi
sulla vita, resisti ad ogni ondata,
ogni ondata ti genera, incantevole
fantasia di un mattino rosa e oro.
Le tue oscure cagioni non ignoro,
non velo; cara al mio petto ti stringo,
come giovane madre il suo bambino,
vestito di soavità, giocondo,
io che ho messo lo sguardo fino in fondo
al mio cuore, al mio triste cuore umano.
Felicità
La giovanezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.
Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi! Sul tardi
l’aria si affina ed i passi si fanno
leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non è ancora la felicità.
Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.
Tre città
1 MILANO
Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio
villeggiatura. Mi riposo in Piazza
del Duomo. Invece
di stelle
ogni sera si accendono parole.
Nulla riposa della vita come
la vita.
2 TORINO
Ritornerò dentro la cerchia amabile
dei tuoi monti, alle vie che si prolungano
come squilli. Poi tosto in uno strano
silenzio fuggirò ritrovi, amici.
Ma cercherò il soldato Salamano,
il piú duro a parole, il piú al dovere
fermo, che in sé la tua virtú rispecchia.
Cercherò l’officina ov’egli invecchia.
3 FIRENZE
Per abbracciare il poeta Montale
– generosa è la sua tristezza – sono
nella città che mi fu cara. È come
se ogni pietra che il piede batte fosse
il mio cuore, il mio male
di un tempo. Ma non ho rimpianti. Nasce
– altra costellazione – un’altra età.
Nutrice
Guardo, donna, il tuo volto incoronato
di capelli bianchissimi, piú duro
delle pietraie del tuo Carso, inciso
di rughe, come di solchi la terra.
So che il prodigio a cui m’attendo, un attimo,
scioglie delle tue labbra la minaccia,
quei solchi appiana, gli occhi grigi illumina,
o mia madre di gioia, o tu cui devo
la dorata letizia onde il mio canto
si vena, che una gloria oggi incorona,
che ignori, come i tuoi capelli bianchi.
Sobborgo
Vecchio sobborgo improvvisato e squallido,
già campagna sassosa, poi conquista.
Sul tetto di una casa cresce l’erba,
come sui resti di un incendio. Pochi
passi piú in là c’è il Pastificio, il rosso
suo fumaiolo. Ma la giostra suona
all’ultima miseria delle cose,
alle merci che sembrano rifiuti,
alle facciate delle case invase
di una lebbra che ieri era colore,
e rallegrava lontano la vista.
Come diverso il giovane barista,
pure nato di te, da te si sente!
Mi fa un caffè come un trionfo, e i buoni
occhi in volto gli ridono sportivi.
Alba
È l’alba. La giornata che si annuncia
sarà per me come uno strazio. Pure
io la vivrò, ritroverò la fresca
sera, la pace coi nemici vinti
anche in me stesso. La mia vita è tutta
cosí; cosí me la dipingo, e lieto
per l’aperta finestra guardo l’ora
– come dentro una bolla di sapone –
ricreare gli alberi le case.
«Frutta erbaggi»
Erbe, frutta, colori della bella
stagione. Poche ceste ove alla sete
si rivelano dolci polpe crude.
Entra un fanciullo colle gambe nude,
imperioso, fugge via.
S’oscura
l’umile botteguccia, invecchia come
una madre.
Di fuori egli nel sole
si allontana, con l’ombra sua, leggero.
Donna
Quand’eri
giovinetta pungevi
come una mora di macchia. Anche il piede
t’era un’arma, o selvaggia.
Eri difficile a prendere.
Ancora
giovane, ancora
sei bella. I segni
degli anni, quelli del dolore, legano
l’anime nostre, una ne fanno. E dietro
i capelli nerissimi che avvolgo
alle mie dita, piú non temo il piccolo
bianco puntuto orecchio demoniaco.
Lago
Piccolo lago in mezzo ai monti – il giorno
le calde mucche bevono ai tuoi orli;
a notte specchi le stelle – mi sento
oggi in un brivido la tua chiarezza.
La giovanezza ama la giovanezza.
Due fanciulli qui vennero una volta.
Ti scoprirono insieme occhio di gelo.
Lavoro
Un tempo
la mia vita era facile. La terra
mi dava fiori frutta in abbondanza.
Or dissodo un terreno secco e duro.
La vanga
urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo
profondo, come chi cerca un tesoro.
Violino
Avuto
di variopinti francobolli in cambio
e muto
da tanto, cosí dolci argentei suoni
dal tuo legno cavavo io questa notte,
mio violino, sostegno
della difficile età, di lei nato
miraggio, a oscure inquietudini porto,
che il mio dono non eri.
A te nei sogni
rivivo, a quando a quando, di una notte.
Fontanella
Sotto gli alberi spogli del viale
degli svaghi offrí invano il suo zampillo.
Ma è venuta l’estate, altro le accade.
È cara a tutti, al vecchio curvo come
al giovane che il suo corpo modella
nel segno sotto cui nacque, severo.
Il passante che segue di un pensiero
arido i fili e la scopre, devia
verso una gioia pronta e gratuíta.
Offre un sorso di vita ad ogni vita,
che in sé grata l’accoglie, poi l’oblia,
per proseguire ignara al suo destino.
Bocca
La bocca
che prima mise
alle mie labbra il rosa dell’aurora,
ancora
in bei pensieri ne sconto il profumo.
O bocca fanciullesca, bocca cara,
che dicevi parole ardite ed eri
cosí dolce a baciare.
Caro luogo
Vagammo tutto il pomeriggio in cerca
d’un luogo a fare di due vite una.
Rumorosa la vita, adulta, ostile,
minacciava la nostra giovanezza.
Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli,
quanto silenzio sotto questa luna.
Solo
Sono solo. Nessuno ascolta dove
agli amici dispersi ogni richiamo
è vano.
Brilla come un ghiacciuolo l’odio, e penso
che vedrò questa sera te che amo.
Penso quanto nel sole
che rileva, nell’ombra che nasconde,
ho fatto, errato, a dirmi in pace alcune
parole.
Quando si apriva il velario
Quando si apriva il velario sul mondo
della mia fanciullezza, accorsi come
ad una festa promessa. Cadute
sono le meraviglie ad una ad una;
delle concette speranze nessuna
che mi valga, al ricordo, anche una lacrima,
anche un solo sospiro. Ma possiedo,
giovane amica, il tuo bacio, che assenze
fanno, e pietà di noi stessi, piú raro.
Era questo la vita: un sorso amaro.
Amico
Trovare,
quando la vita è al suo declino, il raggio
che primo la beò: un amico. È il bene
che mi fu dato.
Simile a me e dissimile, ribelle
e docile. Lo guardo
a me vicino respirare come
un figlio fuor d’ogni speranza nato
tenera madre.
In breve partirà, per la sua via
andrà, dubbia e difficile. Alle angosce
dei miei anni in discesa lascerà
egli la casta dolcezza di un bacio.
Ma, se il tempo gli orrori suoi precipita,
a serena letizia oggi si è volta
per lui la mente mia.
I morti amici
I morti amici rivivono in te,
e le morte stagioni. Che tu esista
è un prodigio; ma un altro lo sorpassa:
che in te ritrovi un mio tempo che fu.
In un paese m’aggiro che piú
non era, remotissimo, sepolto
dalla mia volontà di vita. È questo
il bene o il male, non so, che m’hai fatto.
Ecco, adesso tu sai
Ecco, adesso tu sai che tra i beati
non è dimora per noi. Che la vita,
come un avido sguardo, è tutta piena
di lacrime nascoste.
Amore, gelosia, taciuta brama
di belle cose come prede esposte,
ti lasciano un rimpianto oscuro, aggiungono
ancora un filo nell’antica trama
che spezzerà, forse, la morte.
A galla ti riportano
non dettate virtú, ma d’altri accenti,
che un tremito confonde, la memoria.
La tua storia finisce, si nasconde...
Ma quanti cari cuori hai conquistati!
Dall’erta
Dall’erta solitaria che nel mare
precipita – che verde oggi e schiumoso
percuote obliquo la città – si vede
il bianco panorama di Trieste.
Tu già le conoscevi – dici – queste
mie strade, ove s’incontra, al piú, una donna
che la lunga salita ansia, un fanciullo
che se Bòrea t’investe, mette l’ali
a ogni cosa, per te vola. Poi torna
a se stesso, ti passa accanto altero.
Tutto un mondo che amavo, al quale m’ero
dato, che per te solo oggi rivive.
Partita
Quante speranze nel gioco! Ma poi,
sul tavolo abbattute,
tutte le carte erano contrarie.
Fu il destino, e l’accetto. Non gli faccio
mal viso, non mi lagno
come nella chiassosa giovanezza.
Ma conosco la scala che all’altezza
conduce a me possibile.
Mi levo
tra volti amici, conto il mio guadagno.
Sul tavolo
Sul tavolo del bar dove sedemmo
l’amica estate, cadono le foglie
degli alberi su cui posa un raduno
di stornelli frenetici a emigrare.
Ma tu che mi sei prossimo hai le care
speranze. Hai la tristezza che ti segna
di un’ombra il volto giovanile. Oscuro
è il mio pianto, che agli altri e a sé si cela.
Tappeto
Cose piú belle della vita a lungo
cercavi, fanciulletta, nel suo pallido
disegno; chi sa quali evasioni...
Lo rivedi, al suo luogo.
Come allora,
il palazzo di Mille ed una notte
è aperto. Ma non v’entri tu, né alcuno
che con te sulle tue orme vagava.
Né le ceste ti allietano di frutta,
cui sorride il ragazzo che le porta.
Paradiso perduto, che rifugge
l’occhio che piú l’amava, è il bel tappeto.
Principio d’estate
Dolore, dove sei? Qui non ti vedo;
ogni apparenza t’è contraria. Il sole
indora la città, brilla nel mare.
D’ogni sorta veicoli alla riva
portano in giro qualcosa o qualcuno.
Tutto si muove lietamente, come
tutto fosse di esistere felice.
Anche un fiato di vento
Anche un fiato di vento pare un sogno
agli uomini del porto, alla bandiera
afflosciata là in cima alla terrazza
del Bagno della Diga.
Il mare, come in burrasca, si leva.
Sotto il cielo coperto è volta l’ansia
di tutti ad una raffica, alla prima,
che sbatterà le tende lungo riva,
chiuderà gli ombrelloni varieggiati,
per i quali l’estate ci veniva,
piú amica, incontro;
che sarà un refrigerio ed una fine.
Notte d’estate
Dalla stanza vicina ascolto care
voci nel letto dove il sonno accolgo.
Per l’aperta finestra un lume brilla,
lontano, in cima al colle, chi sa dove.
Qui ti stringo al mio cuore, amore mio,
morto a me da infiniti anni oramai.
Colombi
Alle curve rotaie che discendono
acqua azzurra piovana, un sorso chiedono,
un refrigerio nell’arsura.
Gravi
alle giovani noie, alla mia sera,
che li ho soli vicini, e ascolto quella
musica d’ali alla finestra, guardo
la loro vita famigliare, bella,
le loro lotte fratricide, ingenue;
come vaghe creature a me li lego
con l’offerta che so grata. La tesa
mano è richiamo a tutti i voli; rosse
zampine vi si apprendono; colori
d’arcobaleno si spiegano. Oh ai miei
portino bene, a me, nella dimora
oggi per pochi sparsi
chicchi di granoturco diventata
la casa visitata da gli angeli.
Da quando
Da quando la mia bocca è quasi muta
amo le vite che quasi non parlano.
Un albero; ed appena – sosta dove
io sosto, la mia via riprende lieto –
il docile animale che mi segue.
Al giogo che gli è imposto si rassegna.
Una supplice occhiata, al piú, mi manda.
Eterne verità, tacendo, insegna.
Camioncino
Camioncino che al Lido, azzurro e bianco,
attraversa il viale – estiva folla,
di bei colori, come sa, vestita –;
spande una canzonetta che nel cuore,
dove l’eco amorosa è ancora un bene,
la musica intrattiene delle sfere.
Giovanetti ciclisti, come al lume
farfalle, intorno gli vanno. Ma tu,
che sulla superficie della terra
cammini è tanto, e docile ti lasci
prendere a un movimento della vita!
Piazza
Chi va in caccia d’amori, chi di svaghi,
chi solo di ricordi.
Baracconi
non hanno mani a vendere la sera
le indigeste castagne ai ragazzoni
della libera uscita.
In alto regna
la gloria ancora sull’antica piazza.
Personaggio a cavallo che si annoia
nel marmo che lo adúla goffamente.
Per un fanciullo ammalato
Nella casa paterna ti aggiravi
silenzioso come un gatto. Il nome
sapevi, non la realtà, del dolore.
Dai tuoi compagni diviso, le rose
sulle guance affilate impallidivano.
Rinato dalla mia anima, fiore
della vita, fanciullo amico. È tua
questa che ancora mi rimane estrema
lacrima che non vedi.
Teatro
Eri il facile oblio; anche, alle volte,
un tempio. Oggi la vita preme ad altre
porte, si specchia a un’altra illusione.
La voce tace da tanto alla quale,
alla sua eco lunga nel ricordo,
il mio giovane cuore si appoggiava.
Nei riposi suonava un’orchestrina.
Oh il loggione in tempesta che risuscita,
per la mano del padre, Amleto! Caro
premio al fanciullo, cui la madre dava,
per te, nel pomeriggio di una festa,
la piccola moneta. Ed alla sete
acqua d’anice tinta era ristoro.
Contovello
Un uomo innaffia il suo campo. Poi scende
cosí erta del monte una scaletta,
che pare, come avanza, il piede metta
nel vuoto. Il mare sterminato è sotto.
Ricompare. Si affanna ancora attorno
quel ritaglio di terra grigia, ingombra
di sterpi, a fiore del sasso. Seduto
all’osteria, bevo quest’aspro vino.
Alberi
La colomba che preda la festuca
e la porta nel nido invidio, e voi
alberi silenziosi, a cui le foglie,
ben disegnate, indora il sole; belli
come bei giovanetti o vecchi ai quali
la vecchiezza è un aumento. Chi vi guarda
– verdi sotto una nera ascella frondi
spuntano; alcuni rami sono morti –
le vostre dure sotterranee lotte
non ignora; la vostra pace ammira,
anche piú vasta.
E a voi ritorna, amico;
laghi d’ombra nel cuore dell’estate.
Finestra
Il vuoto
del cielo sul color di purgatorio
delle tegole. Dietro, la materna
linea dei colli; in basso l’erta dove
dai cornicioni del teatro calano
i colombi; verdeggia
un albero che poca terra nutre;
statue portano alati sulla lira;
fanciulli con estrose grida vagano
in corsa.
Fumo
Conforto delle lunghe insonni notti
d’inverno
– allora in labirinti oscuri
errò, di angoscia, il pensiero; la mano
corse affannosa al tuo richiamo –
il filo
tenue che sale, poi si rompe, il cielo,
dall’aperta finestra, di un suo raggio
colora;
e mi ricorda una casetta, sola
fra i campi, che fumava per la cena.
Quando il pensiero
Quando il pensiero di te mi accompagna
nel buio, dove a volte dagli orrori
mi rifugio del giorno, per dolcezza
immobile mi tiene come statua.
Poi mi levo, riprendo la mia vita.
Tutto è lontano da me, giovanezza,
gloria; altra cura dagli altri mi strana.
Ma quel pensiero di te, che tu vivi,
mi consola di tutto. Oh tenerezza
immensa, quasi disumana!
Sera di febbraio
Spunta la luna.
Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventú s’allaccia;
sbanda a povere mète.
Ed è il pensiero
della morte che, in fine, aiuta a vivere.
Prospettiva
La gente in fretta dirada.
Filari
d’alberi nudi ai lati del viale,
in fondo là dove campagne sfumano,
si avvicinano – pare – in una stretta.
E v’entra un poco di quel cielo lilla
che turba e non consola.
Breve sera,
troppo, in vista, tranquilla.
Il vetro rotto
Tutto si muove contro te. Il maltempo,
le luci che si spengono, la vecchia
casa scossa a una raffica e a te cara
per il male sofferto, le speranze
deluse, qualche bene in lei goduto.
Ti pare il sopravvivere un rifiuto
d’obbedienza alle cose.
E nello schianto
del vetro alla finestra è la condanna.
Ultimi versi a Lina
La banda militare che affollava
vie piú il Corso la sera, i fanaletti
oscillanti alla marcia – il battistrada
tronfio alzava e abbassava il suo bastone –;
le tue compagne: la buona, la scaltra,
l’infedele in amore; il verde fuori
e dentro la città; le laceranti
sirene dei vapori che partivano;
le osterie di campagna;
queste cose
furono un giorno – ricordi – cui venne,
una a una, una fine.
La memoria,
amica come l’edera alle tombe,
cari frammenti ne riporta in dono.
C’era
C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva
arnesi, intorno, di rame. Su quello
si chinava la madre col soffietto,
e uscivano faville.
C’era nel mezzo una tavola dove
versava antica donna le provviste.
Il mattarello vi allungava a tondo
la pasta molle.
C’era, dipinta di verde, una stia,
e la gallina in libertà raspava.
Due mastelli, là sopra, riflettevano,
colmi, gli oggetti.
C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo.
Le sue speranze assieme alle faville
del focolaio si alzavano. Alcuna
– guarda! – è rimasta.
Spettacolo
Tu non lasci deluso lo spettacolo
dove amori t’incantano e venture
e senti in quelle truccate figure
tutti i tuoi giovani sogni irritarsi.
Altre, quand’ero come te, ho versate
dolci usurpate lacrime.
Ora è tardi. Si spogliano le cose,
se ne tocca lo scheletro. Una veste
ancora piace, se bella. Piú spesso
è la menzogna inutile, che annoia.
Ritratto
Lascia lo specchio. Non guardarti in quello
come una giovanetta. Che alle donne
è lume il corpo; a te l’animo vale.
La dolcezza che opponi ingenuo al male
fa la bontà del tuo sguardo. Ma il ciuffo
di capelli, che un po’ butti in disparte,
d’esser te stesso la fierezza esprima,
come in cima a una casa già compiuta
la bandieretta
che libera lassú s’agita a un vento.
Luciana
Che diresti di me, dopo tanti anni,
anima cara, se tornassi al mondo?
Anche il luogo natio mutato è tanto!
Ti riconosceresti, io credo, appena.
Rancor mi serbi come a uno spergiuro
d’aver protratta senza te la vita?
M’hai perdonata quella che t’infersi
– oh giovanezza! – amorosa ferita?
In treno
Guardo gli alberi spogli, la campagna
deserta, a tinte invernali. A te penso
che ti allontani, che lasciai da poco.
Mette la sera come un roseo fuoco
sulle casette, sugli armenti; il treno
in fuga volge nella corsa folle
qualche animale giovane e galline
versicolori.
Straziato è il mio cuore come sente
che piú non vive nel tuo petto. Tace
ogni altra angoscia per questa. Ed appena
la dura vita a tanti mali regge.
Ma tu muti conforme la tua legge,
e il mio rimpianto è vano.
alberto
uno morendo m’hai lasciato in dono
fiasco di vecchio vino e la tua pipa
da quella fumerò nell’ore dense
di memorie pensando la dolcezza
che si sparse da te come la vita
ti si fece impossibile
quel vino
inebbrierà una lacrima negli occhi
di tuo fratello straniero in america
quando ritornerà.
Foglia morta
La rossa foglia morta
che il vento porta via,
il vento e lo spazzino,
– sotto il fulgido cielo cadde, insanguina
con le altre la via –
imiterei. Per nausea
delle parole vane,
dei volti senza luce.
Ma la tua voce, o gentile, mi parla;
fa’ che non cada ancora.
Una notte
Verrebbe il sonno come l’altre notti,
s’insinua già tra i miei pensieri.
Allora,
come una lavandaia un panno, torce
la nuova angoscia il mio cuore. Vorrei
gridare, ma non posso. La tortura,
che si soffre una volta, soffro muto.
Ahi, quello che ho perduto so io solo.
Fedra
Soffia una bora omicida. Domani
cadrà la neve, imbiancherà le strade
che salivano amiche alla tua casa
in cima al colle, lontana. Tra i verdi
pini l’immensa vallata ripete
in foglie innumerevoli il colore
che amavi sempre ai tuoi capelli.
Fedra
eri; ancor sei.
Piú preziosa adesso
che si accende alla stufa il primo fuoco
in rare case; la stagione è un poco
nostra, nostro il paesaggio; il pensiero
irraggia un ultimo vero; s’illude
che il peggio – forse – è passato.
Porto
... A scordarla ancor m’aggiro io per il porto, come un levantino.
(Trieste e una donna).
Qui dove imberbi scritturali il peso
registravano, e curvi sotto il carico
in fila indiana sudati braccianti
salivano scendevano oscillanti
scale dai moli agli alti bordi, preso
fra bestemmie e muggiti, della vita
solo un pensiero a me era nocente.
Cercavo a quello un angolo ridente.
Molti, all’ombra di pergole, ne aveva
la mia città inquieta. Mi premeva
isolarmi con lui, mettere assieme
versi, cavare dal suo male un bene.
Spero ancora un rifugio allo stratempo.
Ecco: è stato miracolo trovarlo.
Tutto, se chiedo, posso avere, fuori
quel mio cuore, quell’aria mia e quel tempo.
Campionessa di nuoto
Chi t’ha veduta nel mare ti dice
Sirena.
Trionfatrice di gare allo schermo
della mia vita umiliata appari
dispari.
A te mi lega un filo, tenue cosa
infrangibile, mentre tu sorridi,
e passi avanti, e non mi vedi. Intorno
ti vanno amiche numerose, amici
giovani come te; fate gran chiasso
tra voi nel bar che vi raccoglie. E un giorno
un’ombra mesta ti scendeva – oh, un attimo! –
dalle ciglia, materna ombra che gli angoli
t’incurvò della bella bocca altera,
che sposò la tua aurora alla mia sera.
1944
Avevo
Da una burrasca ignobile approdato
a questa casa ospitale, m’affaccio
– liberamente alfine – alla finestra.
Guardo nel cielo nuvole passare,
biancheggiare lo spicchio della luna,
Palazzo Pitti di fronte. E mi volgo
vane antiche domande: Perché, madre,
m’hai messo al mondo? Che ci faccio adesso
che sono vecchio, che tutto s’innova,
che il passato è macerie, che alla prova
impari mi trovai di spaventose
vicende? Viene meno anche la fede
nella morte, che tutto essa risolva.
Avevo il mondo per me; avevo luoghi
del mondo dove mi salvavo. Tanta
luce in quelli ho veduto che, a momenti,
ero una luce io stesso. Ricordi,
tu dei miei giovani amici il piú caro,
tu quasi un figlio per me, che non pure
so dove sei, né se piú sei, che a volte
prigioniero ti penso nella terra
squallida, in mano al nemico? Vergogna
mi prende allora di quel poco cibo,
dell’ospitale provvisorio tetto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.
Avevo una famiglia, una compagna;
la buona, la meravigliosa Lina.
È viva ancora, ma al riposo inclina
piú che i suoi anni impongano. Ed un’ansia
pietà mi prende di vederla ancora,
in non sue case affaccendata, il fuoco
alimentare a scarse legna. D’altri
tempi al ricordo doloroso il cuore
si stringe, come ad un rimorso, in petto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.
Avevo una bambina, oggi una donna.
Di me vedevo in lei la miglior parte.
Tempo funesto anche trovava l’arte
di staccarla da me, che la radice
vede in me dei suoi mali, né piú l’occhio
mi volge, azzurro, con l’usato affetto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.
Avevo una città bella tra i monti
rocciosi e il mare luminoso. Mia
perché vi nacqui, piú che d’altri mia
che la scoprivo fanciullo, ed adulto
per sempre a Italia la sposai col canto.
Vivere si doveva. Ed io per tanto
scelsi fra i mali il piú degno: fu il piccolo
d’antichi libri raro negozietto.
Tutto mi portò via il fascista inetto
ed il tedesco lurco.
Avevo un cimitero ove mia madre
riposa, e i vecchi di mia madre. Bello
come un giardino; e quante volte in quello
mi rifugiavo col pensiero! Oscuri
esigli e lunghi, atre vicende, dubbio
quel giardino mi mostrano e quel letto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
– anche la tomba – ed il tedesco lurco.
Teatro degli Artigianelli
Falce martello e la stella d’Italia
ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!
Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell’idea
che gli animi affratella; chiude: «E adesso
faccio come i tedeschi: mi ritiro».
Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l’amico
dell’uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.
Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il cannone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.
Disoccupato
Dove sen va cosí di buon mattino
quell’uomo al quale m’assomiglio un poco?
Ha gli occhi volti all’interno, la faccia
sí dura e stanca.
Forse cantò coi soldati di un’altra
guerra, che fu la guerra nostra. Zitto
egli sen va, poggiato al suo bastone
e al suo destino,
tra gente che si pigia
in lunghe file alle botteghe vuote.
E suona la cornetta all’aria grigia
dello spazzino.
Vecchio camino
Vecchio camino che dai tetti sporgi,
che incornicia la mia finestra – un cielo
pallido, annuvolato in parte, è sopra –
fumavi all’era dei Granduchi, al tempo
che la seguiva imbandierato e in cuore
deluso. Dalla guerra anche hai veduto
tornare il figlio in licenza. Che festa
gli facevano intorno! Egli la
testa teneva tra le mani a lungo assorto
in taciuti pensieri. «Mamma» a volte
diceva, e basta. Altri diceva: «È un male;
nascerà un bene anche piú grande». Invece...
Vecchio camino che una mano fece
d’uomo or sono piú secoli, se molti
passarono su te anni e stagioni,
nubi e sole alternando, forse nulla
di piú triste hai veduto. E un giorno vani
ballerini ti apparvero sui tetti,
giovani ai dí dell’emergenza paghi
– cosí sembrava – a un grammofono. E, vaghi
di fucilate, erano partigiani.
Era la fine. Lo si vide in breve
nella via sottostante a rosse prove.
Quasi inutile fatto oggi alle nuove
scoperte – sempre piú raro un saluto
di fumo mandi a quel cielo – se ammuto
volentieri fra gli uomini, a te parlo
volentieri che, pur tacendo, ascolti.
Vecchio sei come me, sopravvissuto.
Dedica
Perch’io non spero di tornar giammai
fra gli amici a Trieste, a te Firenze
questi canti consacro e questi lai.
Come t’amavo in giovanezza! Folli
che abitavano te, t’han fatta poi
difforme a tutti i miei pensieri, ostile.
Ma di giovani tuoi vidi gentile
sangue un Agosto rosseggiar per via.
Si rifece per te l’anima pura.
M’hai celato nei dí della sventura.
Varie
Un ricordo dell’altra guerra
Quali immagini sorgono sepolte
in una notte agghiacciata ed insonne!
A Cattaro uno spione
che teneva un’osteria,
vendeva il vino del paese, cibi,
e secreti di morte alle due parti.
Per tutti – dice Carmen – l’ora viene.
Si vide un fuoco tra le rocce, a galla
dilatare una macchia d’olio. Verso
Brindisi scompariva amica nave.
Oh, come amica! Veloce leggera.
Portava a picco la bandiera
ch’era la mia.
Skotsch-terrier
(A Linuccia)
Avevi un cane, Ilo di nome, bello,
che a vederlo su un prato in tondo correre
la sua felicità chiamava lacrime.
Ti morí quella volta della Francia.
E fu un lutto domestico e del mondo.
Due madrigali per la Duchessa d’Aosta
1
Cosí giovane sei, cosí leggera
cammini incontro alla dubbia fortuna,
che se non fossi una
principessa, saresti una ragazza.
Trieste, 1934.
2
Penso le mani, le tue belle mani.
Sono passati per farle duemila
anni di storia di Francia. Le fila
del destino il destino rompe. Ostaggio
sei – dicono – al tedesco dalla pancia
deforme, dallo scheletro odioso.
Forse appena ti regge un mesto orgoglio.
Altro di te non so, né saper voglio.
Firenze, 1944.
Privilegio
Io sono un buon compagno. Agevolmente
mi si prende per mano, e quello faccio
ch’altri mi chiede, bene e lietamente.
Ma l’anima secreta che non mente
a se stessa mormora sue parole.
Anche talvolta un dio mi chiama, e vuole
ch’io l’ascolti. Ai pensieri
che mi nascono allora, al cuor che batte
dentro, all’intensità del mio dolore,
ogni uguaglianza fra gli uomini spengo.
Ho questo privilegio. E lo mantengo.
La visita
a Bruno e Maria Sanguinetti
Ho scritto fine al mio lavoro; messo,
diligente scolaro, in bella, pagina
dopo pagina. Il cuore mi mancava
e proseguivo. Ora da te, partito,
com’usi, a un tratto, con mia figlia sosto,
i tuoi bimbi e Maria tua di Sardegna.
Il destino riuní queste persone
– né altrimenti poteva – in questa stanza.
Ardono al caminetto alcune legna.
Si fa notte sui colli, sul giardino
che un triste inverno spogliò, nell’incongruo
di quei discordi pigolio che accusa
vicini l’ora della cena, il bacio
della mamma nel bianco caldo letto.
Si fa notte ai dipinti da Bolaffio,
seduti due sopra una panca (parlano
di politica), a quell’immensa dietro
magnolia, alla bambina che sorvola,
battendo il cerchio, un viale. Altri tempi
era il mio quadro; tutta
illuminava la mia casa. Amico
l’ho ritrovato nella tua, che buono
l’hai salvo al cieco disamore. E sono
– penso – vent’anni che passò Bolaffio.
Si fa notte negli occhi di mia figlia
e in quelli della donna bruna. Ai miei
scende, e non è dolore, umido un velo.
È tardi. Affronto lietamente il gelo
di fuori. Ho in cuore di una vita il canto,
dove il sangue fu sangue, il pianto pianto.
Italia l’avvertiva appena. Antico
resiste, come quercia, allo sfacelo.
Mediterranee
Entello
Per una donna lontana e un ragazzo
che mi ascolta, celeste,
ho scritte, io vecchio, queste
poesie. Ricordo,
come in me lieto le ripenso, antico
pugile. Entello era il suo nome. Vinse
l’ultima volta ai fortunosi giochi
d’Enea, lungo le amene
spiagge della Sicilia, ospite Anceste.
Bianche si rincorrevano sull’onde
schiume che in alto mare eran Sirene.
Era un cuore gagliardo ed era un saggio.
«Qui – disse – i cesti, e qui l’arte depongo».
Tre poesie alla Musa
1
A te occhiazzurra questi canti deve
uno che ha sete e alle tue labbra beve.
Antichi come lui, come te nuovi,
se giri tutto il mondo, non ne trovi.
2
Bigiaretti e compagni hanno veduto
poco o nulla di te, mia Musa. Manca,
ad una che di noi rendono immagine,
ai tuoi occhi il colore dei tuoi occhi,
azzurra luce che per te ho saputo
cogliere estrema agli attimi fuggenti.
Sono buoni ragazzi. T’hanno amata
anche diminuita, anche accecata.
3
Non quello che di te scrivono sotto.
Pianse e capí per tutti era il tuo motto.
Due antiche favole
1 IL RATTO DI GANIMEDE
Era un giorno fra i giorni. Era sereno
l’Ida; le capre brucavano in pace,
date in guardia a pastore adolescente.
Solo il cane qua e là vagava inquieto.
Sul volto del fanciullo ombre passavano.
Forse troppo severo il re suo padre.
Forse anelava ai compagni
– sull’Ida
erano molti della stessa età,
che tutti delle stesse gare amanti,
per il bacio di un serto, violenti
si abbracciavano a un coro d’alte grida. –
Bianche in cielo correvano le nubi.
Sempre il cane su e giú fiutava all’erta,
ed il gregge piú unito in sé stringevasi.
Ai presagi insensibile, il pastore,
oblioso al suo compito, sognava.
Fulminava dal cielo aquila fosca.
Si sbandavano greggi, si sgolava
il cane.
Già dell’azzurro il fanciullo
bagnava un’ultima volta la terra.
2 NARCISO AL FONTE
Quando giunse Narciso al suo destino
– dai pastori deserto e dalle greggi
nell’ombra di un boschetto azzurro fonte –
subito si chinò sullo specchiante.
Oh, il bel volto adorabile!
Le frondi
importune scostò, cercò la bocca
che cercava la sua viva anelante.
Il bacio che gli rese era di gelo.
Sbigottí. Ritornò al suo cieco errore.
Perché caro agli dèi si mutò in fiore
bianco sulla sua tomba.
Tre vecchie poesie
1 DAL VERO
Guarda il Banco di Napoli. Egli attigua
ancora soffre dietro a sé, per poco,
sgangherata dagli anni una casetta,
con le imposte malchiuse ed una scritta
che sporge in fuori e dice Trattoria.
Ma quello è cosí triste, e la casetta
mette in cuore superstite allegria.
(1940).
2 FIERA DI SAN NICOLÒ
Cala l’umida nebbia della sera
lungo gli alberi spogli. Vuoi tu ancora
San Nicolò, fra tante afflitte cose,
farmi di umana tenerezza un dono?
Mi riporti tra i vivi a una servotta,
la mano alzata sul monello come
le si faceva vicino, sparava
sotto i suoi piedi un petardo. Alla botta
chiaro visino con il naso in su,
di bianco e rosa, si mostrò vermiglio.
Dove cresce il frastuono della fiera,
oggi e un tempo, mi perdo. E se una lacrima
tenta ancora il mio ciglio, non la lascio
sgorgare, che di lei quasi ho vergogna.
(1941).
3 FOGLIA
Io sono come quella foglia – guarda –
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.
Negami dunque. Non ne sia attristata
la bella età che a un’ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s’attarda.
Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.
(1942).
Amai
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la piú antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che piú non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
Ignuda
Ignuda come un ruscelletto e bocca
a bocca, ogni tuo brivido addolciva
quel bacio che mi torna oggi al pensiero.
M’era in sogno, ma forse ero nel vero,
che in te parlasse, fatto carne, un angelo.
Un angelo del bene anche acquiesce
per bontà, per eccesso in lui d’amore.
Angelo
O tu che contro me vecchio nel fiore
dei tuoi anni ti levi, occhi che all’ira
fiammeggiano piú nostra come stelle,
bocca che ai baci dati e ricevuti
armonizzi parole, è forse il mio
incauto amarti un sacrilegio? Or questo
è fra me e Dio.
Alto cielo! Mio bel splendente amore!
Mediterranea
Penso un mare lontano, un porto, ascose
vie di quel porto; quale un giorno v’ero,
e qui oggi sono, che agli dèi le palme
supplice levo, non punirmi vogliano
di un’ultima vittoria che depreco
(ma il cuore, per dolcezza, regge appena);
penso cupa sirena
– baci ebbrezza delirio –; penso Ulisse
che si leva laggiú da un triste letto.
Amore
Ti dico addio quando ti cerco Amore,
come il mio tempo e questo grigio vuole.
Oh, in te era l’ombra della terra e il sole,
e il cuore d’un fanciullo senza cuore.
Ebbri canti
Ebbri canti si levano e bestemmie
nell’osteria suburbana. Qui pure
– penso – è Mediterraneo. E il mio pensiero
all’azzurro s’inebbria di quel nome.
Materna calma imprendibile è Roma.
S’innamora la Grecia alle sue sponde
come un’adolescenza. Oscura il mondo
e lo rinnova la Giudea. Non altro
a me vecchio sorride sotto il sole.
Antico mare perduto... Pur vuole
la Musa che da te nacque, ch’io dica
di te, col buio alle porte, parole.
Raccontino
La casa è devastata,
la casa è rovinata.
Mille e una notte non l’abita piú.
Come un giardino la sua verde Aleppo
una tenera madre ricordava.
Accoglieva le amiche, palpitava
per il figlio inquieto. Ed il caffè
porgeva, in piccole tazze, alla turca.
La casa è devastata,
la casa è rovinata.
Mille e una notte non accoglie piú.
La rovinò dal cielo
la guerra,
in terra
la devastava il tedesco. Piangeva
la gentile le proprie sue e le umane
miserie. (Odiare non poteva). Il figlio
fuggí sui monti, vi trovò un suo caro
amico, vi giocò con lui la vita.
Erano cari amici, si facevano
meraviglia a vicenda, esageravano,
un poco invidiosi, donne amori.
Erano cari amici quando rompere
tu li vedevi esterrefatto a calci:
un’antilope e un mulo.
La casa è devastata,
la casa è rovinata.
Ma i due ragazzi sono vivi ancora;
vive ancora, imbianchite un po’, le madri.
Gratitudine
Un anno, e in questa stagione ero a Roma.
Avevo Roma e la felicità.
Una godevo apertamente e l’altra
tacevo per scaramanzia.
Ma tutto
mi voleva beato a tutte l’ore;
e il mio pensiero era di un dio creatore.
Milano sotto la neve è piú triste,
forse piú bella. Molte cose sono
passato, quali in me vivono ancora,
in questa umana città dolorosa.
Mi accoglie al caldo la cucina; un prossimo,
ritrovato e perduto, gli occhi leva
dai quaderni impossibili e la voce.
Vede i candidi fiori; vede, un poco
curva, la madre che sfaccenda. E dice,
volta l’ilare faccia a lei: «Mammina,
appena esci ti bacia la neve»;
ed il mio cuore quel bacio riceve.
Tre poesie a Telemaco
1 QUASI UNA FAVOLA
Tutti portiamo della vita il peso,
in ogni luogo, in ogni tempo nati.
Ma il giovane stornello in cui ponevo
qualche speranza d’avvenire, e il cuore
lasciava pegno a un’ochetta, ben giura
che v’è al mondo un paese – agli altri in odio
fortissimo paese – ove il migliore
sempre vince, e per tutti è un bene nascere.
Odo, se veglio la notte, lamenti
del raga2zo nel sonno; odo nel sonno
sussulti d’anime in pena. E al risveglio
ogni volto s’oscura.
2 METAMORFOSI
«Se non era l’Italia il tuo paese
– dico per dire: lo so ben che l’ami –
quale ti garberebbe patria?» Io taccio;
egli ripete la domanda. – «E tu?»
Mi guarda coi suoi grandi occhi che toccano
per dolcezza dell’anima i confini
materni; forma un nome la sua bocca
come un bacio. Pensoso, io nulla dico.
Ecco il suo volto al mio silenzio farsi
severo, gli occhi a un odio scintillanti.
Non fosse che pietà rispetto accoglie
dei piú vecchi di lui, di lui garanti,
su me si getterebbe, io penso, come
sopra un nemico.
3 APPENA UNA CITAZIONE
Dici che lei ti lasciava, che solo
porti la pena d’esser nato. Un’ombra,
inseguo a lungo per vie solitarie,
a un barlume di luce dei fanali,
per sempre chiusa nella mia memoria.
Penso che i versi sono belli. E forse,
l’ombra inseguendo, troverai un corpo.
Un dolce corpo ti consolerà.
Tre poesie a Linuccia
1
Era un piccolo mondo e si teneva
per mano.
Era un mondo difficile, lontano
oggi da noi, che lo lambisce appena,
come un’onda, l’angoscia. Tra la veglia
e il sonno lento a venire, se a tratti,
col suo esatto disegno e i suoi esatti
contorni, un quadro se ne stacca e illumina
la tua memoria, dolce in sé, ti cerca,
come il pugnale d’un nemico, il cuore.
Era un piccolo mondo e il suo furore
ti teneva per mano.
2
In fondo all’Adriatico selvaggio
si apriva un porto alla tua infanzia. Navi
verso lontano partivano. Bianco,
in cima al verde sovrastante colle,
dagli spalti d’antico forte, un fumo
usciva dopo un lampo e un rombo. Immenso
l’accoglieva l’azzurro, lo sperdeva
nella volta celeste. Rispondeva
guerriera nave al saluto, ancorata
al largo della tua casa che aveva
in capo al molo una rosa, la rosa
dei venti.
Era un piccolo porto, era una porta
aperta ai sogni.
3
Da quei sogni e da quel furore tutto
quello ch’ài guadagnato, ch’ài perduto,
il tuo male e il tuo bene, t’è venuto.
Variazioni sulla rosa
1
Per te piange un fanciullo in un giardino
o forse in una favola. Punivi,
rosa, inabili dita. E cosí vivi,
un giorno ancora, sul tuo ceppo verde.
Altri asciuga le sue lacrime, e perde
egli in breve l’incontro e la memoria.
Oh, nemico per sempre alla tua gloria
non lo scopra l’errore d’un mattino!
2
Molti sono i colori ai quali l’arte
varia il tuo incanto o la natura. In me,
come il mare è turchino, esisti solo,
per il pensiero a cui ti sposo, rossa.
3
Cauta i tuoi gambi ella mondava. Mesta
a me sorrise ed al mio primo dono.
Due mani l’aggiustavano al suo seno.
Andai lontano, disertai quel seno.
Errai come agli umani è sorte errare.
Mi sopraffece la vita; la vita
vinsi, in parte; il mio cuore meno.
Ancora
canta a me l’usignolo ed una rosa
tra le spine è fiorita.
Ulisse
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano piú al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Pettirosso
Trattenerti, volessi anche, non posso.
Vedi, amico del merlo, il pettirosso.
Quanto ha il simile in odio egli di quella
vicinanza par lieto. E tu li pensi
compagni inseparabili, che agli orli
di un boschetto sorpreso li sorprendi.
Ma un impeto gioioso al nero amico,
che vive prede ha nel becco, l’invola.
Piega un ramo lontano, cui non nuoce,
se un po’ ne oscilla, l’incarco; la bella
stagione, il cielo tutto suo l’inebbriano,
e la moglie nel nido. Come un tempo
il dolce figlio che di me nutrivo,
si sente ingordo libero feroce;
e là si sgola.
Cielo
La buona, la meravigliosa Lina
spalanca la finestra perché veda
il cielo immenso.
Qui tranquillo a riposo, dove penso
che ho dato invano, che la fine approssima,
piú mi piace quel cielo, quelle rondini,
quelle nubi. Non chiedo altro.
Fumare
la mia pipa in silenzio come un vecchio
lupo di mare.
Uccelli
L’alata
genia che adoro – ce n’è al mondo tanta! –
varia d’usi e costumi, ebbra di vita,
si sveglia e canta.
Colombi in Piazza delle Poste
Pianticelle con rossi fiori in cima
fanno l’ombretta all’aiuola di fresco
smossa. Colombi passeggiano in mezzo.
Uno lascia lo stormo e mi cammina,
che si lusinga di un’offerta, incontro.
Esita, si ritira; al volo pronto
sempre, e alla fuga; che dell’uomo – dice –
fido e non fido. – Anch’io. – Meno felice
di lui, nel chiuso
gli rispondo del cuore: Questa piazza,
cui giungevo affannato perché prima
abbia il mio augurio chi ben so l’attende,
la fontana che in vaga iride splende,
tra le pietre fiorita di gerani
ombrosa aiuola, ove di me deluso
ritorni in fretta, fece l’uomo all’uomo.
Pure è un triste bambino. E del suo dono
chi piú diffida ha piú ragione, io penso.
L’ornitologo pietoso
Raccolse un ornitologo pietoso
un espulso dal nido. Come l’ebbe
in mano vide ch’era un rosignuolo.
In salvo lo portò con il timore
gli mancasse per via. Gli fece, a un fondo
di fiasco, un nido; ritrovò quel gramo
l’imbeccata e il calore. Fu allevarlo
cura non lieve, ed il dispendio certo
di molte uova di formiche. E ai giorni
sereni, ai primi gorgheggi, l’esperto
in un boschetto libertà gli dava.
«Piú – diceva al perduto, e lo guardava
a terra e in ramo cercarsi – il tuo grazie
udrò sommesso». E si sentí piú solo.
Il fanciullo e l’averla
S’innamorò un fanciullo d’un’averla.
Vago del nuovo – interessate udiva
di lei, dal cacciatore, meraviglie –
quante promesse fece per averla!
L’ebbe; e all’istante l’obliò. La trista,
nella sua gabbia alla finestra appesa,
piangeva sola e in silenzio, del cielo
lontano irraggiungibile alla vista.
Si ricordò di lei solo quel giorno
che, per noia o malvagio animo, volle
stringerla in pugno. La quasi rapace
gli fece male e s’involò. Quel giorno,
per quel male l’amò senza ritorno.
Quest’anno...
Quest’anno la partenza delle rondini
mi stringerà, per un pensiero, il cuore.
Poi stornelli faranno alto clamore
sugli alberi al ritrovo del viale
XX Settembre. Poi al lungo male
dell’inverno compagni avrò qui solo
quel pensiero, e sui tetti il bruno passero.
Alla mia solitudine le rondini
mancheranno, e ai miei dí tardi l’amore.
Passeri
Saltellano sui tetti
passeri cinguettanti. Due si rubano
di becco il pane che ai leggeri sbricioli,
che carpire s’illudono al balcone.
Vanno a stormi a dormire...
Uccelli sono:
nella Natura la sublimazione
del rettile.
Merlo
Esisteva quel mondo al quale in sogno
ritorno ancora; che in sogno mi scuote?
Certo esisteva. E n’erano gran parte
mia madre e un merlo.
Lei vedo appena. Piú risalta il nero
e il giallo di chi lieto salutava
col suo canto (era questo il mio pensiero)
me, che l’udivo dalla via. Mia madre
sedeva, stanca, in cucina. Tritava
a lui solo (era questo il suo pensiero)
e alla mia cena la carne. Nessuna
vista o rumore cosí lo eccitava.
Tra un fanciullo ingabbiato e un insettivoro,
che i vermetti carpiva alla sua mano,
in quella casa, in quel mondo lontano,
c’era un amore. C’era anche un equivoco.
Rosignuolo
Dice il nostro maggiore
fratello, il rosignuolo:
Iddio, che ha fatto il mondo e se lo guarda,
non di te si compiace, uomo, che a un’esca
– ahi, troppo irrecusabile! – dividi
noi che abbiamo la casa in siepe o in fronda.
Si tace. E, dopo una nota pietosa:
La voce – dice – piú meravigliosa
del silenzio, è la mia. Dei pleniluni
d’Aprile a quali infiniti si sposa!
Dice a te il tuo maggiore
fratello, il rosignuolo:
La dolcezza del mondo è una una una.
Solo a lei canto al lume della luna.
Nietzsche
Intorno a una grandezza solitaria
non volano gli uccelli, né quei vaghi
gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi
che il silenzio, non vedi altro che l’aria.
Al lettore
Se leggi questi versi e se in profondo
senti che belli non sono, son veri,
ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO.
Libreria antiquaria
Morti chiedono a un morto libri morti.
Illusione non ho che mi conforti
in questo caro al buon Carletto nero
antro sofferto. Un tempo al mio pensiero
parve un rifugio, e agli orrori del tempo.
Ma quel tempo è passato oggi, e la vita
con lui, che amavo. E di sentirmi inerme
escluso piango come tu piangevi
quando eri ancora un bambino e perdevi
tra la folla la madre tua al mercato.
Dieci poesie per un canarino
1 A UN GIOVANE COMUNISTA
Ho in casa – come vedi – un canarino.
Giallo screziato di verde. Sua madre
certo, o suo padre, nacque lucherino.
È un ibrido. E mi piace meglio in quanto
nostrano. Mi diverte la sua grazia,
mi diletta il suo canto.
Torno, in sua cara compagnia, bambino.
Ma tu pensi: I poeti sono matti.
Guardi appena; lo trovi stupidino.
Ti piace piú Togliatti.
2 UCCELLO DI GABBIA
Tenorino di grazia egli le strofe
non sa dell’usignuolo e non ha il cuore
caldo del merlo.
Pago a due foglie di radicchio, in gabbia,
dov’è nato non mette angoscia; libero
per la stanza mi viene, e a quelle, incontro.
I miei risvegli sono un poco meno
tristi per lui che alla finestra i passeri
richiama: aeree zuffe. Ed io dal letto
la sua nessuna meraviglia godo.
3 PALLA D’ORO
Con ali tese e il becco aperto a volte
egli perfino mi sfida... Non vede
sé, come vedo me stesso. Ed in questo
non vedersi è la sua felicità.
Moto perpetuo non si ferma un breve
momento. Verdi radicchi, altri uccelli
che nutre involontario, il suo panico,
sempre ha qualcosa da fare e la cosa
che fa lo prende interamente. In canto
(sia gioia o pena) in trilli si diffonde.
Se Ciu lo chiami, il chiamato risponde.
Viene lenta la sera. Lentamente
tace, si gonfia. Fiducioso al sonno
si chiude, e in sé, come una palla d’oro.
4 I LIBRI...
I libri che ti rendo, amico (e sono
meravigliosi) io non li ho letti. È molto
se vi ho dato uno sguardo. A me riposo
è il libro vivo che, se i tuoi non vale,
vale quanto una favola. Per lui,
vecchio fanciullo, questa volta ancora,
nel mondo dei volatili mi perdo.
Copio i suoi usi e costumi. Gli amati
bagni – disperazione di mia moglie –
sono una festa ai miei occhi. E le foglie
che nel becco qua e là porta. La vita,
lei che tanti giocattoli mi ha tolto,
mi rende al fine il piú innocente: in gabbia
nato un uccello che in gabbia non soffre.
Puoi d’un vecchio sorridere. Puoi anche,
se piú ti piace, perdonargli.
5 CANARINA AZZURRA
Meravigliosa canarina azzurra
ti sceglievo a compagna. La piú bella,
la piú rara al mercato. Una gran dama.
Eros ha le sue leggi; è un dio difficile
non solo – sembra – agli umani. L’uccella,
immessa appena nella gabbia, subito
saltò da te per un bacetto. (Come
ti conoscesse da sempre). E tu come
piccolo drago inferocito, subito
(forse geloso di lei) la scacciavi.
Durò tre giorni lo strazio; ed all’ultimo
parve opportuno separarvi. Ancora
coi tuoi radicchi ti consoli. E a un tratto
non canti piú, rechi nel becco intorno
filo od altro che trovi e stimi atto
a un nido inesistente. M’hai deluso,
e con me quella che mi disse: «Devi
comperarle una moglie». Ed ira e pena
mi fai. Pure la colpa è tua, se colpa
v’è, v’è mai stata, in queste cose...
6 QUASI UNA MORALITÀ
Piú non mi temono i passeri. Vanno
vengono alla finestra indifferenti
al mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e la scagliuola: dono
spanto da un prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed io li guardo muto
(per tema non si pentano) e mi pare
(vero o illusione non importa) leggere
nei neri occhietti, se coi miei s’incontrano,
quasi una gratitudine.
Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e piú se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
– TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.
7 SOMIGLIANZA
Fra te e la canarina azzurra sono
affinità sorprendenti. Piú ancora
se ti guardo lontana nell’immagine
che di te ti sei fatta e appesa tengo
a capo il letto incorniciata e cara.
Sí, le assomigli. È questa somiglianza,
lusinghiera ad entrambe, che mi strazia.
Si avvicina l’estate e la tua casa
ti aspetta, sgangherata come sempre.
Non importa. Tua madre vive ancora,
e tuo padre con lei, che nei sereni
momenti inventa per te favolette.
Poco ci troverai nuovo: l’azzurra
che ti assomiglia e, forse a te spettacolo
non discaro, fraterno al tuo pennello,
quel rissoso uccellame alla finestra.
8 PRETESTO
C’è tanto miglio alla finestra. E i passeri
si azzuffano tra loro; in gabbia due
vaghi uccelletti che pensavo il nido
facessero concordi. È tutto un grido
di collera. E il mangiare avanza sempre,
sprecato. Che per noi non sia e quei piccoli
una ragione di guerra, un pretesto?
9 RISVEGLIO
Rissano tutto il giorno; a notte dormono,
come gli altri uccelletti, piuma a piuma.
(A riparo suppongo di un nemico,
qui dove sono, improbabile). Sveglio
prima ancora dei passeri, tra poco,
lo so, mi chiameranno. Creature
di Dio e del sole, oggi per voi ricordo
la mia balia adorata, lei che prima
mi regalava un lucherino e, ignara
del mio destino, m’insegnò ad amarvi.
10 AMORE
Questa mattina, e come li portavo
alla finestra, ebbi sorpresa lieta.
Si scambiavano in becco il cibo, oggetto,
ieri ancora, di tanta lite. È il modo
– il loro – di baciarsi e dirsi grati
l’uno all’altro di esistere. È già il nido.
Un Orientale
Il racconto – una sfida al mio destino,
che incombe grave e minaccioso (è quello
di tutto il mondo) – un Orientale (ed io
lo sono, almeno in parte; e il falso oblio
dei mali è all’oppio che lo chiesi) in tempi
o migliori o diversi, egli l’avrebbe
per te favoleggiato un po’ altrimenti.
STORIA sarebbe il suo nome DI UN VECCHIO
POETA E DI UN GIOVANE CANARINO.
Invio
Dopo tre anni di silenzio ho scritto
pochi versi. Non posso
mandarli a te, di cui sí cara m’era
(mi sarebbe) una lode. (Ignoro l’animo
con cui li accoglieresti). Ma trafitto
mi sento il cuore da una punta acuta
come un rimorso.
Lina e la coinquilina
La vita ti racconto una e che tutto
in lei si tiene.
Tu puoi questo ascoltare ed anche il bene
togliermi di una breve ora, la pace
sua illusoria. Nutrire
odio non giusto per un’altra donna
(sempre diversa e sempre in te la stessa).
Era un giorno tua madre; oggi, mia Lina,
ha un altro nome. «Al bollitore – dici –
mi lascia sola una fiamma». Non dici:
«So che hai ragione; so che sempre un poco
ho raspato nei tuoi paraggi». Povera,
vecchia e stanca, gallina.
Passioni
Sono fatte di lacrime e di sangue
e d’altro ancora. Il cuore
batte a sinistra.
Le mie poesie
Il buon Carletto mi diceva: «Vedo
che proprio deve farle». Devo come
la gallina fa l’uovo. Questo un giorno
me lo disse mia figlia. (Aveva allora
dieci undici anni). Immaginava,
con tutto il mondo in miniatura, chiudere
suo padre in una gabbia. Il vino e i cibi
erano buoni, anzi eccellenti. In cambio
sua madre o lei tra le sbarre carpivano
il mio lavoro d’ogni giorno in vari
multicolori bei fogli volanti.
Carletto
Il buon Carletto, come schedo un libro,
ne muta il prezzo a suo arbitrio. Poi quello
trascrive sui risguardi, mette a un lato
la scheda, sceglie lo scaffale; vada,
o no, venduto (egli spera venduto).
La sua giornata in Libreria gli corre
rapida, che il lavoro non gli manca,
per lui, per me, per i suoi figli. Io grato
gli sono, e piú che non creda. Ripenso
(questo non glielo dico ancora; temo
si offenderebbe; ha in odio i paragoni)
il canarino in gabbia affaccendato.
Variante al precedente ritratto
Oggi non faccio nulla. Faccio festa.
(Sono stanco a morire). Non ho voglia
di vecchi Le Monnier, d’altre anche peggio
malinconie. Forse ascoltare appena
il buon Carletto: progetti e ricordi
(tempi e persone anche per lui lontani).
Chiamo e forse non m’ode. Si dà pena
salito a uno scaffale in fondo oscuro.
Cerca e non trova. Fra se stesso mormora
(è nei suoi usi e costumi). «Che fai –
gli dico quasi con collera – in cima
di quella scala maledetta come
canarino su alto stecco?» Rido.
Mi aspetto quasi un libro sulla testa.
Momento
Gli uccelli alla finestra, le persiane
socchiuse: un’aria d’infanzia e d’estate
che mi consola. Veramente ho gli anni
che so di avere? O solo dieci? A cosa
mai mi ha servito l’esperienza? A vivere
pago a piccole cose onde vivevo
inquieto un tempo.
Richiamo
Perché, gentile creatura, mi strazi?
Hai tutto, e il tuo richiamo è pianto. Hai gabbia
spaziosa e pulita, che governo
io stesso all’alba, ogni mattina (a farvi
il nido un poco maldestri, tu sei
che scacci adesso l’importuno); a coppia
le piú succose ciliege; pinolo
che mi sbricioli, cauta, in mano. Solo
la metà dei tuoi beni avesse lei
che ti assomiglia e poco si lamenta...
Ma tu, gentile creatura, mi strazi.
Lina e la canarina azzurra
«Come a lei t’avvicini emette chiari
argentini suoi ciu cosí ploranti
che ti feriscono l’anima. Pianti
che vengono dal fondo della vita,
dell’esistere, e trovano la gola
sua d’uccelletta». «I suoi non sono pianti –
mi dice Lina – tu esageri». Mai,
se parla a mio conforto, le ho creduto.
Ed una falsa pietà mi ha perduto.
Sogno
Mettere assieme i piú strani animali
(intendo strani l’uno all’altro) e scrivere,
solo e con loro, qualche favoletta.
È questo il sogno della mia saggezza
ultima. E, come tutti i sogni, vano.
Fotografia
Questo volto che indurano gli affanni
ed il tempo, e tu a volo,
Nora, gentile fotografa, hai colto;
è il mio, tu dici. – Io, se mi vedo, è solo
morto. O ragazzo di quindici anni.
Lettera
Linuccia mia perdonami se invece
di una lettera attesa mando ancora
una poesia. Tuo padre che si fece
di te sostegno, che da te rinacque
(e sia per poco, sia per ricadere
da piú alto) è ubriaco. E non di vino.
Sappi che il libro andrà pel suo destino
col nome che gli hai dato tu: AMICIZIA1.
1 Com’è detto nella Prefazione il titolo è stato poi cambiato in Quasi un racconto.
Il bagno del passero
C’era sul davanzale una scodella
piena d’acqua. Era là dimenticata.
Era l’alba. (L’avevo io là posata;
ma per altri). Venuto per il pane
suo quotidiano la scopriva un passero.
Stupito si guardò (o mi parve) intorno.
V’immerse prima la testina; poi
(il mondo è tutto casa sua, e la mia
col resto) entrava tutto quanto in quella.
Breve fu il mio stupore ed il suo sguazzo.
Improvviso partí come venuto.
Io credo in queste cose, io che ho creduto
sempre nei miei modelli. E se piú biasimi
n’ebbi che lode, non è stato sempre
– come illusa tu pensi oggi – un sollazzo.
Ai miei modelli
Anche lui mi diceva, come il giovane
comunista, che siete stupidini,
l’amico che mi fu diletto tanto,
che avrei per il suo bene dato il canto
piú dolce e la mia vita anche.
Ma voi
volate sopra le miserie umane.
E quando all’alba spuntare rivedo,
tra le griglie da me lasciate aperte,
vostri cari musetti; in dubbio sempre
tra il desiderio e la paura – il dono
vi tenta e il rischio vi trattiene – o ramo
farvi di cosa che sporga, se v’amo
è come un bimbo ed un vecchio. Ma il vecchio
sa piú cose, ed adora la purezza.
Che serve all’uomo anche la sua grandezza,
se il mistero per lui resta mistero,
e ha perduto, per via, la grazia?
«Ognuno a se stesso è fedele»
(Dalle «Laudi» di Gabriele d’Annunzio)
L’assenzio della vita, anche il suo miele,
ho nel cuore. Operoso per me stesso,
aiuto, come posso, gli altri. E gli altri
sono, a volte, piú chiusi. I miei modelli
– un esempio – di oggi, che non tanto
li amava il fanciulletto (è lui che tardi
– un ultimo saluto – li dipinse),
visti insieme, o si azzuffano o s’ignorano.
Penso agli Eroi di cui leggevo: OGNUNO
A SE STESSO (e intendeva a sé soltanto
il Vate che ai suoi dí piú Gloria attinse,
piú vasta; a torto obliato) È FEDELE.
Nostalgia
Con occhi intenti seguono ogni mossa
delle mie mani industri a rinnovare
la gabbia al novo giorno. Un’ombra appena
d’apprensione superstite, visibile
al buon custode. Contentezza provano
che m’occupi di loro, e quella esprimono,
se intendo il caro linguaggio, in sommessi
brevi trilletti.
Ma forse è umana illusione che ai tetti
degli uomini e alle cure sieno paghi.
Una gabbia è una gabbia; e in cuore vaghi
serbano indistruttibili ricordi
delle Canarie, dei natii boschetti.
Le donne...
Le donne
mie di casa, o che vengono per casa,
sono con te arrabbiatissime. Tutte.
Dicono che sei bello (e in ciò si estasiano);
forse il piú bel canarino; ma... un mostro.
(Una pianse, sveniva quasi, in vista
degli alti tuoi fatti). Perché ai fatti
male assai con tua moglie ti comporti.
Non l’aiuti a covare; fuori porti
dal nido quanto puoi col becco, e il furto
o lasci a caso cadere o deponi
– come per farti un nuovo nido – in qualche
angolo della gabbia. È un’altra immagine
che di lei ti sei fatta; un’altra scelta
avevi in cuore, e non la mia... Ma io
come facevo a saperla?
Il nido
Aggiustavo il tuo nido in cui preziosa,
dimentica del cibo, o quasi, covi.
E mi rammenti un’incisione (nuovi
vi mettevo i colori) in lode della
Natura o (tutto non ricordo) in quella
della Divina Provvidenza.
Il solo
che dovrebbe aiutarti è odioso. Sfa,
tenta disfare, la tua casa.
Fosse
un’incauta mia mossa od altro, presa
di uno spavento insolito alla stretta,
il caro luogo abbandonavi. Ed io
sentii sfiorarmi la mano quel volo
celeste di una celeste uccelletta.
Divertimento
Con voi nella mia vecchia casa entrava
della fresca Natura un soffio. E forza
mi fu di separarvi un’altra volta.
Suo diritto è covare in pace, e pace
tu non le davi, l’inquietavi spesso.
Corre assiduo di gabbia in gabbia adesso
quel chiamarvi pietoso; e il bene fatto
dalle mie mani, come chiaro mostri
sol che a te m’avvicini, tu lo pensi
un ingiusto castigo, una vendetta.
Per divertirti apro una scatoletta
musicale. Il dolor del mondo n’esce
in un suono cosí mite che riesce
a commuovermi quasi. Ascolti. Un poco
tenti imitarla sopraffarla. O i vostri
sono cuori volubili e leggeri!
Da Leonardo
Apro un libro, non brutto in sé né bello,
per noia, a caso, e vi getto uno sguardo.
Che pietà ritrovarvi, da Leonardo,
il tuo scheletro fragile d’uccello!
Ma tu non puoi vederlo, tu che quello
ti stimi di noi due piú forte. E in parte
anche sei, che da me dipendi, e l’arte
non ho, e ne soffro, di spiegarti cosa
cui m’obblighi il mio ufficio di custode.
Un gioco
T’era estraneo il suo nido, oggi il tuo mondo.
Solo a quello devoto, da un rotondo
foro ai suoi lati praticato – oblò
nella cabina d’una nave – sporge,
se l’indice vi appunto, alla difesa,
la tua gialla testina, si ritrae
cessata appena la minaccia. È un gioco
stolto e crudele a cui mi prendi. E un poco
anche ne rido. Piú ne riderebbe
Mariuccio od altro scolaro.
È tutto vero
(A Giacomo Debenedetti)
È tutto vero. I canarini fanno
– ieri ne disperavo quasi – il nido.
E Giacomino mi scrive: «Il tuo libro
è bello, è molto bello. Accordi statua
arcobaleno. È questa tua stagione
tarda, senza rancori, che mi piace».
È tutto vero. Ma è piú vero ancora
che sono stanco a morire; che a vivere
– non è per noi che si deve, è per altri –
SOLO DI SOLITUDINE HO BISOGNO.
Dialogo
LUI
Di me diranno, quando sarò morto:
Povero vecchio disperato e solo.
Cantava come canta un rosignuolo.
LEI
Non sei un rosignuolo; sei un merlo.
Fischi piú forte la sera; e nessuno
può strapparti di becco il tuo pinolo.
Morte di un pettirosso
(Alla memoria del dottor Amos Chiabov,
che me l’ha, circa cosí, raccontata)
Un gentile uccelletto, un pettirosso,
delizia della casa, della casa
diventato il padrone, un vizio aveva
grave: era troppo curioso. Metteva
sé dappertutto (un giorno lo trovarono
fino dentro una scarpa). Poi fuggito
lo dicevano i bimbi inconsolabili,
che lo piansero a lungo. Ma fuggito
non era; lo rinvenne, con un grido
di spavento e d’orrore, la domestica,
come, a deporvi il bucato, riapriva
quell’armadio. Era lui, morto e stecchito.
Giudici gravi e togati sedettero
per giudicare della colpa. Forse,
troppo svelta nel chiudere un cassetto,
la donna? O indiscrezione d’uccelletto,
in suo libero arbitrio entrato dove
mai non avrebbe dovuto? la causa,
in qualche luogo, si discute ancora.
Fratellanza
Ho fatto un sogno, e all’alba lo ritrovo.
Parlavano gli uccelli, o in un uccello
m’ero, io uomo, mutato. Dicevano:
NOI DI BECCO GENTILE AMIAMO I FRUTTI
SAPORITI DEGLI ORTI. E SIAMO TUTTI
NATI DA UN UOVO.
Proprio il sogno d’un bimbo e d’un uccello.
Al lettore
Questo libro che a te dava conforto,
buon lettore, è vergogna a chi lo crebbe.
Parlava come un vivo ed era (avrebbe
dovuto, per decenza, essere) morto.
L’uomo e gli animali
Uomo, la tua sventura è senza fondo.
Sei troppo e troppo poco. Con invidia
(tu pensi invece con disprezzo) guardi
gli animali, che immuni di riguardi
e di pudori, dicono la vita
e le sue leggi. (Ne dicono il fondo).
De gallo et lapide
Dicevo un giorno al buon Carletto: «Dopo
anni che lavoriamo assieme – trenta,
io credo, o ventisette almeno; è stato,
buono o cattivo, il tuo destino – appena
oggi ho capito chi sei. Sei vivente
ed agente una favola d’Esopo.
Tutte, e in particolare una». Non chiese
quale; o temesse, nel confronto, offese;
o, quando estraneo ai suoi negozi, poco
curi il mio dire. «Voglio dire quella
del gallo e della pietra preziosa.
Come la scorse nel letame: – Va’, –
le disse; – tu vuoi farmi ricco invano.
Nulla è a un gallo un topazio –. E l’affamato
l’accusava, raspando, di non essere,
invece, un chicco d’orzo». «Giusto. Ma.
se poteva parlare, perché il gallo –
disse alfine Carletto, ed ovvia cosa
gli parve – non andò da un gioielliere?
Gli avrebbe dato due sacchi di grano
in cambio. O anche d’orzo, a suo piacere».
Il poeta e il conformista
Come t’invidio, amico! Alla tua fede
saldamente ancorato, in pace vivi
con gli uomini e gli dei. Discorri scrivi
agevole, conforme volontà
del tuo padrone. In cambio egli ti dà
pane e, quale sua cosa, ti accarezza.
Arma non ti si appunta contro; spezza
il tuo sorriso ogni minaccia. E passi,
tra gli uomini e gli eventi, quasi illeso.
V’ha chi solo si pensa ed indifeso.
Pensa che la sua carne ha un buon sapore.
Meglio – pensa – chi è in vista al cacciatore
passero che pernice.
I vecchi
I vecchi dei villaggi hanno (se l’hanno)
il tabacco. Hanno il vino rosso. A pochi
passi il temuto cimitero. Ed io
(non quello temo, ai vinti unico pio)
avrei dovuto guarire, sottrarmi
un farmaco letale, caricarmi
di pesi sempre piú gravi (ed è questa
– lo so – la legge della vita); darmi
promettevano in cambio, essi, una festa;
essi, i miei buoni amici. Perché tutto
ti concedono i buoni, e non la morte.
Ritratto di Marisa
(Al Prof. Dott. Marino Gopcevich
– per una sua intuizione –
con affettuosa riconoscenza)
Marisa è un’infermiera. Ha gli occhi tondi
come gli uccelli;
ma non sa piú di che colore. Azzurri
li hanno detti una volta nella tessera,
verdastri un’altra. E cosí adesso è in dubbio.
Marisa è un’infermiera ed una brava
bimba. Non si è dipinta mai la faccia,
si mostra come Iddio la volle. Schiva
appare di pietà verso i malati,
sebbene in petto ella nasconda un raro
gioiello (il piú nel nostro mondo raro):
un cuore.
Marisa è un’infermiera. Ha gli occhi tondi
come gli uccelli,
cangianti un po’ come le biglie, quali
si giocava accosciata sotto un albero,
contro i maschietti del paese. Spesso
perdeva; non piangeva – dice – mai.
Ultima
Guardo, donna, il tuo cane che adorato
ti adora. Ed io... se penso alla mia vita!
Variamente operai, se in male o in bene
io non so; lo sa Dio, forse nessuno.
Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno.
Fui sempre («colpa tua» tu mi rispondi)
fui sempre un povero cane randagio.
In questo libro...
In questo libro tredici poesie,
che il nome hanno dall’ultima,
sono, me vivo, mie.
Poi le avrò scritte come l’altre invano,
per gli uccelli e un amico, al tempo triste,
nel mio triste italiano.
Trieste, 24 luglio 1948.
Vecchio e giovane
Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo
– gatto in vista selvatico – temeva
castighi a occulti pensieri. Ora due
cose nel cuore lasciano un’impronta
dolce: la donna che regola il passo
leggero al tuo la prima volta, e il bimbo
che, al fine tu lo salvi, fiducioso
mette la sua manina nella tua.
Giovinetto tiranno, occhi di cielo,
aperti sopra un abisso, pregava
lunga all’amico suo la ninna nanna.
La ninna nanna era una storia, quale
una rara commossa esperienza
filtrava alla sua ingorda adolescenza:
altro bene, altro male. «Adesso basta –
diceva a un tratto; – spegniamo, dormiamo».
E si voltava contro il muro. «T’amo –
dopo un silenzio aggiungeva – tu buono
sempre con me, col tuo bambino». E subito
sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio,
con gli occhi aperti, non dormiva piú.
Oblioso, insensibile, parvenza
d’angelo ancora. Nella tua impazienza,
cuore, non accusarlo. Pensa: È solo;
ha un compito difficile; ha la vita
non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta,
se puoi, tua morte. O non pensarci piú.
Per una favola nuova
Ogni anno un passo avanti e il mondo dieci
indietro. Al fine son rimasto solo.
Ma tu mi rendi il perduto, usignolo
che sul mio ramo ti posi, e la storia
narri per me dell’angelo che vive
due giorni e mezzo sulla terra. Scrive
la tua mano inesperta, e fa che intorno
alla favola nuova i miei pensieri
sciamano assidui come api al miele.
Accusi l’arte difficile e gelo
la parola all’immagine. Ed io penso
che sei piú dei tuoi anni giovinetto;
che chi presto matura (è antico detto)
manca in breve al suo stelo.
Risalii quest’estate ad Opicina.
Era con me un ragazzo comunista.
Tito sui muri s’iscriveva, in vista,
sotto, della mia bianca cittadina.
Nell’ora dei ricordi vespertina
sedemmo all’osteria, che ancor m’attrista,
oggi, se penso quella camerista
che ci serví con volto d’assassina.
Due vecchie ebree, testarde villeggianti,
io, quel ragazzo, parlavamo ancora
lassú italiano, tra i sassi e l’abete.
«Dopo il nero fascista il nero prete;
questa è l’Italia, e lo sai. Perché allora –
diceva il mio compagno – aver rimpianti?»
Ti mando, amico, due poesie che sono
ultime voci d’uno sulla terra,
legate a un filo che la guerra rompere
non può, né giovanile il tuo delitto.
Se ti piacque, per noi dattiloscritto
sogno mediterraneo, quell’azzurro
ti lasciavo partendo, oggi tu, buono,
le aggiungi a quelle a Telemaco. In breve,
spero, ci rivedremo. Il tuo delitto
non è grave: è di avermi un po’ scordato.
Parlavo vivo a un popolo di morti.
Morto alloro rifiuto e chiedo oblio.
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