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翁贝托·萨巴诗240首

意大利 星期一诗社 2024-01-10
翁贝托·萨巴(UmbertoSaba),原名翁贝托·波利(UmbertoPoli), 1883年出生于的里雅斯特,他的母亲是一名犹太人,父亲是意大利威尼斯人。他的父母并没有度过一段琴瑟和好的幸福生活,在他们结婚的第二年,父亲抛弃了妻子和未出生的孩子离开了。他的童年里不但缺失了父亲这个形象,母亲也以严母的形象出现。萨巴抛弃了Poli这个姓来指责父亲在童年时的缺失,选择了萨巴来对自己的作品进行署名。对于他选择萨巴作为笔名主要有两个猜测:希伯来语中saba的意思是面包,意味着人活着所需的食粮,侧面反映了他想把自己的作品作为精神食粮的一个特点;此外,从小抚育萨巴长大的乳母叫Sabaz,诗人与他度过了生命的头三年,并被他视为和母亲一样重要的角色,从某种意义上来说这位乳母对萨巴有着非常重要的影响。
萨巴的诗学研究的支点正是他对自己的分析和理解,它诚恳而直接;它源于痛苦,源于他心理疾病的痛苦,源于诗人的备受折磨的童年。
萨巴的诗歌正是心理分析本身,他试图通过诗歌创作来查明其内部冲突和矛盾以及焦虑的深层原因和关联性。
生存的矛盾萨巴所作诗歌的鲜明形象恰恰在于自我的分裂,这种分裂在喜悦与痛苦之间的不断交替。
最黑暗的苦难会覆盖快乐、爱和享受;同样也可通过发现这些痛苦的理由来使自己免于对其的恐惧。
在他构思时,对萨巴来说重要的是建立在欢乐与痛苦之间密不可分的纽带和桥梁,两者在个人和集体存在于世中被视为构成其存在的要素和共存的因素。
在诗集出版而受到冷遇之后,萨巴以假名朱塞佩·卡里曼德雷(GiuseppeCarimandrei)站在第三人的角度创作了《诗集的历史和创作故事》(Storia e cronistoriadel Canzoniere)(1948年),在书中对自己的许多诗歌进行了单独分析,以此来说明他的意图和基本意义。
作者的首要意图是捍卫自己的作品,讨论其“品质和缺陷”,并揭露“其与众不同的一些原因”。
由于萨巴的创作超越了表象,揭示了隐藏的含义,这些“缺陷”就变成“质量”了。



Fanciulli al bagno 


Dodicenne fanciullo, io la tua vita 

giorno per giorno posso dirti, ed ora 

per ora. E adesso piú di prima, adesso 

che l’estate è al suo colmo, ed offre tanti 

vari piaceri a te e all’amico tuo. 

Uno fra gli altri, a me il piú caro un tempo. 

Di buon mattino la città attraversi, 

variopinta città dove sei nato; 

e ti rechi alla spiaggia. Lí dall’alta 

trave nell’onda capofitto caschi, 

o a gara con le palme il mar battendo 

immensa fra voi due fate una schiuma; 

e chi in mezzo ci passa? Di marini 

giochi sazio alla fine, o stanco almeno, 

lungo e dorato ti distendi al sole.




Sopra un ritratto di me bambino 


Com’eri bello, o fanciulletto, e come

ne trasmuta la vita! Il vestitino

guardo alla mannaia; a simulata

nave t’appoggi, e buoni e dolci hai gli occhi,

quasi intenti a un prodigio, e d’abbandono

e d’ingenua goffaggine una posa.

Altri tempi, fanciullo, altra stagione!

Tedio è il presente, del passato ho solo

rimorso; l’avvenire è una minaccia.

Pur, fanciullo bennato, ch’io ti guardi,

i tuoi riccioli biondi, la tua fronte

luminosa, e alla vita e a me perdono;

che sí, il volto è mutato, ed il dolore

ci separano e gli anni; ma nel cuore

lo so, lo sento, ancor, bimbo, son quello.




Paolina 


Paolina, dolce

Paolina,

raggio di sole entrato nella mia

vita improvviso;

chi sei, che appena ti conosco e tremo

se mi sei presso? tu a cui ieri ancora

«Il suo nome – chiedevo – signorina?»;

e tu alzando su me gli occhi di sogno

rispondevi: «Paolina».

Paolina, frutto

natio,

fatta di cose le piú aeree e insieme

le piú terrene,

nata ove solo nascere potevi,

nella città benedetta ove nacqui,

su cui vagano a sera i bei colori,

i piú divini colori, e ahimè! sono

nulla; acquei vapori.

Paolina, dolce

Paolina,

che tieni in cuore? Io non lo chiedo. È pura

la tua bellezza;

vi farebbe un pensiero quel che un alito

sullo specchio, che subito s’appanna.

Qual sei mi piaci, aureolata testina,

una qualunque fanciulla e una Dea

che si chiama Paolina.




L’ultimo amore 


Che mi vorrebbe ad essere felice?

Una stanzetta, ma col fuoco acceso;

due tazzine, due piccole tazzine,

una per te, l’altra per me, Paolina;

e addolcire coi tuoi baci l’amaro

della bevanda. O mia piccina, ascolta;

non ti vedrò fra qualche giorno, io credo,

che di rado e di furto. E non vorresti

prima una volta, una sol volta, quello

che in un orecchio già ti dissi, e tu,

su me alzando una mano che nell’atto

fu di baci punita e ricoperta,

m’hai risposto «sfacciato»; e nel mio petto

nascondevi, ridendo, la testina.

Non vuoi, Paolina? Che di te un ricordo

serbi, sí dolce sí dolce, che il cuore

mi manchi pure nel ricordo, e sia

l’ultimo fiore che tra i vivi io colga?



L’addio 


Senz’addii m’hai lasciato e senza pianti;

devo di ciò accorarmi? 

Tu non piangevi perché avevi tanti,

tanti baci da darmi.

Durano sí certe amorose intese

quanto una vita e piú. 

Io so un amore che ha durato un mese,

e vero amore fu.




Dopo un mese 


Era un mese trascorso. E t’ho veduta

ferma, una sera, dei negozi al lume

e dei fanali, attender lí qualcosa.

O qualcuno? Non so. So che indiscreto

fui d’appressarmi e porgerti la mano.

E tu sí me l’hai data la tua mano,

ma come un’altra, come, nel suo guanto

chiusa, ritrarla subito cercavi,

quasi in colpa un fanciullo, e ch’io là fossi

per punirti, per fare io a te del male.

No, mia Paolina. E i tuoi begli occhi intorno

volgendo, d’una zia, poi d’un’amica

m’hai tenuto discorso, complicato

lungo discorso, di cui nulla intesi.

Male Paolina; male fu non dirmi:

Addio, mi lasci; un nuovo amico attendo.

Vergogna? Dopo un mese, un cosí lungo

volger di tempo ai giovanetti? Ed io,

son io forse un acerbo, o un vecchio sono,

da temerne i rimbrotti; io che le cose

amo quali esse sono, e piú non chiedo?

Per salutarti ero venuto, appena

per salutarti, e troppo fu, fu grave

colpa, e ne porto meritata pena.




La mia fanciulla 


La mia fanciulla snella e polposetta 

è come un arboscello con le poma: 

una ne mangi ed un’altra t’alletta.

La mia piccola cara è una bambina. 

Teme, se tardi rincasa, legnate, 

suo castigo di quando era piccina.

E quando fa quella proibita cosa

si volge, e manda sospettose occhiate,

per veder se la mamma è là nascosa.

La mia piccola cara è troppo audace. 

Mette la testa con la grande chioma 

fra le mani, e mi guarda a lungo e tace.




Mezzogiorno d’inverno 


In quel momento ch’ero già felice 

(Dio mi perdoni la parola grande 

e tremenda) chi quasi al pianto spinse 

mia breve gioia? Voi direte: «Certa 

bella creatura che di là passava, 

e ti sorrise». Un palloncino invece, 

un turchino vagante palloncino 

nell’azzurro dell’aria, ed il nativo 

cielo non mai come nel chiaro e freddo 

mezzogiorno d’inverno risplendente. 

Cielo con qualche nuvoletta bianca, 

e i vetri delle case al sol fiammanti, 

e il fumo tenue d’uno due camini, 

e su tutte le cose, le divine 

cose, quel globo dalla mano incauta 

d’un fanciullo sfuggito (egli piangeva 

certo in mezzo alla folla il suo dolore, 

il suo grande dolore) tra il Palazzo 

della Borsa e il Caffè dove seduto 

oltre i vetri ammiravo io con lucenti 

occhi or salire or scendere il suo bene.




Favoletta 


Con larghi giri alla campagna piomba

re dell’azzurro spazio; 

e di gemente misera colomba

quale – oh mio Dio! – fa strazio.

Certa notte mi parve esser falchetto,

e colomba eri tu. 

Alte strida... ma poi chi piú diletto

ne avesse io non so piú.




La schiava 


Io sono adesso un giovane signore, 

e tu sei la mia schiava. Via, non farmi 

di no, sciocchina; lo so ben ch’è un sogno; 

ma il sogno di cui vivo è verità.

T’ho comperata, assai di qui lontano,

da quel vecchio in turbante, un giorno ch’ero

troppo infelice. E poi che singhiozzavi,

subito un bacio t’ho dato, poi buone

cose e dolci parole. Ora sei mia,

sei la mia cosa; ti potrei fanciulla

anche battere; invece solo bene

ti farò; ti farò fra un bacio e l’altro

se non dirmi, pensare almeno: È bello,

quando si è schiavi, avere un buon padrone.

Cosí, mio amore, se lontana sei, 

cosí parlo con te, che già nel letto, 

sveglio appena, nel mio cuore incomincio 

a parlarti, a pensarti, a vaneggiare.




Favoletta 


Al tempo che ancor rara è sulla balza

la verde erbetta, 

sui piè diritta all’arboscello s’alza

gentil capretta;

e spia se piú non sono i rami bassi

di gemme spogli. 

Ah foss’io una capretta, e mordicchiassi

altri germogli!




Forse un giorno diranno 


Far cattiverie, dir qualche sciocchezza, 

nulla al mondo è piú bello; quasi Dei 

ci si sente. Ora m’odi, o mia dolcezza!

Forse un giorno diranno: «Ma chi era 

questa Paolina, che le scrisse Saba 

versi d’amore?» E penseranno ad una 

strana creatura, assai da te diversa 

fingendoti e da tutte. E tu, leggera 

e vagante, che pensi tu che ai vivi 

risponderei, se vivo io fossi? «Bella, 

molto bella – direi – la Paolina; 

ma, per quanto ricordo, poco all’altre 

diversa che Trieste fan diletta.

E non aveva che la sua cosetta».




Commiato 


Voi lo sapete, amici, ed io lo so. 

Anche i versi somigliano alle bolle 

di sapone; una sale e un’altra no.




L’amorosa spina 

(1920) 


1

Sento che in fondo ai miei pensieri, a queste 

ore beate e meste, 

sei tu, bambina.

Sei tu Chiaretta, che non son due anni, 

non piú brutta, non bella 

piú d’ogni altra monella, 

in corti ancora sgraziati panni 

ti s’incontrava per via, dalla mamma 

per il pane mandata ed il carbone. 

Ora sai sola quali a te son buone 

cose: sul braccio reggi la borsetta, 

chiudi in quella lo specchio, giovanetta 

tu dai limpidi seni. E c’è lí dentro,

c’è quasi un cuore: uccelletto che a prova 

canta un’antica e nuova 

sua canzoncina.


2

Tu mi ammiri, fanciulla, tu mi senti

nel tuo cuor come un dio; 

ma i tuoi baci mi neghi, i baci ardenti

dovuti all’amor mio.

Lusinghiera t’accosti, e già t’invola

delizioso timore. 

È un vecchio gioco, un gioco che a te sola

piace, che a me è dolore.

Anche in sogno t’inseguo. In sogno l’arti

son, le menzogne, invano. 

Questa notte sognavo io di baciarti

la freddolosa mano.

A forza tu la ritraevi, e poi...

tutto adocchiavi in giro. 

Vedevi che nessuno era tra noi.

Con un lungo sospiro,

della tua mano mi porgevi invece

la rosa della bocca. 

Del ben che il tuo gentile atto mi fece

tutt’oggi il cor trabocca.


3

Guarda là quella vezzosa, 

guarda là quella smorfiosa.

Si restringe nelle spalle, 

tiene il viso nello scialle.

O qual mai castigo ha avuto? 

Nulla. Un bacio ha ricevuto.


4

Sento, fanciulla mia, sento che morte 

piú conviene d’amore a me che t’amo; 

e ch’essere sotterra ancor piú bramo 

del bene a cui m’adeschi e neghi forte.

Bella ignuda adorabile fanciulla,

quale tu sei veramente, e piú quale

ti vede il mio pensiero innamorato,

altri che me farai di te beato,

ad altri il dono che non ha l’uguale

farai, che tutti a vivere innamora.

Poi ch’io sono il tramonto e tu un’aurora,

molto è vero sperai, molto avrei fatto

per te, per me, per questo dolce mondo

che fuggo, sí tenacemente amato.

Ma troppo sono triste, troppo al fondo

nutro amari pensieri. Uno zampillo

sei tu, un’uccella sul piú alto ramo,

una cosa felice. Ed io dovrei,

io che ho tanto con me, tanto passato,

essere l’uomo che potrà di un solo

sguardo strappar del tuo pudore i veli,

e rapirti con sé negli alti cieli!


5

Nasca da un amor mio un fascicoletto

di versi, io pago sono.

Ho avuto un figlio tenero e diletto.

Un figlio di piú lunga e meno mesta 

vita che se di carne fosse, un buono 

che a te pure dà pace. 

Ma non nel cuore tu l’accogli; ahimè 

l’omaggio solo è quello che ti piace; 

che su tutte le cose tu di questa 

godi: che molti soffrano per te;

e quanti piú essi sono meglio è.


6

La parola cercare che piú attrista

dovrei per te figliola; 

dir che sei dura di cuore, egoista

e civettuola.

Pensi solo a te sola. D’infinite

cosucce i sensi appaghi. 

Aprir ti piace amorose partite,

e non le paghi.

Nulla dirò. Dirò a me stesso invece: 

questa è poi la tua mèta?

Sei uno che qualcosa al mondo fece, 

ed un poeta.

Sono parole. Sanguina il mio cuore 

come un cuore qualunque.

La dura spina che m’inflisse amore 

la porto ovunque.


7

Come ho goduto tra la veglia e il sonno

questa mattina! 

Uomo ero ancora, ed ero la marina

libera ed infinita.

Con le calme dorate e gli orizzonti

lontani il mare. 

Nel fondo ove non occhio può arrivare,

e non può lo scandaglio,

una pietruzza per me, una cosina

da nulla aveva. 

Per lei sola fremeva ed arrideva

l’azzurra immensità.


8

Lascia che m’inginocchi a te adorata, 

lascia ch’io baci le tue mani, lascia 

ch’io menta, e dica che te sola ho amata; 

cosí perdutamente tu mi piaci!

Tu mi piaci, da me cosí remota, 

che non conosco due anime al mondo 

piú divise, che mi sei quasi ignota, 

quasi estranea. E di me tieni il profondo.

Regalarti dovrei, Chiara, una rosa, 

ed io stesso acconciartela sul seno; 

poi tosto a me fare altro dono (cosa 

non dico io a te), ma che dà pace almeno.

Oh, se il dono va bene a lei d’un fiore, 

altro a me convenire può che il ferro? 

penso; e alla vita, spasimo e dolore, 

alla vita in cui sei, piú e piú m’afferro.


9

Hai un piccolo scialle, e con quel tutta 

ti celi, ed i labbrucci spingi in fuori, 

quando un bacio ti buschi. Io dico: «Brutta,

brutta tu veramente». E invece mai

cosí bella ti godo come allora

che t’adiri, e adirarti, ahimè, non sai.

Cara, quanto sei cara! Una un po’ viva 

bimba, ancor quasi di scuola; ed io forse, 

io t’assomiglio un satiro cui morse 

il desiderio di te fuggitiva.


10

Dolorosi pensieri a volte passano

per la mia testa. 

Tante notti che insonni a me trascorrono

tu vegli in festa.

Altri quel seno vergine disfiorano;

le ignude mani, 

quelle mani ch’io bacio a turno premono

nei balli vani.

Là di fiori non sdegni omaggi accogliere;

e non t’annoi 

a quei detti di cui so che piú stupidi

son solo i tuoi.

Dolcissimi pensieri a volte tornano

dentro il mio cuore. 

Dalla lontana adolescenza vengono

per te, mio amore.

Mi dicono: Ella è tanto ancora tenera,

bambina tanto! 

Potrai tu solo, avventurato, apprenderle

estasi e pianto.

È ghiaccio, ma che poco basta premere

perché si sfaldi. 

Di sotto i mari troverai che fremono

azzurri e caldi.


11

E di nuovo arrabbiata! Il suo furore

va e viene pronto. 

Sulle gote dolcissime il rossore

di un bel tramonto

per quanto poco è riapparso! Sapesse

che le farei; 

sol che amore in mia mano la mettesse

povera lei!

Un modo io so, so un giusto modo e solo

di lei punire, 

che al suo di monelluccia corpicciolo

può convenire.

Due lacrimette a giú scendere amare,

a sparir ratte; 

e le si fa tra i sospiri obliare

sue malefatte.


12

Sovrumana dolcezza

io so, che ti farà i begli occhi chiudere

come la morte.

Se tutti i succhi della primavera 

fossero entrati nel mio vecchio tronco, 

per farlo rifiorire anche una volta, 

non tutto il bene sentirei che sento 

solo a guardarti, ad aver te vicina, 

a seguire ogni tuo gesto, ogni modo 

tuo di essere, ogni tuo piccolo atto. 

E se vicina non t’ho, se a te in alta 

solitudine penso, piú infuocato 

serpeggia nelle mie vene il pensiero 

della carne, il presagio

dell’amara dolcezza,

che so che ti farà i begli occhi chiudere

come la morte.




In riva al mare 


Eran le sei del pomeriggio, un giorno 

chiaro festivo. Dietro al Faro, in quelle 

parti ove s’ode beatamente il suono 

d’una squilla, la voce d’un fanciullo 

che gioca in pace intorno alle carcasse 

di vecchie navi, presso all’ampio mare 

solo seduto; io giunsi, se non erro, 

a un culmine del mio dolore umano.

Tra i sassi che prendevo per lanciare 

nell’onda (ed una galleggiante trave 

era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto, 

un bel coccio marrone, un tempo gaia 

utile forma nella cucinetta, 

con le finestre aperte al sole e al verde 

della collina. E fino a questo un uomo 

può assomigliarsi, angosciosamente.

Passò una barca con la vela gialla, 

che di giallo tingeva il mare sotto; 

e il silenzio era estremo. Io della morte 

non desiderio provai, ma vergogna 

di non averla ancora unica eletta, 

d’amare piú di lei io qualche cosa 

che sulla superficie della terra 

si muove, e illude col soave viso.




Il canto di un mattino 


Da te, cuor mio, l’ultimo canto aspetto, 

e mi diletto a pensarlo fra me.

Del mare sulla riva solatia,

non so se in sogno o vegliando, ho veduto,

quasi ancor giovanetto, un marinaio.

La gomena toglieva alla colonna

dell’approdo, e oscillava in mar la conscia

nave, pronta a salpare.

E l’udivo cantare,

per se stesso, ma sí che la città

n’era intenta, ed i colli e la marina,

e sopra tutte le cose il mio cuore:

«Meglio – cantava – dire addio all’amore,

se nell’amor non è felicità».

Lieto appariva il suo bel volto; intorno

era la pace, era il silenzio; alcuno

né vicino scorgevo né lontano;

brillava il sole nel cielo, sul piano

vasto del mare, nel nascente giorno.

Egli è solo, pensavo; or dove mai

vuole approdar la sua piccola barca?

«Cosí, piccina mia, cosí non va»

diceva il canto, il canto che per via

ti segue; alla taverna, come donna

di tutti, l’hai vicino.

Ma in quel chiaro mattino

altro ammoniva quella voce; e questo

lo sai tu, cuore mio, che strane cose

ti chiedevi ascoltando: or se lontana

andrà la nave, or se la pena vana

non fosse, ed una colpa il mio esser mesto.

Sempre cantando, si affrettava il mozzo 

alla partenza; ed io pensavo: È un rozzo 

uomo di mare? O è forse un semidio?

Si tacque a un tratto, balzò nella nave; 

chiara soave rimembranza in me.




Canzonetta 1 

 La malinconia 


Malinconia,

la vita mia

struggi terribilmente;

e non v’è al mondo, non v’è al mondo niente

che mi divaghi.

Niente, o un nonnulla

forse. Fanciulla,

quello per me saresti.

S’apre una porta; in tue succinte vesti

entri, e mi smaghi.

Piccola tanto,

fugace incanto

di primavera. Biondi

riccioli parte nel basco nascondi,

ed altri ostenti.

Ma giovanezza,

torbida ebbrezza,

passa, passa l’amore.

Restano tristi nel dolente cuore

presentimenti.

Malinconia,

la vita mia

amò lieta una cosa,

sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,

ch’altro non spero.

Quando non s’ama 

piú, non si chiama

lei la liberatrice;

e nel dolore non fa piú felice

il suo pensiero.

Io non sapevo

questo; ora bevo

l’ultimo sorso amaro

dell’esperienza. Oh, quanto è mai piú caro

il pensier della morte

al giovanetto,

che a un primo affetto

cangia colore e trema.

Non ama il vecchio la tomba: suprema

crudeltà della sorte.




Canzonetta 2

 Il dolore 


Dai miei prim’anni

d’ignoti affanni

io celo in me il terrore.

Il vero, il vivo, il presente dolore

m’è quasi amico.

Con dolce pena

da lui la vena

dei miei versi derivo;

e quando a lungo in compagnia ne vivo

lo benedico.

Con lui da pari

lottando a pari

le belle cose appresi,

tante e sí strane, che poi grazie resi

alla sua guerra.

Per lui son fuori

dei tuoi orrori,

volgo a me sempre odioso,

e sarà il nome mio per lui glorioso

nella mia terra.

O sia che accanto

l’abbia in un canto

di caffeuccio, o vada,

com’uom che fugge, per vie e piazze io vada

della città;

senza conforto, 

quando per morto

il mio cuor s’abbandona;

sempre nasce da lui la mia piú buona

felicità.

Io pover’uomo,

già quasi domo,

mi rilevo beato;

e maledire piú non so il peccato

d’amor gentile.

Ma se il pensiero,

solo in lui vero,

mi pinge ignoto male;

credere posso non vi sia un mortale

di me piú vile.




Canzonetta 3

 Il vino 


La vita è cosí amara, 

il vino è cosí dolce; 

perché dunque non bere?

Ogni triste pensiere 

tu abbia nella mente 

ti si muta in delizia.

Quasi una puerizia 

si fa l’età matura, 

un intimo sorriso.

Allora è paradiso 

quando al cuore ti torna 

una dolce fanciulla.

Ogni altra gioia è nulla 

per te rispetto a questa, 

ogni altra luce è fioca.

La sua voce un po’ roca, 

le volgari parole 

che vogliono ceffate,

son tranquille beate 

musiche che tu ascolti. 

Piú non dici: Deh, basta!

La nudità sua casta 

risplende come un sole; 

ha una bontà sublime.

Lieve accennar d’opime 

forme, un femmineo segno 

ti fa piangere quasi.

Dicono i sensi, invasi 

dall’incanto: Ella è buona, 

buona come un buon Dio.

Al mio basso desio, 

come un angelo all’uomo, 

sorridente compiace.

Ogni mia voglia in pace 

comporta; il suo sorriso, 

ch’è rimprovero un poco:

«Tanto – dice – quel gioco 

ti piace? E appena tocca 

mia angelica natura.

Dall’amplesso piú pura 

mi rilevo, e tu appena 

puoi baciarmi le mani».

Come ai giorni lontani 

della tua giovanezza 

vuoi vedere una donna?

Fare in te una Madonna 

d’una scaltra monella? 

Questo il vino t’impara.




Canzonetta 4

 La fanciulla e la gazza 


Bimba, se avessi un cuore 

fra i tuoi piccoli seni, 

un cuor dolce e profondo;

quale sarebbe al mondo 

di te cosa piú cara? 

chi di me piú beato?

Tutto che già in passato 

sognai, sarebbe al fine: 

gaia bellezza e pura,

cui dato abbia natura 

dolce bontà che amo. 

Bimba, fossi tu tale!

Su e giú lungo il Canale 

abbiamo fatto un giorno 

la passeggiata insieme.

Il dubbio che mi preme 

non t’ho, bimba, taciuto, 

andando a passi lenti.

I tuoi begli occhi intenti 

nei miei, nulla dicevi, 

la favola ascoltando.

Dovevo a quando a quando 

salvare i tuoi piedini 

dall’acqua in pozze accolta.

Della gazza che sciolta 

– io ti narravo – in casa 

qual persona tenevo.

Ella con me, sapevo 

io vivere con lei, 

da me tanto diversa.

Che un’ingrata perversa

fosse non lo sapevo;

lo seppi un dí, Chiaretta;

uno che stretta stretta 

sul braccio mio reggendola 

molto amorosamente;

caddi, e a terra dolente 

giacqui. Ella invece nulla, 

nulla soffrí. Ma il nero

becco in me volse, e un fiero, 

il piú nella sua forza 

fiero, male m’inflisse.

Nulla il caduto disse 

contro di lei, né fece. 

Rise e si rilevò.

Ma questo ancora io so: 

che spesso è in voi fanciulle 

della mia gazza il cuore.




Canzonetta 5

 Le persiane chiuse 


Sensazioni lontane 

mi trafiggono il cuore; 

un ricordo improvviso.

Alza, fanciulla, il viso; 

e quanto avviene ascolta 

che per te mi rammenti.

Sono da poco i venti 

dell’inverno caduti; 

ed ecco, un mezzogiorno,

della scuola al ritorno, 

vasta misteriosa 

penombra in casa trovo.

Tutto mi sembra nuovo 

con lei nella mia casa; 

tutto ha per me un incanto.

Tutto mi piace tanto 

cosí: persone, oggetti. 

Provo strana esultanza.

Tempo è che in ogni stanza 

han messo le persiane 

che la penombra fanno.

Il presagio mi dànno 

esse delle vacanze, 

della vicina estate.

Ore in mare beate 

sogno, ghiacce bevande 

dopo corse affannose;

monti, vallette ombrose 

che non vidi, ma lessi 

di lor, chiuso scolaro.

Ogni dolcezza imparo 

cosí, solo sognando. 

E una voce mi chiama.

Oh, quante cose brama

saper la cara voce!

Se parla, io le rispondo;

ma se so, mi nascondo 

pure da lei che amo, 

pur dalla madre mia.

Come al fondo tu sia 

di ciò, forse ti chiedi. 

Bimba, abbassa il tuo viso.

Il tuo seno diviso

da un’ombra queste cose

mi richiamò beate.

Mi richiamò beate 

cose un virgineo seno, 

care cose lontane.




Canzonetta 6

Chiaretta in villeggiatura 


Com’eri bella, Chiaretta, sui monti, 

cui cingon boschi di pini le fronti, 

e prati hanno nel mezzo.

Là, d’un albero al rezzo,

fra te sedevo e la sorella buona.

E bianca nuvoletta eri e persona.

Con che ingenua malizia là, bambina, 

or bocconi giacevi, ora supina. 

Quanto, della maggiore

tua sorella a rossore,

quanto scoprivi agli occhi miei beati,

giú rotolante per gli erbosi prati.

O la corsa prendevi ad altro clivo, 

volgendoti a guardar s’io t’inseguivo, 

come una ninfa antica.

Ed io, gentile amica,

io che fauno non sono, in pace stavo,

e d’intraviste beltà mi beavo.

Il cielo era coperto, il tuono in fondo 

romoreggiante; l’estate sul mondo 

ombre stampava e pace.

Era il tempo in cui piace

con l’amata fanciulla passar l’ore;

e godono gli occhi e tace il cuore.

Assai, bella Chiaretta, assai godere

si può con gli occhi; ma piú dolce è avere

chi s’ama, sola a solo.

Dietro ad un muricciolo

per man ti trassi, e sulla bocca ardente

ti baciai, ti baciai sí lungamente.

A forza quindi scoprendo il tuo viso: 

«T’è spiaciuto?» ti chiesi. E tu, diviso 

tenendomi col braccio,

un sorriso che taccio

accennavi, beato. Ed aspri intanto

da te udivo rimbrotti: «Osar qui tanto?»

Sospettosa guatavi, e: «Ci ha nessuno

– mi chiedevi – veduti?» Ed io: «Nessuno»

Ed indietro tornammo.

Gran compagnia trovammo

sotto l’albero; gli occhi in su eran volti.

Ira e dolore ben pareva in molti.

Dove ancor delle nubi il bianco velo 

scorger lasciava l’azzurro del cielo 

caldo pomeridiano;

un falco, ormai lontano,

predata aveva una in sé troppo fida

rondine. Noi n’udimmo ancor le strida.




Canzonetta 7

 Il mendico 


Andrei piú curvo per la via e piú mesto 

quando tu mi lasciassi; altro che questo, 

no, non creder, bambina.

Malinconia m’inclina

ai pensieri adoranti, alle dolcezze

del sogno, ad obliarmi in mute ebbrezze.

Di dubbi, d’amarissimi pensieri, 

di te avevo, Chiaretta, ancora ieri 

dentro di me la pena.

La via d’alberi amena

tra le case facevo, verso il basso

piú stretta ed affollata ad ogni passo.

Era mezza nel sol, mezza nell’ombra. 

Cosa m’apparve che mi fece sgombra 

l’anima del suo male.

Il piú triste mortale,

un mendico, m’apparve. Egli cantava,

appoggiato al compagno, e lento andava.

«Il paese – cantava – ove son nato 

Livorno di Toscana vien chiamato». 

Al passante, all’ignoto,

fermando intorno il moto,

la sua storia poetava, il suo destino.

Il suo mestiere fu dell’imbianchino.

Il sette agosto del novantasei

– l’ora che nel tuo letto appena sei

desta, e mal desta sogni –

in quello come in ogni

altro giorno era andato a lavorare.

Una facciata doveva imbiancare.

E la pittura gli fece difetto,

e si sporse a chiamar dal parapetto

nella corte il garzone...

Accorsero persone;

fu a braccia all’ospedale trasportato;

e tre mesi – cantava – vi è restato.

Lacrimava una donna alla finestra 

bassa della sua casa; ogni altra destra 

piú dell’usato dava.

Sol cui egli donava

nulla gli porse per campar sua vita;

non feci io a lui la carità fiorita.

No. Troppe cose mi chiamava a mente 

la chiara faccia, la voce dolente. 

Io, fermo a una colonna,

un soldato, la donna,

tutto il mondo che udiva, e Dio, era amico.

Di te, di me m’obliai nel mendico.




Canzonetta 8  

L’incisore 


Mi sogno io qualche volta 

di fare antiche stampe. 

È la felicità.

L’ora, il tempo che fa, 

la stagione dell’anno 

dicon l’albero, il muro.

Il dolce chiaroscuro, 

la prospettiva ardita 

son la delizia mia.

Com’è bella una via,

che lenta in prima, al mezzo

rapidissima ascende.

Desiderio mi prende 

tosto di tratteggiarla, 

fra luci ed ombre, in pace.

Di gioia il cor si sface 

quando segno i passanti, 

uno qua, l’altro in fondo.

Con non so che giocondo 

ai fatti suoi va ognuno. 

Quelli che vanno, vanno

in eterno; se stanno, 

fra lor parlan per sempre. 

Fuori d’un pianoterra,

nude le braccia, ferra 

d’un cavallo la zampa 

giovane maniscalco.

Io guardo il vero, e calco 

qual’è la dolce vita, 

con qualche cosa ancora,

che dice: guarda e adora; 

guarda se il mondo è bello, 

se il tuo dolor non vale.

Quante (e il diletto è uguale) 

quante altre cose ancora 

io sulla lastra segno.

Anche interni disegno. 

Una stanza: sue bianche 

tendine agita il vento.

Là senza un pentimento 

(o non sa ch’altri spia?) 

giace fanciulla ignuda.

Nella luce che cruda 

entra dalla finestra 

scopre il dorso gentile.

E quel che ha un nome vile 

è un’assai gentil cosa 

nelle mie stampe accolta.




Canzonetta 9 

 Chiaretta 


Altre dopo di lei 

fanciulle ho conosciute: 

non l’uguaglia nessuna.

E per questo a nessuna 

parlai, da che la vidi, 

oggi sono due anni.

Oggi sono due anni, 

Chiaretta mia; e se taccio 

(e sai perché) il secondo;

per nessun bene al mondo 

darei quel che un baleno 

scorse, tra guerre e paci.

Che lotta i primi baci 

sulle labbra tremanti; 

e gli offesi pudori,

e i virginei rossori 

dalle braccia nascosti 

sulla guancia infuocata.

Quante, da che t’ho amata, 

quante piú cose afferma 

l’anima, e meno nega!

Nell’oscura bottega 

d’antiquario, la mia, 

ti condusse il bisogno.

E poi ci hai fatto il sogno 

della tua adolescenza, 

signorile Chiaretta.

Subito t’ho diletta. 

Ti vidi appena, e dissi: 

Com’è gentile e frale!

Mai le farò del male; 

e pur dolce sarebbe 

farla, un poco, patire.

E poi quanto soffrire 

per me, per te che care 

cose, da idillio, avevi.

Con che grazia facevi 

non sai, d’antichi tempi, 

ogni tuo lavoretto.

Come ad un fanciulletto 

dare un libro sapevi! 

Quanto dolce all’amara

vita hai mesciuto, cara 

tenera delicata 

onesta ispiratrice

Chiaretta! Oh me felice 

se pur posso ancor dire: 

Male non feci io a lei.




Canzonetta 10

 Le quattro stagioni 


L’infanzia è un verde prato. 

Nello spazio infinito 

sembra, al tempo eternale.

Là l’uomo e l’animale

sono una cosa sola

con l’erbe e l’alte piante.

Meraviglie son tante 

quanti fra l’erba sparsi 

fioretti l’agnel pasce.

Porta il sol quando nasce 

l’allegra fame, e i lunghi 

sonni al suo tramontare.

La giovanezza è un mare 

tempestoso; mai pace 

la tua barca vi trova.

Tende alla Terra nuova 

il desiderio, a un mondo 

che nessun piè ha calcato.

E quel ch’è sempre stato, 

sempre sarà, ha in dispregio 

la stanca anima ardente,

che disperatamente 

sente da sé lontano 

della vita il mattino.

Un lago cristallino

è la maturità;

una sosta, una pace,

un dolore che tace, 

e tranquillo si crea 

la giornata operosa.

Nella luce ogni cosa 

splende; il già odiato vero 

è la cosa perfetta.

Ama qual’è Chiaretta: 

come al fanciullo il tempo 

sembra, a chi opra, eterno.

La vecchiezza è l’inverno, 

spesso ai ricchi felice, 

al povero tremendo.

Quei che in sua mano avendo 

il suo tesoro, in vane 

cure, qua e là, lo sperde;

anche quel poco perde 

che a sé serbava, quando 

la piú ardua età viene.

Ma chi accresce il suo bene, 

chi lo sperde, oblia tutto 

sotto un erboso prato.




Canzonetta 11 

 Il poeta 


Io non so amare,

io non so fare

bene che questa cosa,

cui dava a me la vita dolorosa

unico scampo.

Io dico l’arte

d’incider carte

di difficili versi,

che spesso stanno fra lor come avversi

nemici in campo.

Quando piú dolce

la rima molce

l’orecchio, e quando pare

che della canzonetta il vago andare

segua d’amica;

ahi che nessuno,

fuor di me e d’uno

ne sa il prezzo in dolore.

Chi beve il vino, e dell’agricoltore

sa la fatica?

Per questo bene

di quante pene

devo regger l’assalto!

Muovere audace, trar rapido un salto

fuor della rete.

Ardito e scaltro, 

per far non altro

che la mia buona guerra,

quante forze ho d’abbatter sulla terra,

e in me secrete!

Campar la vita

con l’infinita

pena di rei negozi;

e dar la mia giornata per gli ozi

aspri d’un’ora.

E tanto in cuore

aver d’amore

da dire: Tutto è bello;

anche l’uomo e il suo male, anche in me quello

che m’addolora.




Canzonetta 12

 Sopra un mio antico tema 


Di Piazza Grande 

nel ciel piú grande 

c’è là verso la riva, 

nuvoletta rosata, che l’estiva 

sera prepara.

Come beata

la delicata

nell’azzurro si culla,

e come mi ricorda una fanciulla

che ha nome Chiara.

Tutti felici

i miei amici

la guardano con me,

coi miei occhi la guardano, al caffè

stando seduti.

Sono per lei

quei versi miei

che feci or son vent’anni,

(i primi), ignaro che avrei tanti affanni

e beni avuti.

Nella mia stanza,

muta esultanza

dentro il cuore premendo,

stavo un mattino, in me lieto volgendo

il destin mio.

D’ingenuo amore 

batteva il cuore

pel caro amico allora.

M’affaccio e vedo quel lume d’aurora

nel ciel natio.

In due spezzarsi

e dileguarsi

poscia in aere lo vidi;

ed un mesto e soave anche in lui vidi

ammonimento.

Or che non oso

fama e riposo

sperar fuor della morte,

nella mia nuvoletta la mia sorte

amo e rammento.




Finale 


L’umana vita è oscura e dolorosa, 

e non è ferma in lei nessuna cosa.

Solo il passo del Tempo è sempre uguale. 

Amor fa un anno come un giorno breve; 

il tedio accoglier numerosi gli anni 

può in una sola giornata; ma il passo 

suo non sosta, né muta. Era Chiaretta 

una fanciulla, ed ora è giovanetta, 

sarà donna domani. E si riceve, 

queste cose pensando, un colpo in mezzo 

del cuore. Appena, a non pensarle, l’arte 

mi giova; fare in me di molte e sparse 

cose una sola e bella. E d’ogni male 

mi guarisce un bel verso. Oh quante volte 

– e questa ancora – per lui che nessuno 

piú sa, né intende, sopra l’onte e i danni,

sono partito da Malinconia 

e giunto a Beatitudine per via.




Autobiografia  

(1924) 



1

Per immagini tristi e dolorose 

passò la giovanezza mia infelice, 

che l’arte ad altri ha fatte dilettose, 

come una verde tranquilla pendice.

Tutto il dolor che ho sofferto non lice 

dirlo, né voglion mie rime festose. 

Amano esse chi in suo cuore dice: 

Per rinascer torrei le stesse cose.

A viver senza il molto ambito alloro

fui forse il solo poeta italiano;

né questo ancor mi fa un’anima amara.

Quando un debole sono non m’accoro. 

L’orgoglio è il mio piú buon peccato umano. 

La mia giornata a sera si rischiara.


2

Quando nacqui mia madre ne piangeva, 

sola, la notte, nel deserto letto. 

Per me, per lei che il dolore struggeva, 

trafficavano i suoi cari nel ghetto.

Da sé il piú vecchio le spese faceva, 

per risparmio, e piú forse per diletto. 

Con due fiorini un cappone metteva 

nel suo grande turchino fazzoletto.

Come bella doveva essere allora

la mia città: tutta un mercato aperto!

Di molto verde, uscendo con mia madre,

io, come in sogno, mi ricordo ancora. 

Ma di malinconia fui tosto esperto; 

unico figlio che ha lontano il padre.


3

Mio padre è stato per me «l’assassino», 

fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. 

Allora ho visto ch’egli era un bambino, 

e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino, 

un sorriso, in miseria, dolce e astuto. 

Andò sempre pel mondo pellegrino; 

piú d’una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre

tutti sentiva della vita i pesi.

Di mano ei gli sfuggí come un pallone.

«Non somigliare – ammoniva – a tuo padre». 

Ed io piú tardi in me stesso lo intesi: 

Eran due razze in antica tenzone.


4

La mia infanzia fu povera e beata

di pochi amici, di qualche animale;

con una zia benefica ed amata

come la madre, e in cielo Iddio immortale.

All’angelo custode era lasciata 

sgombra, la notte, metà del guanciale; 

mai piú la cara sua forma ho sognata 

dopo la prima dolcezza carnale.

Di risa irrefrenabili ai compagni, 

e a me di strano fervore argomento, 

quando alla scuola i versi recitavo;

tra fischi, cori, animaleschi lagni, 

ancor mi vedo in quella bolgia, e sento 

sola un’intima voce dirmi bravo.


5

Ma l’angelo custode volò via, 

e tacque in cuore quell’intima voce. 

Tanto amavo una cosa quanto è ria. 

Ogni veleno cercavo che nuoce.

Scuri pensieri con malinconia 

mi dava l’ozio che a lascivia doce. 

Quando rinacqui un’altra era la mia 

anima, come un’altra la mia voce.

Dal fanciullo era nato il giovanetto, 

ma triste ancora, ancor senza baldanza, 

ed incerta ai suoi occhi era la mèta.

A sé e ad altri crudele, del suo letto 

in un canto sedeva in buia stanza, 

come chi finge una pena secreta.


6

Ebbi allora un amico; a lui scrivevo 

lunghe lettere come ad una sposa. 

Per esse appresi che una grazia avevo, 

e a tutti ancor, fuor che a noi due, nascosa.

Dolci e saggi consigli io gli porgevo, 

e doni a tanta amicizia amorosa. 

Sulle sue gote di fanciul vedevo 

l’aurora in cielo dipinta di rosa.

Su quelle care chiome avrei voluto 

por di mia mano l’alloro una sera 

di gloria, e dir: Questo è l’amico mio.

Fede il destino a lui non ha tenuto, 

o forse quale mi apparve non era. 

Egli era bello e lieto come un dio.


7

Era già il tempo d’amare; un giocondo 

l’alba mi dava ed il vespro stupore. 

Cosí cammina per le vie del mondo 

chi veramente del mondo è signore.

Ai colli uscivo la sera o al rotondo 

lido del mare, e mi diceva il cuore: 

Dell’umana natura essere al fondo 

pensavi, e invece ne sei quasi fuore.

Un poeta, di cui quando va il canto 

per l’ampia Terra, si vede la gente, 

pure a lui grata, volgersi per via,

a riguardarlo! Ed io son nato a tanto, 

io qui su questo lido ora giacente. 

È possibile, oh ciel, che questo sia?


8

Cosí sognavo, e in ciel la vespertina 

stella brillava presso al dolce e bianco 

spicchio lunare, e in grembo alla marina 

si rifletteva, tremula. O uno stanco

esser credevo, al sole che vien manco 

visibilmente, mia scialba mattina 

paragonando. E piansi, e feci anco 

pianger mia madre ad abbracciarmi china.

Voluto in parte, in parte era pur vero

il mio dolore. Ma che sia soffrire

lo seppi poi, quando un’idea improvvisa

mi strinse il cuore, m’occupò il pensiero 

di mostri, insonne credevo impazzire. 

E questo fu verso i vent’anni, a Pisa.


9

Notte e giorno un pensiero aver coatto,

estraneo a me, non mai da me diviso;

questo m’accadde; nei terrori a un tratto

dell’inferno cader dal paradiso.

Come da questo spaventoso fatto

io non rimasi, ancor lo ignoro, ucciso.

Invece strinsi col dolore un patto,

l’accettai, con lui vissi viso a viso.

Vidi altri luoghi, ebbi novelli amici.

Strane cose da strani libri appresi.

Dopo quattro o cinque anni, a poco a poco,

non piú quei giorni estatici e felici

ebbi, mai piú; ma liberi, ed intesi

della vita e dell’arte ancora al gioco.


10

Vivevo allora a Firenze, e una volta

venivo ogni anno alla città natale.

Piú d’uno in suoi ricordi ancor m’ascolta

dire, col nome di Montereale,

i miei versi agli amici, o ad un’accolta

d’ignari dentro assai nobili sale.

Plausi n’avevo, or n’ho vergogna molta;

celarlo altrui, quand’io lo so, non vale.

Gabriele d’Annunzio alla Versiglia

vidi e conobbi; all’ospite fu assai

egli cortese, altro per me non fece.

A Giovanni Papini, alla famiglia

che fu poi della «Voce», io appena o mai

non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece.


11

Me stesso ritrovai tra i miei soldati.

Nacque tra essi la mia Musa schietta.

In camerata, durante i sudati

giochi, nella prigione oscura e stretta,

pochi sonetti mi cantai, beati

di libertà, per un’appena detta

vena di nostalgia qua e là dorati,

volti a chi solo il tuo ritorno aspetta.

Ero come in un sogno m’hai sognato

tu, Lina, allora. E il sogno mi narravi

cosí che la tua lettera ho baciata.

«Marinaio in licenza eri tornato,

e con quanto entusiasmo mi parlavi

della tua vita a me meravigliata!»


12

Ed amai nuovamente; e fu di Lina

dal rosso scialle il piú della mia vita.

Quella che cresce accanto a noi, bambina

dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.

Trieste è la città, la donna è Lina,

per cui scrissi il mio libro di piú ardita

sincerità; né dalla sua fu fin’

ad oggi mai l’anima mia partita.

Ogni altro conobbi umano amore;

ma per Lina torrei di nuovo un’altra

vita, di nuovo vorrei cominciare.

Per l’altezze l’amai del suo dolore;

perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,

e tutto seppe, e non se stessa, amare.


13

Ero con lei quando il mio libro usciva,

il primo, e n’ebbi i primi disinganni.

Qualche porta qua e là vero s’apriva

alla mia Musa dai semplici panni;

ma niuno intese quale custodiva

letizia in cor di superati affanni;

nessuna voce alla collina udiva

di Montebello giungermi in quegli anni.

Di nuovo ero con lei quando a Bologna,

per quelle rosse anguste vie a me care,

la Serena cantai Disperazione.

Ed a Milano, dove non si sogna

d’arte felicemente, e me pensare 

potevo già fra le spente persone.


14

Ritornai con la guerra fantaccino. 

Fui cattivo poeta e buon soldato: 

vorrei ben dirlo! Ma non pur bambino 

amavo contro il vero esser lodato.

Cantai di Zaccaria, cantai di Nino,

e d’altri figli del popolo amato.

Ma non piú dei miei giorni in sul mattino

troppo sotto alle cose son restato.

A Giorgio Fano, al buon Guido Voghera, 

ai dolci amici di Trieste andava 

l’anima da caserme e accampamenti.

Dell’Europa – pensavo – ecco, è la sera; 

quella che a noi fanciulli s’annunciava 

per gli estremi bagliori in lei fulgenti.


15

Una strana bottega d’antiquario 

s’apre, a Trieste, in una via secreta. 

D’antiche legature un oro vario 

l’occhio per gli scaffali errante allieta.

Vive in quell’aria tranquillo un poeta. 

Dei morti in quel vivente lapidario 

la sua opera compie, onesta e lieta, 

d’Amor pensoso, ignoto e solitario.

Morir spezzato dal chiuso fervore 

vorrebbe un giorno; sulle amate carte 

chiudere gli occhi che han veduto tanto.

E quel che del suo tempo restò fuore 

e del suo spazio, ancor piú bello l’arte 

gli pinse, ancor piú dolce gli fe’ il canto.




Il lussurioso 


Ero, fanciullo, il primo in ogni ludo; 

e sempre, come avessi avuto l’ale, 

tendevo all’alto. Or tutto il bene e il male 

in un pensiero che non dico chiudo.

Da me ogni gioia, fuori una, escludo 

in cielo e in terra; al mio ardore mortale 

il tronco è dato per castigo, al quale 

Amore m’ha legato inerme ignudo.

Ahi, questi dispietati atroci nodi 

m’entran sí dolci nella viva carne 

che libertà, potendo, non torrei.

Piú caro li stringesse in nuovi modi 

Amore intorno alle mie membra, a farne 

sprizzare il sangue giovanile, avrei.




Il violento 


Dov’è un cuore del mio piú alto e umano 

nel mondo che il mio amore tutto abbraccia? 

Morti e rovine segnan la mia traccia, 

sempre, fin dove l’occhio va lontano.

S’alza per benedire la mia mano, 

e tutto, quando scende, opprime e schiaccia. 

Ritorno in me da un’amorosa caccia, 

sangue anelante, e per sospetto insano.

Chi andando teme quanto me che un’erba 

il suo piede non pesti, un fiorellino? 

E sgozzo, e violo, e faccio altre sciagure.

Sola una cosa a una vita mi serba 

odiosa: l’odor vostro divino, 

umili sante offese creature.




L’accidioso 


La vita, non so bene in che, m’offese. 

Ed io non chiedo piú a lei che le cose 

che son simili a morte. Gaudiose 

io dico l’ore in cupi sonni spese.

Nasce l’uomo alla gloria, ad alte imprese, 

a militare in schiere sanguinose. 

Reo disgusto che in me Natura pose tale, 

nel fiore degli anni, mi rese,

che far del giorno notte è il mio pensiero. 

Ho in odio fin l’amorosa tenzone, 

ed in occulto mi corrompo solo.

Fissa mia moglie in me il suo occhio nero, 

dove sta scritta la mia dannazione; 

e pietoso mi guarda il mio figliolo.




L’ispirato 


Tutto, se lo spavento non m’atterra, 

son luce. E tutte le cose create 

vengon sí stranamente a me accoppiate 

che il senso occulte rispondenze afferra.

Ma temo. Temo dei casi la guerra, 

dell’uomo a me, alle in me imprigionate 

forme, che a libertà reco. Giornate 

troppo avrei dolci, senza questo, in terra.

Or d’amori inumani, or della sorte 

pensoso, porto in me quasi ogni vita. 

Tal dono e tal castigo ho ricevuto.

Non esser nato non vorrei, né morte 

innanzi tempo; vorrei già compita 

l’opera ch’è il mio Fato: esser vissuto.




L’empio 


In me lo spirito uccisi, e il dolore 

ch’è sacro ai beni della carne ho volto. 

Se mai di me, del mio pallido volto, 

misto sentissi di pietà l’orrore,

fuggi: è il deserto ove non cresce un fiore 

l’anima mia: nessuna voce ascolto 

che quella della femmina che accolto 

m’ha in lei, che vive del mio basso ardore.

Sogno la baia piú molle che il sole 

piú caldo illustra; di sotto il suo cielo 

fammi vivere, in quella io sono nato.

Perché mi fruga il tuo sguardo, e che vuole? 

Non temere: mia nausea a me non celo. 

Non guardo sempre in su l’Appassionato?




L’appassionato 


Natura, perché ardo, m’ha di rosso 

pelo le guance rivestite e il mento. 

Non è una brezza lo spirito: è un vento 

impetuoso, ond’anche il Fato è scosso.

Deh, siimi amico, e vedrai quanto posso 

darti; se mi resisti cadrai spento. 

Sentissi in parte l’amore ch’io sento 

per te, saresti a inginocchiarti mosso.

Non conosco nell’uomo che un delitto: 

è non udir la mia implorante voce, 

è non cedere al mio geloso affetto.

Ero Mosè che ti trasse d’Egitto, 

ed ho sofferto per te sulla croce. 

Mi chiamano in Arabia Maometto.




L’amante 


Sul capo io porto un serto glorioso. 

Amo una donna con cui mai non giacqui, 

né mai mi giacerò, cui sempre tacqui 

l’amor mio, che affissarla appena oso.

Ho su tutti in dispregio il Lussurioso. 

Poiché, lode agli dèi, cotale io nacqui 

che sempre e solo di quel mi compiacqui 

che l’uomo fa nel giorno luminoso.

Come amerà una donna chi la sprezza 

fino a corrompersi in lei? Di lei farmi 

ho saputo una palma trionfale.

Veramente il mio nome è Giovanezza; 

ma se un altro, o gentile, tu vuoi darmi, 

chiamami il figlio di Teseo immortale.




L’eroe 


Sempre, come ritorni primavera, 

di me tu devi ricordarti. Io sono 

il matricida Oreste, e un sacro dono 

porgo ai mortali: la Tragedia austera.

Figlio di re, nella reggia straniera

vissi a un pensiero, e non parvi ancor buono

a cinger l’arme, che per tutto il suono

si udí di mia vittoria orrenda e fiera.

Come anelavo alla vendetta, e come 

poi ti giunsi a baciar, terra paterna, 

ahi, troppo presto! Nel terrore fiso,

immobile è il mio sguardo, erte le chiome 

stanno sulla mia fronte. Ha gloria eterna 

con me costui, non mai da me diviso.




L’amico 


Nella sua reggia l’ospitò capace 

il padre mio, di mano al suo nemico 

lo trafugò, con me lo crebbe, antico 

piú di lui di due anni. Cauto e audace,

io son Pilade, io son colui che tace 

la propria pena per l’altrui, che dico 

il vero, e mento per salvar l’amico, 

temprando il suo furor con la mia pace.

Due compagni sembrammo, due nel mondo 

giovani, in cerca d’avventure. Allato 

gli stavo io sempre, in lieti casi e avversi.

Quello un tempo fu a noi quasi giocondo! 

Ma tutto il suo dolore ei m’ha svelato, 

io quello del mio cor mai non gli apersi.




Il tiranno 


O tu che narri disutili fole

di cui possono i bimbi dilettarsi

e le donne ozïose, un caso darsi

ben può, il piú iniquo, e che a nessuno duole.

Non di servi certezza e di figliole 

avean costor quando a dar legge apparsi; 

pur sempre vidi alla mia ombra farsi 

vuota la piazza cittadina al sole.

Chi dice che sol reco peste e fame, 

tutta quanta volendo per me solo 

la terra, che di tutti vuol natura,

quelli è un suddito reo, giusto è che a infame 

laccio s’appenda, sul suo capo a volo 

calin gli uccelli e n’abbiano pastura.




L’ossesso 


Io son prigione d’un pensiero. Ossesso 

da lui, mentre fra gli altri uomini vivo 

(mera apparenza), sol da lui derivo 

l’essere, tutto quanto in lui son messo.

Qual morte v’abbia piú subita spesso, 

per sfuggirgli, indagai; né a tanto arrivo, 

che il mio coraggio è debole, e il piú schivo 

del dolore son io, io che me stesso

non amo, e al volto puoi vederlo, ai panni. 

Stagioni il mondo non muta, né aspetti 

per me, sí tutto con lui s’assomiglia.

Onte sol n’ebbi e senza scampo affanni; 

com’è ver che per lui sto fra gli eletti, 

m’ergo per lui sull’umana famiglia.




Il melanconico 


Melanconia mi fu sempre compagna. 

Ebbi solo da lei mie tante e care 

gioie; quel bello ella m’ha fatto amare 

che le mie ciglia di lacrime bagna.

Amo il lido del mare e la campagna 

solitaria; da un libro poche e rare 

legger parole, e molto meditare, 

con una voce che in aere si lagna,

e un ruscelletto che tra i sassi o i fiori 

le risponde; un po’ china amo la fronte, 

e tocca già di tristezza la cosa.

Solo il volgo m’offende, egli che fuori 

del mio bene mi trasse, e con impronte 

dita toccò la mia ferita ascosa.




La vittima 


Il bianco agnello che sul verde prato 

pascola è in parte il mio dolce fratello; 

che il suo destino egli non sa, coltello 

non vede sul suo collo alto levato.

Io nulla ignoro, e prego anzi che il Fato 

in me s’adempia, desidero quello 

per cui la faccia tu ti veli; è bello 

aver le mani nei ceppi, frustato

non piangi, anche il morir t’è meno amaro, 

che ti spia fra le nubi il Dio in cui credi, 

e il tuo sangue di rose il terren stampa.

In me tu vedi un giovanetto caro 

ai tuoi sogni di bimbo: Isacco vedi, 

ma senza il braccio d’Iddio che lo campa.




Il beato 


Io non posso soffrire. Io sono tale, 

per lieto arbitrio degli dèi, che niuna 

pena mi tocca, e vivo tra una cuna 

e una bara, ignorando il vostro male.

Forse sono io stesso un Immortale. 

Guardami ben: vedi tu in me pur una 

traccia del tuo dolore? E quanto aduna 

tristezze in voi me a rattristar non vale.

Tanta bontà è nel mio cuore, che un gioco 

m’è la guerra; ogni volto si fa bello 

s’io l’affisso, ogni voce è una canzone.

E se dar mi potessi un’ora, un poco 

del tuo dolore, io ti darei per quello 

l’alta letizia di cui son prigione.




Il silenzioso 


Quante cose nel mondo sono sparte 

in me tu le ritrovi, in me cui piace 

di bel silenzio cingermi. Mendace 

non sai s’io sono, o veritiero. Parte

di me ti svelo, e ti nascondo ad arte 

quanto non vo’ di me tu sappia. In pace 

va’ dopo questo; se lungi aver pace 

puoi, tu che in me come in aperte carte

legger presumi. Assai dagli altri udisti 

lor segreto. Di me, ultimo fiore 

di questo serto, tanto udir non lice.

Se m’allieti di te o di te m’attristi,

se il mio schiavo sarai, se il mio signore,

la mia bocca bellissima non dice.




Fanciulle 

(1925) 


1

Nuda in piedi, le mani dietro il dorso,

come se in lacci strette

tu gliele avessi. Erette

le mammelle, che ben possono al morso

come ai baci allettar. Salda fanciulla 

cui fascia l’amorosa 

zona selvetta ombrosa, 

vago pudore di natura. Nulla,

altro ha nulla. Due ancora tondeggianti

poma con grazia unite

pare chiamino il mite

castigo della fanciullezza. Oh, quanti

vorrebbero per sé ai miei occhi il lampo

del piacere promesso,

che paradiso è spesso,

e piú spesso è l’inferno senza scampo!


2

Ammalata d’un intimo malore 

ha gli occhi grandi e neri. 

Reggere sogna fieri 

interminati gli assalti d’amore.

Forse è vergine ancora, forse solo 

pensò, pensa quel bene. 

Forse in deserte arene, 

tornata fiera, uccise il suo figliolo.

Eppur bella è cosí, fiore di spina,

che, se il male si tace,

toglie a te la tua pace

col franco riso di buona bambina.

Ma se piange spettacolo ti tocca

di sconvolta natura,

e se parla hai paura:

dice cose confuse la sua bocca.


3

Questa che innanzi mi viene è una fronte

di parvenza regale.

D’un qualunque mortale

a lei gli amori sembrerebber’onte.

Sempre ti dirà «prego» e non mai «voglio»;

ma, di tue lodi schiva,

in un peccato è viva,

ismisurato e divino: l’orgoglio.

Quante ha dolci compagne, ch’ella buona

da se stesse protegge;

ed a quella ch’elegge,

quanto è docile piú, piú di sé dona.

D’un dio in attesa, di potergli dare

suo cuor forte e sereno,

seno premendo a seno,

con le vergini uguali ama danzare.


4

Questa che ancor se stessa ama su tutto

ha bei capelli d’oro,

e le riveste un oro

impalpabile il corpo come un frutto.

È bella quanto può cosí acerbetta

esser bella fanciulla.

Non è fatta di nulla

la sua grazia? Non è la mia Chiaretta?

Vedi come al sapore della lode

le s’imporpora il viso.

Io le dico: «Narciso».

Si specchia nell’ingiuria ella, e ne gode.

Fortunata creatura! Ma gli anni

mutano affetti e voglie,

e l’aerea una moglie

sarà, la madre dura negli affanni.


5

Questa è la donna che un tempo cuciva

seduta alla finestra.

Nell’ago era maestra,

e l’occhio, l’occhio nella via fuggiva.

È la sartina. Ufficio oggi ha diverso, 

e altrimenti è nomata. 

Ma è pur la stessa. Amata 

risana, langue se amore l’è avverso.

È la stessa. O mutata è sí, ma in parte 

piccola veramente. 

L’occhio un giorno sfuggente 

oggi affissa. E di segni empie le carte.

Ma chi la vede per la via passare

sul ben calzato piede,

nella vita piú fede

sente, e in se stesso. E si volge a mirare.


6

Questa chi è che par cosí lontana, 

chiusa in se stessa, assente? 

Siede tra la sua gente 

composta ad una maestà popolana.

Ha gli occhi grandi e freddi, da cui l’ira

tragge vive faville.

Non v’è uno su mille

che la vede e destarla non sospira.

Certo – direte – quando avrà uno sposo

sarà un forte, un guerriero.

Invece il suo pensiero

sempre a un mite s’affissa, a un doloroso.

Fra tante giovanezze ha scelto quella

che la tisi distrugge.

Ma non lo sa, e non fugge

chi giustamente la chiama sorella.


7

Com’esser può che già la cinga fiamma

d’amori e nulla veda?

Suoi nuovi amici creda

poco per sé, tutti per la sua mamma

venuti e per il babbo? Invano ad una

domanda insidiosa

speri coglierla. A cosa

tu tendi ella non sa; ti guarda e alcuna

nube le corre la fronte. Dagli occhi

scuote un ricciol castano,

il mento nella mano

rimette, un libro aperto ha sui ginocchi.

Forse natura la destina al gelo

degli alti luoghi; forse

sazia è ancor di rincorse

sul prato, con le amiche e il cane anelo.


8

Nata di gente antica e disperante,

fiore d’adolescenza,

Lina è Rebecca senza

anfora. E il suo pallore è affascinante.

Con lei ti senti come alla tua casa

fossi tornato, come

se, deposte le some

degli anni e del dolore, ancora invasa

fosse l’anima tua dei mesti sogni

d’umiltà, di perdono.

Tanto il suo sguardo è buono,

ch’esser dei suoi, per meglio amarla, agogni.

E non sai se il suo volto è, come pare, 

d’ogni volto il piú bello; 

ma, come il buon cammello 

piega i ginocchi, tu devi adorare.


9

Maria ti guarda con gli occhi un poco

come Venere loschi.

Cielo par che s’infoschi

il suo sguardo, il suo accento è quasi roco.

Non è bella, né in donna ha quei gentili 

atti cari agli umani. 

Belle ha solo le mani, 

mani da baci, mani signorili.

Dove veste, sue vesti son richiami

per il maschio, un’asprezza

strana di tinte. È mezza

bambina e mezza bestia. Eppure l’ami.

La sai ladra e bugiarda, una nemica

dei tuoi intimi pregi;

ma quanto piú la spregi

piú la vorresti alle tue voglie amica.


10

Oh quanto amor nei suoi sdegni nasconde

questa che invan tu molci,

che se le dici dolci

cose con una mossa ti risponde.

Piú t’ama e piú nel suo poco si stringe,

da nemico ti tratta.

Non è che finga; è fatta

cosí Malvina; se adora respinge.

Solo a taluno ell’è cortese a dare

tutto di sé, fin’anco

un sorriso. È allo stanco

della vita, a chi ha sol certezze amare.

Ma nel sogno, nel sogno che dismente

la veglia, e annuncia il vero,

non un caduto, un fiero,

per dargli amore si foggia, un vincente.


11

Come potrebbe all’ultimo convegno

ella mancarmi? Appena

potrei soffrirlo, appena

senza di lei finire il mio disegno.

Ella è Fiammetta che si giacque in braccio

a due, notti serene.

Tutto di lei ritiene,

e gli anni, e il viso, e il non mai farsi un laccio

dell’amore. Di te quanto può prende,

bimbo, e dei doni tuoi;

ti lascia se t’annoi

libero alla tua sorte, e non t’offende.

Lieta si dà perché ne prova alquanto

di dolce e punto duolo,

e qualche volta solo

perché non pianga un che la prega tanto.


12

Io non credo alla donna. Alcun insulto

non le faccio, se dico

che se l’uomo ha un nemico

questo è ancora la donna. Ella in occulto

tesse la fila eterna abbominanda

di nascite e di morti,

causa le male sorti,

ed ogni suo negozio a un fine manda

di copula e di letto. Oh come invece

l’amo ancora fanciulla!

In queste mie v’è nulla

che m’offenda, son quasi un’altra spece.

Ah, che la vita è solo ancora un gioco

generoso per esse

con levità connesse

come gli dèi, tutte simili un poco.




Sonetto di paradiso 


Mi viene in sogno una bianca casetta, 

sull’erto colle, dentro un’aria affatto 

tranquilla; e il verde del colle è compatto 

e solitario, e l’ora è benedetta.

Mi viene in sogno una dolce capretta, 

che mi sta presso, e mi sogguarda in atto 

placido umano, quasi un muto patto 

ne legasse. Poi pasce ancor l’erbetta.

Volge il sole al tramonto; un luccichio 

cava dai vetri, un dorato splendore, 

della casetta su in alto romita.

E tutto il dolce che c’è nella vita

in quel sol punto, in quel solo fulgore

s’era congiunto, in quell’ultimo addio.




Canzonetta nuova 


Or che si tace

– sia per brev’ora – 

quanto m’accora 

in me, nel mondo;

ed alla pace 

che m’ha beato 

è il cuore grato 

quanto è profondo;

il mal non scordo 

che in sé tenuto 

m’ha chiuso, muto 

nel suo tormento,

che a quel ricordo 

di quel soffrire, 

di benedire 

anzi mi sento.

Era la pena 

ch’intima è solo, 

che piú gran duolo 

par non vi sia.

Già senza lena 

l’anima stava, 

già boccheggiava 

nell’agonia.

Piú acuto morso 

sentivo, è vero, 

per il pensiero 

d’estranea vita,

che col rimorso 

del cuore umano, 

guardavo invano 

chiedermi aita.

Come fu orrendo 

non lo so dire; 

tanto patire, 

credo, è peccato;

ché, l’uomo essendo 

cosa mortale, 

anche il suo male 

sia limitato.

Chi a liberarmi 

da mala sorte, 

chi la mia morte 

a protrar venne?

M’ha date l’armi 

di cui mi giovo 

fisico nuovo 

mal che sorvenne;

che lunghe l’ore 

fa e dolorose, 

ma d’altre cose 

poi mi guarí.

Non piú il mio cuore, 

soffron le membra; 

oh, come sembra 

dolce cosí!

Come ancor bella 

la vita appare, 

che pur d’amare 

degno non sono,

che è sempre quella 

dei miei prim’anni, 

che è tutta affanni, 

che è tutta un dono.

Ecco: credevo 

d’essere a terra, 

mia lunga guerra 

perduta già,

quando mi levo 

col corpo infranto, 

ma in cuore un canto 

di libertà.

E con sua asprezza 

il mal mi dice: 

Per me felice 

esser saprai.

Tua giovanezza, 

lo senti, è morta, 

né in te risorta 

piú la vedrai.

L’ultima crisi 

passata è or ora; 

vedi che ancora 

tremi a pensarla.

Quasi due uccisi 

si lasciò dietro; 

al bene io tetro 

seppi portarla.

Cosí il mio corpo 

mi dice, il saggio, 

che sa il viaggio 

lungo e la mèta.

Ma mentre il corpo 

mi dice questo, 

libero e mesto 

mio cuor s’allieta.

Penso indefesse 

cure d’amore, 

ed il rossore 

d’un caro viso,

dolci promesse, 

bei pentimenti, 

e casti accenti 

di paradiso.

Li ascolto quali 

presenti ansiosi, 

immetto ascosi 

palpiti altrui.

Fò di due mali 

un sommo bene; 

fra tante pene

non dico: Io fui.




Due felicità1 


Cinque persone fra loro congiunte,

e non di sangue, del Caffè in quel canto

che dalla via la vetrata separa,

siedono, venti e piú anni, ogni sera.

Di malizia nascosta ed in sé paga

brillan sotto gli occhiali gli occhi d’una

di queste; un’altra sopra il marmo bianco

fa suoi strani disegni; odono tutte

quand’una parla . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

Nulla a vedersi, povere esse sono, 

senza credito, quasi ignote: il meglio 

della grande città dove son nate.

Un marinaio inglese ad un esterno 

tavolo siede tranquillo. Ha il berretto 

bianco, il vestito colore del cupo 

mare, davanti una bottiglia, a mezzo 

vuota, di birra. Dalla dolce terra 

lontano a lungo e in fior di giovanezza, 

dovrebbe, a terra, divertirsi. Invece 

pensa, o pare che pensi. Una ragazza 

gli siede muta di contro, che manda 

dalle labbra sottili azzurro fumo. 

Estranei sono: egli la guarda appena, 

e, un attimo, sorride.

1 Alcuni versi di questa poesia mi sono caduti dalla memoria. Ho cercato invano di ricostruirli, piú invano ancora di sostituirli. Sono i quattro versi e mezzo, al posto dei quali l’indulgente lettore troverà dei puntini.




La vetrina 


Sono a letto, ammalato. E gli occhi intorno 

giro per la mia stanza. Oltre i lucenti 

vetri un mobile antico a sé li chiama, 

alle cose ch’esposte in lui si stanno. 

Bianche stoviglie, ove son navi in blu 

dipinte, un porto, affaccendate genti 

intorno a quelle. Altre vi sono cose 

ch’erano già nella materna casa, 

cui guardo con rimorso oggi ed affanno, 

e cosí lieto le guardavo un giorno, 

che di nuove acquistarne avevo brama. 

Ciascuna d’esse a un tempo mi richiama 

che fu sí dolce, che per me non fu 

tempo, che ancor non ero nato, ancora 

non dovevo morire. Ed anche in parte 

ero già nato, era negli avi miei 

il mio dolore d’oggi. E in un m’accora 

strano pensiero, che mi dico: Ahi, quanta 

pace era al mondo prima ch’io nascessi; 

e l’ho turbata io solo. Ed è un mendace 

sogno; è questo il delirio, amiche cose.

Quanto un giorno v’ho amate, belle cose, 

che siete là nella vetrina, e altrove 

siete, nell’ombra e nel sole, ed oh quale 

ho nostalgia di lasciarvi! Nel buio, 

tornar nel buio dell’alvo materno, 

nel duro sonno, onde piú nulla smuove, 

non pur l’amore, soave tormento 

sí, ma a me fatto intollerando. È il letto 

questo in cui venni da quel caro buio, 

molto piangendo, alla luce, alle cose 

ond’ebber gioia i miei occhi. E mortale

non so che piú quel dí deprechi. E male 

non ho che m’impauri, o è solo interno. 

Come ogni notte, quando il lume spengo, 

che agli occhi miei gravi di sonno apporta 

esso fastidio, e metto il capo sotto 

la coltre, e tutto a me stesso rinvengo, 

tutto in me mi rannicchio, or sí vorrei 

fare, e che piú per me non fosse giorno! 

E sí tutto m’arride. Anche la gloria 

viene; il suo bacio, ancor che tardo, io sento.

Del divino per me milleottocento 

amate figlie, qui dalla lontana 

Inghilterra venute, di voi dico, 

pinte tazzine, vasellame usato 

dagli avi miei laboriosi, al tempo 

che la vita piú degna era e piú umana, 

e molto prima che nascessi, io so 

la vostra istoria, che ai vecchi la chiese 

il poeta ch’è pio verso il passato. 

Approdava ogni mese un bastimento 

a questo porto di traffici amico, 

con di voi sí gran copia che il mendico 

come il ricco ne aveva. Aveva il tempo 

fornito appena atroce guerra, e pace 

era sui mari, ma non mai nel cuore 

dell’uomo. Or voi nella vetrina state 

che v’è coetanea, semplice, capace 

di molte e belle forme. Ed io a guardarvi 

non so, nel mio dolore, altro che morte 

non so invocarmi. Non vissuto invano, 

piú d’esser nato la sventura sento.




La casa della mia nutrice 


1

O immaginata a lungo come un mito,

o quasi inesistente,

dove sei tu, ridente

casina, che dal primo verso addito?

Dov’è quella che avevi, viso a viso,

la tua Cappella antica?

E la finestra aprica

dov’è, che dà su tanto paradiso?

E quello che dal tetto fuor t’usciva

con odori di cena,

dimmi, lo sparse appena

il vento? O tutta una vita fuggiva?

Perché dai suoi negozi al tuo beato

pendio torna chi corse

cosí lontano? Forse

sta per morire? O forse è innamorato?

Ama forse chi amare egli non deve, 

o in silenzio soltanto, 

fin che a un sorriso il pianto 

matura, e un dono la vita riceve?

Io so dove tu sei, ma non lo dico,

cara amata casina.

Del tutto una rovina

ti fece il tempo, ai deboli nemico?

O dentro ancor la donna ti sfaccenda,

lei che già giovanetto

con un tenace affetto

visitavo, e la luce par vi splenda

di quelle sere? Mesto ero e felice,

e in ogni male puro.

No, non dico il tuo muro

a qual s’appoggia divina pendice.


2

Glauco, tu che ammonivi 

me dei giorni perduti, 

(poco dei tuoi piú astuti 

erano i miei pensieri,

solo un poco piú vivi, 

solo un poco diversi) 

vivono intatti i versi, 

bimbo, a te scritti ieri.

Ieri, ora sono venti 

quattr’anni, un giorno appena. 

Io per taciuta pena 

vò solingo, e tu, caro,

con le rime innocenti, 

tu bel marinaretto 

mi parli, e fai che in petto 

piú ne gusti l’amaro.

Forse tanto non era 

quell’amaro. Anche un poco 

forse fingevo, e a gioco 

m’ammonivi. D’allora,

o anima leggera, 

dove ti sei posata? 

Nuvoletta infuocata 

sei, che all’alba scolora

e alla sera ritorna? 

O tra i piú sozzi un sozzo 

uomo? O il divino mozzo 

della mia canzonetta,

che sul mar, come aggiorna, 

canta un addio all’amore, 

e salpa. Ed il mio cuore 

sente allentar sua stretta.

Come ancor mi parlassi 

t’odo, del mar natio; 

col tuo invitando il mio 

corpo all’onda turchina.

Io t’ascoltavo, e i passi 

lenti volgevo altrove. 

Oggi ti dico dove: 

a una vecchia casina.

Sulla difficil’erta 

alle caprette amica, 

stava in faccia all’antica 

Cappella, e giú mirava.

Io per la via deserta, 

Glauco, salendo ad essa, 

l’idea m’ero in cor messa 

che a me, che a me pensava.

Che un pensiero amoroso 

sempre un altro ne chiama; 

non s’accende una brama 

nell’universo invano.

Pensavo io quell’ascoso 

soggiorno, e quello me. 

Ma non lo dissi a te, 

troppo allora lontano.

Ché di me riso avresti, 

Glauco, fanciul giocondo. 

Era un altro il tuo mondo, 

oggi al mio meno avverso;

oggi che ai giorni mesti 

torno dell’età prima, 

e l’unità sublima 

tutto ch’era disperso.


3

Ed a te non dirò strane parole,

se ancora operi e vivi,

a te che custodivi

me nella casa da cui sorse il sole

dell’infanzia, su cui tramonta quello

dell’abbagliante vita?

Ahi, che troppo smarrita

sei nel ricordo; il volto che sí bello

certo mi parve, è quale sulle mura 

che umidità corrose 

quella che un dí vi pose 

immagine una pia rozza pittura.

Dov’è la donna che faceva fiori 

di carta? Io non la vedo 

che in ombra, mentre siedo 

nella stanzetta con antichi odori.

E il balio che di molte cose sparte 

ne congegna una sola? 

Dove il tempo che invola 

tutto, portò quella domestic’arte?

S’io non lo so, non lo saprebbe alcuno

oggi nel mondo dire.

Di una casetta uscire

se vedo il fumo fuor del tetto bruno,

sempre quella che pare, e non è, un mito,

mi richiama alla mente,

che è quasi inesistente,

un sogno dall’adolescenza uscito;

un mesto sogno del tempo felice 

che nel male ero puro, 

nato da un vecchio muro 

poggiato ad una solatia pendice.




La brama


(Alla venerata memoria 

 del pittore Vittorio Bolaffio)

O nell’antica carne 

dell’uomo addentro infitta 

antica brama!

Illusione, menzogna,

vanità delle cose

che lei non sono, o lei

per non parere vestono diverse

forme, e son pur quest’una

in cui quanta dolcezza ha in sé il creato

la carne aduna.

Quanto ha l’uom vaneggiato

per te, feroce brama!

Nel notturno silenzio lo richiama

la tua voce, che prima è una carezza,

è, tra i pensieri e le cure, una brezza

in pomeriggio senza vento, e tuono

si fa ben tosto che assordante impera.

Ti riconosce colui che alla sera,

con lotta e pena, della vita è giunto;

ti riconosce e, per sfuggirti, morte

s’invoca; ahi, che da te

vorrebbe avere quella morte, antica

brama! E fuor del suo letto,

già profanato, nel disgusto balza,

e nell’orrore di se stesso, il fiero

giovanetto, che in cuore una vergogna

preme poi, com’è lungo il dí, e un rimorso.

Ma in questo ancora tu celi il tuo corso

sotterraneo, prepari il tuo ritorno

fatale nell’antica

carne dell’uomo senza scampo infitta 

antica brama!

Con lui nata, che vale

ch’egli da sé ti scuota,

la piú mobile tu, tu la piú immota

fra le cose del mondo, antica brama!

Onnipresente, strani aspetti assumi,

ed or ti veli, ed or t’imponi in nuda

forma impudica.

Altro che te che ho detto

io nei modi dell’arte, che ho nascosto

altro che te, o svelato?

Quel che ai miei sensi ingrato

parso sarebbe senza te, e al mio alto

spirito in odio, quanto avrei siccome

di me indegno fuggito, ben cercato

l’ho per te, cupa brama.

Né maledirti ancor saprei, che troppo

sei me stesso, sei gli avi dei miei avi,

e dei miei figli i figli.

Ahi, che vorrebbe invano

rinnegare la vita

chi disse nei soavi

abbracciamenti, una sol volta disse

il «sí» cui persuadi

tu con grave dolcezza, o nell’antica

carne dell’uomo troppo addentro infitta

antica brama!

Quando l’autunno

ogni foglia colora

del suo rosso di sangue, il cor tu affanni

come un monito estremo, antica brama.

Metti il rimpianto dei giorni perduti,

delle imprese lasciate,

delle cose che avrebbero potuto

essere e che non sono,

e nell’uomo caduco

come le foglie

metti indistinte voglie

di vincere la tomba, o generante

brama! E per quali vie,

per quali accorgimenti

a questo giungi, o causa

tu del mio male, ed anche,

sí, del mio bene; che per te ora vedo

gente andare e venire,

alte navi partire,

del vasto mondo farsi

per te sola una cosa, o nell’antica

carne dell’uomo dall’inizio infitta

antica brama!

Quando ritorna

primavera che l’aria

raddolcisce, tu d’ansia il cor mi stringi,

di te lo ammali sul far della sera.

Covi lascivie nell’inverno, in sogni

mostruosi la calda estate stagni.

E talvolta ti lagni

pietosamente in sguardi ed in parole,

come fa il bimbo tenero e sperduto

che un bacio implora.

Tale alcuno t’accolse

nei suoi giovani anni, or sí altra cosa

in sé ti sente,

che vorrebbe, di dosso

per scuoterti una volta,

la tenebra aver tolta

e non la luce, il giorno che alla luce

venne, con nella nuova

carne te antica brama

sí addentro infitta.

Con gli amici talvolta

di te gioco mi prendo, assidua brama.

E v’ha tra questi uno a me caro, triste

fra i tristi, e nell’aspetto

dalla vita il piú domo.

Gioie non ha, ch’io sappia,

da te, ma lutto d’uomo.

Devotamente egli la mano stende,

che d’ansia trema, a colorir sue tele.

Sopra vi pinge vele

nel sole, accesi incontri

di figure, tramonti sulle rive

del mare e a bordo, e su ogni cosa un lume

di santità, che dal suo cuore viene

e in altrui si riflette.

Di te nulla egli mette

nell’arte sua di fanciullo, del tutto

di te pare innocente. Or quegli in lunghe

ore d’insonnia, per interi inverni

che la sua mano un segno

piú non osa, non vecchio ancor, ma curvo

come un vecchio, per te egli sogna cose

quali poi spaventose

gli sarebbero a udire, o nell’antica

carne dell’uomo per suo strazio infitta

antica brama!




Il borgo 


Fu nelle vie di questo 

Borgo che nuova cosa 

m’avvenne.

Fu come un vano

sospiro

il desiderio improvviso d’uscire

di me stesso, di vivere la vita

di tutti,

d’essere come tutti

gli uomini di tutti

i giorni.

Non ebbi io mai sí grande

gioia, né averla dalla vita spero.

Vent’anni avevo quella volta, ed ero

malato. Per le nuove

strade del Borgo il desiderio vano

come un sospiro

mi fece suo.

Dove nel dolce tempo

d’infanzia

poche vedevo sperse

arrampicate casette sul nudo

della collina,

sorgeva un Borgo fervente d’umano

lavoro. In lui la prima

volta soffersi il desiderio dolce

e vano

d’immettere la mia dentro la calda

vita di tutti,

d’essere come tutti

gli uomini di tutti 

i giorni.

La fede avere

di tutti, dire

parole, fare

cose che poi ciascuno intende, e sono,

come il vino ed il pane,

come i bimbi e le donne,

valori

di tutti. Ma un cantuccio,

ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro

spiraglio,

per contemplarmi da quello, godere

l’alta gioia ottenuta

di non esser piú io,

d’essere questo soltanto: fra gli uomini

un uomo.

Nato d’oscure

vicende,

poco fu il desiderio, appena un breve

sospiro. Lo ritrovo

– eco perduta

di giovanezza – per le vie del Borgo

mutate

piú che mutato non sia io. Sui muri

dell’alte case,

sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,

è sceso il velo che avvolge le cose

finite.

La chiesa è ancora

gialla, se il prato

che la circonda è meno verde. Il mare,

che scorgo al basso, ha un solo bastimento,

enorme,

che, fermo, piega da una parte. Forme,

colori,

vita onde nacque il mio sospiro dolce

e vile, un mondo

finito. Forme,

colori

altri ho creati, rimanendo io stesso,

solo con il mio duro

patire. E morte

m’aspetta.

Ritorneranno,

o a questo

Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni

del fiore. Un altro

rivivrà la mia vita,

che in un travaglio estremo

di giovanezza, avrà pur egli chiesto,

sperato,

d’immettere la sua dentro la vita

di tutti,

d’essere come tutti

gli appariranno gli uomini di un giorno

d’allora.




Girotondo 


Fosse vero che invano 

non si vive? E che tutto 

ritorna, tutto 

si dà la mano?

Di’, ne saresti lieta, 

tu conscia anima mia, 

riprendere la via 

stessa alla stessa mèta?

Forse. Ma meno ancora 

ti basta a naufragare 

con piú pace nel mare 

da cui venivi allora

che la madre ci diede 

questo corpo mortale, 

col cuore ch’ebbe il male 

e non smarrí sua fede,

con gli occhi avidamente 

sulle parvenze aperti 

delle cose, gli esperti 

occhi miei, che alla mente

tanta luce han recato, 

tanto bello han veduto, 

che come avrei potuto 

tacere? uscire ingrato

dalla vita che invano 

non si vive, in cui tutto 

non torna, e tutto 

si dà la mano?




Tre punte secche 


1 FAVOLETTA

Il cane,

bianco sul bianco greto, 

segue inquieto 

un’ombra,

la nera

ombra d’una farfalla,

che su lui gialla 

volteggia.

Ignara

ella del rischio, a scorno

gli voli intorno

parrebbe.

Ignara

gli viene, o astuta, addosso.

Egli di dosso

la scuote,

e volgesi

vorace all’ombra vana, 

che si allontana 

dal greto,

e sopra

un fiore, a suo costume,

rinchiude il lume

dell’ali.

Sappiate, 

dilettissimi amici, 

che nei felici 

miei giorni,

ai giorni

che il mio, oggi arido, cuore

era all’amore

rinato,

anch’io,

con preda piú stupenda,

ebbi vicenda

uguale.

Ed era

bella! L’ultima cosa 

che in me di rosa 

si tinse.

Ed io,

io le lasciai sua vita;

io ne ho ghermita

un’ombra.

Sapevo

– sconsolata dolcezza –

ch’era saggezza

umana.


2 IL CAFFELATTE

Amara

si sente. Quanto

piú bramerebbe è quanto

non ha.

Bramerebbe, adorata

bambina,

potersi ancora un poco addormentare,

un poco

sognare ancora ad occhi aperti. Poi

che piano piano entrasse una servente

antica, alla sua culla

devota,

che porge in tazza grata

bevanda.

Il latte vi ha sapor di menta alpina,

il nero

caffè un aroma d’oltremare. Invece

sta presso il letto la sua madre arcigna;

domestica miscela

le impone.

Bramerebbe, levata

sul tardi,

avere una stanzetta ove la vita

non entra

che come un vago sussurro. Una dolce

poltrona, un libro ad aspettarla sono;

un pensiero che tace

v’è forse.

Invece, con l’usata

rampogna,

a lei fa fretta la materna voce,

temuta

come il castigo sotto il quale, è un anno,

tra bianche coltri altro bianco scopriva.

Il non suo caffelatte

giú manda.

Amara

si leva. E sente

che torna lentamente

felice.


3 COLLOQUIO

«Il cane 

come all’aspetto 

in ogni affetto 

è nudo.

È meno

e piú che umano, 

da me lontano, 

ahi tanto!

Il dubbio 

lo tocca appena; 

con breve pena 

risolve.

L’offerta, 

conforme piace, 

lento o vorace 

abbocca.

E quanto 

è a lui nocente 

subito sente 

e sdegna.

In pace

talvolta e in guerra, 

egli pur erra 

qual uomo;

e cedere

deve al piú forte,

come alla sorte

nemica.

Ne ha il danno, 

non mai vergogna, 

e tosto agogna 

ad altro.

Un dio,

di’, non ti sembra, 

già dalle membra 

perfetto?»

Si accende, 

parte il tuo riso, 

come improvviso 

un razzo.

Illumina 

la tua certezza, 

e la bellezza 

d’un volto.

Mi scopre 

fragile foglia 

nella mia spoglia

umana.




Eros 


Sul breve palcoscenico una donna 

fa, dopo il Cine, il suo numero.

Applausi, 

a scherno credo, ripetuti.

In piedi,

del loggione in un canto, un giovanetto,

mezzo spinto all’infuori, coi severi 

occhi la guarda, che ogni tratto abbassa. 

È fascino? È disgusto? È l’una e l’altra 

cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa, 

pensa se questo è l’amore. I lustrini, 

sul gran corpo di lei, col gioco vario 

delle luci l’abbagliano. E i severi 

occhi riaperti, là piú non li volge. 

Solo ascolta la musica, leggera 

musichetta da trivio, anche a me cara 

talvolta, che per lui si è fatta, dentro 

l’anima sua popolana ed altera,

una marcia guerriera.




Tre apologhi 


1 TRASFORMAZIONE

Io so d’un uomo che quando nel fiore 

era degli anni, un animo pesante, 

un animo mostrava assomigliante 

nel suo dolore,

al vecchio che nel chiaro dí s’aggira, 

affaticato in tutte le sue membra, 

che triste in sé, piú triste ancora sembra 

a chi lo mira.

Ma come gli anni passarono, e affetto 

al suo fermo dolore lo sostenne, 

l’animo suo mutò, quello divenne 

del fanciulletto,

che se per un toscano il padre crede 

mandarlo, per un fiasco di vin nero, 

ci va di corsa, saltando leggero, 

anche su un piede.


2 LATTERIA

Entrano in una latteria a me cara 

un uomo ed una giovanetta. Al banco, 

altra fanciulla dal viso piú stanco 

mesce e prepara.

(Però un apologo questo non dico; 

non c’è nessuna morale nascosta. 

Forse è solo un disegno, o gli si accosta 

il verso amico).

Egli per sé, per la bruna vezzosa 

ordina, a un bianco tavolo sedendo. 

L’altra, a quel che ha intuito sorridendo, 

porta qualcosa.


3 IL FANCIULLO E LA VERGA

«Io verga t’ammonivo un dí: Conviene 

essere saggi. E quando là in un canto 

eri preso, ed a me sposato, oh quanto 

poco di questo era per te il diletto!» –

«Oh strano, oh triste, oh risibile oggetto, 

come farti ai miei occhi osi presente?» – 

«Un dolore ricordo, io a te, cocente?» – 

«Certo: ed ira e vergogna». – «Or che ti tiene

di gettarmi lontano?» – «Dici bene, 

odiata verga; e meglio io fo: ti spezzo». – 

«Ancor non l’osi, ancor non sei che a mezzo 

un uomo. E se mi spezzi, è prova questa

che ancor mi temi». – «Oh, a me non sei molesta 

da gran tempo!» – «Da un anno. Ma tu m’hai, 

senza toccarmi, spezzata, se sai 

già ridere di me, delle mie pene».




Il canto dell’amore 

 (Una domenica dopopranzo al cinematografo)


Amo la folla qui domenicale, 

che in se stessa rigurgita, e se appena 

trova un posto, ammirata sta a godersi 

un poco d’ottimismo americano.

Sento per lei di non vivere invano, 

di amare ancora gli uomini e la vita. 

E le lacrime salgono ai miei occhi, 

e mi canta nel cuore una canzone:

«Di’, non ricordi una maglia arancione, 

e dello stesso colore un berretto, 

che la faceva simile a un’arancia? 

Di’, non ricordi la piccola Erna?»

È ancora viva la piccola Erna; 

anzi è piú viva e piú allegra d’allora. 

Io la credevo altrove, e qui non sola 

la vidi, e in compagnia per me non bella.

«Ero – mi disse poi – con mia sorella 

e col suo sposo». Ed io non t’ho creduto. 

O buona, o cara, o piccola bugiarda, 

mai t’ho creduto. E di crederti ho finto.

Fummo, un poco, infelici. E quando estinto 

lo credi, il cuore a battere ritorna. 

E mai non batte cosí come quando 

a lui morto cantavi un miserere.

Non sono cose dolcissime e vere

che ho dette? E non son forse io un solitario?

Ed un poeta? E insieme anche qualcosa 

d’altro e di meglio? Or questo a che mi vale?

Se questa folla qui domenicale 

mi fosse estranea, mi fosse remota, 

un cimbalo sarei che senza grazia 

risuona, un’eco vana che si perde.




Preghiera per una fanciulla povera 


Erna, strana fanciulla, oscura come 

la grazia.

Un giovane 

l’amava, ed ella non poteva dargli, 

per quanta pena gli facesse, un bacio. 

Li dava a molti i dolci baci, a quello 

che la pregava piangendo, nessuno. 

Di lui fu sorte ammalarsi (da tempo 

era senza lavoro, era da tempo 

anche a sé un peso) e la fanciulla, finta 

un’improvvisa passione, la bocca 

dipinta 

giungeva a quella del morente.

Forse 

ella può ancora guarire. Ma dove 

cosa le accada di cui teme il freddo 

questa fanciulla povera, Signore; 

dove apparirti ella dovesse viso 

a viso,

apri le porte del tuo paradiso.




Eleonora 


Ero entrato davvero in agonia. 

Una nuvola avevo innanzi agli occhi, 

e il cor batteva lugubri rintocchi. 

Mancar credevo, di colpo, per via.

Forse non era che malinconia. 

Ma cosí orrenda, ma cosí... Lasciamo. 

Non voglio dire cose che non amo, 

che fanno pena. Voglio dire invece

come da quella morte a campar fece 

l’anima mia, come da quel sí nero 

flutto emerse il mio capo. Un buon pensiero 

mi venne, un buon pensiero veramente.

Ed ubbidirgli non costava niente 

dolore a me, niente dolore altrui. 

Senza quasi volerlo, al luogo fui 

dove, ai miei lenti passi, m’ha portato.

Là nella sua prigione – e par beato –

gorgheggia un merlo. Alla parete è appesa 

la gabbia; egli, una lampadina accesa 

col sol scambiando, fa il suo canto udire.

Là una fanciulla ti viene a servire, 

del padre ancora e della madre amante. 

O puro amore, o grazia folleggiante! 

Ella ha un nome dolcissimo: Eleonora;

e un viso ancor piú dolce, di pastora.

*

A un uomo in agonia 

davi conforto tu. 

Non scorderò mai piú 

questo, Eleonora mia.

È in te non so qual cosa: 

una dolcezza strana, 

oggi in creatura umana 

quasi misteriosa.

Io non so s’altri scerna 

quello che in te ho veduto. 

Un angelo ho veduto 

servire alla taverna.

Che pace in cor si spande 

a vederti girare 

fra i tavoli, portare 

leggera le vivande.

Tuo corpicciolo intatto 

porti fra l’ebbra gente; 

accorri obbediente 

bimba materna in atto.

Chi mi dava, e lo ignora, 

nell’agonia conforto? 

Senza chi sarei morto 

ieri a sera, Eleonora?

Non è questo un amore, 

lo so. È qualcosa d’altro, 

che custodire scaltro 

saprò dentro il mio cuore.

Da padre e madre come 

ti venne il tuo sorriso,

ed il tuo dolce viso, 

dolce come il tuo nome?

E lo sguardo che invano 

mi chiedeva: Chi sei? 

Io baciata t’avrei 

la portatrice mano.

Io ti davo – o beata! – 

appena una moneta. 

Non volevi, poi lieta 

l’hai nel palmo serrata

della mano; e una danza 

il tuo passo pareva, 

che fra noi due metteva 

eterna lontananza.

Un uomo in agonia 

hai confortato tu. 

Non ti scordar mai piú 

questo, Eleonora mia.




Preghiera alla madre 


Madre che ho fatto

soffrire

(cantava un merlo alla finestra, il giorno

abbassava, sí acuta era la pena

che morte a entrambi io m’invocavo)

madre 

ieri in tomba obliata, oggi rinata 

presenza,

che dal fondo dilaga quasi vena 

d’acqua, cui dura forza reprimeva, 

e una mano le toglie abile o incauta 

l’impedimento; 

presaga gioia io sento 

il tuo ritorno, madre mia che ho fatto, 

come un buon figlio amoroso, soffrire.

Pacificata in me ripeti antichi

moniti vani. E il tuo soggiorno un verde

giardino io penso, ove con te riprendere

può a conversare l’anima fanciulla,

inebbriarsi del tuo mesto viso,

sí che l’ali vi perda come al lume

una farfalla. È un sogno,

un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere

vorrei dove sei giunta, entrare dove

tu sei entrata

– ho tanta 

gioia e tanta stanchezza! –

farmi, o madre,

come una macchia dalla terra nata,

che in sé la terra riassorbe ed annulla.




A Giacomo Debenedetti


Terrori s’affollavano d’intorno

al suo letto nel buio delle notti,

ed altro il suo patire era alla luce

del giorno.

Tra il padre contro a lui di verga armato,

e la madre che il volto di celato

gli baciava, nascosto egli in un canto,

premeva in cuore l’infantile odio

feroce,

che ritrovava talvolta nel pianto

conforto e voce.

Cresceva come tra le verdi fronde

un frutto,

che l’occhio al quale esso tondeggia al tutto

appaga, ma la mano ancor non coglie;

aspetta sia tra le ingiallite foglie

maturo.

Poco lontano dalla casa, amato

come la mensa ed il letto, di sparse

macerie ingombro, si estendeva breve

un prato.

Là con gli uguali a misurarsi in guerra

scendeva; ed or, pronto a rizzarsi, a terra

giacea fremente, ed or con l’avversario

abbracciato, su lui gravava intero

il peso

del corpo; ora piangeva solitario,

da un colpo leso.

Faceva come il giovane animale 

che scopra

il simile, e se un poco a lui sta sopra 

nella lotta, di gioia alza furenti 

grida; soggiace, ed in pietosi accenti 

si lagna.

Come la casa, ad un tratto gli apparve

squallido angusto dei giochi lo spiazzo;

e gli amici qua e là dispersi andati

in larve

si mutavano, in forme conosciute

nei sogni. Altrove le tristezze mute,

le lunghe noie recava del giorno;

o via con nuovi compagni di furto

fuggiva;

ma una punta, il pensiero del ritorno,

al cor sentiva.

O spiava da lungi il padre suo,

la sera,

che rincasava dal lavoro. Egli era

forse il nemico che a colpir s’appresta,

che di rado poneva alla sua testa

la mano.

Una prigione gli s’aperse oscura;

che tale il luogo l’accolse nel quale

fu messo, dove per la prima volta

a cura

si stette assidua, in potere di gente

estranea. L’ore del lavoro lente

gli gravavano addosso, riviveva

il disgusto per esse della pena

amara,

per colpa onde pentirsi non voleva,

diletta e cara.

Lo feriva talvolta come un dardo

al cuore.

Era una gioia improvvisa l’amore

per il compagno che gli era d’appresso;

sí che levava sorridendo ad esso

lo sguardo.

In quello stato lo vedeva ancora

che tra il sonno e la veglia è paradiso,

ma breve; ma ben presto l’operosa

dimora

di voci e di comandi risuonava,

ed egli, come a una croce, stirava

la forza delle braccia giovanili.

Fuori del caldo letto il corpo in piedi

mettendo,

pensieri lo ingombravano puerili,

già fatto essendo.

Diritto e saldo era il suo corpo, un bene

ignoto

a lui, che di lanciarlo in ogni moto

godeva. Un giorno del piacer le porte

gli schiuse la voluttuosa morte,

per sempre.

Il duro padre declinante in fosca 

ombra, la madre a nascondere intenta

il pianto, che versato allevia, e il cuore

attosca

come piú al cuore è respinto; di pace

prive, e ciascuna sol per sé pugnace,

le sorelle; ogni cosa, in casa e fuori,

se il nuovo bene non era, era nulla

per lui,

e ne rideva come dei terrori

dei luoghi bui.

Uscenti dai suoi grandi occhi severi

gli strali

del desiderio andavano, fatali

piú che ad altri a lui stesso, al caro segno;

e gli ombreggiava non so che disdegno

il labbro.

Le catene da leggi antiche avvolte

a lui, come a dolente schiavo, intorno,

si sentiva di frangere capace,

che tolte

gli furono, per poco, d’altra mano.

Il suo compagno un dí l’attese invano

al lavoro, che ad essi là sembrava

non di quelle catene esser la meno

pesante.

Nel suo lettuccio, dí per dí, tornava,

col male, infante.

Perché non fu di lui come di foglia

che il ramo

lascia cadere anzi tempo? Al richiamo

della vita fu pronto egli a levarsi;

seppe il suo corpo di fortezza armarsi

novella.

E in ogni gara fu il primo. Fatica

non sentivano quasi le sue membra,

cui s’avvinceva la bellezza fatta

amica.

Donne che un tempo gli erano appena

raggiungibili in sogno, poi con pena

dalle sue braccia tolsero, commosse

e grate, il peso della loro carne

dolente,

a qualunque capriccio, pur che fosse

suo, compiacente.

Era la grande giovanezza, il dono

d’un dio.

Dopo il lavoro il sollazzo, l’oblio

dopo il sollazzo in un sonno profondo.

Dormiva come al principio del mondo

Adamo.

Nessun pensiero segnava la giusta

fronte, che all’ombra dei capelli in ciuffo

spioventi, piú che non fosse pareva

angusta.

Nel largo petto il suo cuore non era

altrui malvagio, la bocca di altera

forma era facile al riso, e se mai

un incaglio sorgeva, spalancata

nell’atto

di chi gridare usa al compagno: O fai

largo o ti batto.

La sua vita era tutta un trar di sorti, 

un vario

volger di casi. E non piú solitario 

perditore, in un canto, ora piangeva. 

Col suo nemico il suo male volgeva

in riso.

Né, come di vantarsi egli era usato,

seppe di un colpo le catene frangere,

con cui l’aveva il destino servile

legato;

ma i nodi a lui dolorosi, pian piano,

con cauta piú che violenta mano

a disciogliere apprese, ed altri in vece

sua vi legava. Era ancor schiavo in parte,

e in parte

padrone. E a molti d’ubbidire fece

apprender l’arte.

Fece soffrire solo quanto aveva

sofferto.

E il garzoncello che alla legge esperto

sotto di lui diventava, era quello

che gli poneva piú che in un fratello

amore.

Era il tempo che a sé sola lo trasse 

una donna. E non già che lei di tutte

piú gentile negli atti o lieta in volto

mirasse;

ma il misterioso fascino lo mise

con quella che nella sua carne uccise

piú a lungo ogni altro desiderio. Accanto

le sedeva tacendo; e come allora

leggero

mai piú non fu delle membra, né tanto

lieto a un pensiero.

Uscí per lei dalla dolente 

casa del padre,

e la disse sua moglie, e fu la madre 

dei figli suoi. D’ogni altra dolce cosa 

parve l’anima sua fatta obliosa, 

per sempre.

Poco gli amici lo videro. Vago

non era nato dei crocchi, e lo stare

in compagnia d’oziosi egli ozioso

mai pago

poté farlo del tutto. Adesso solo

si sentiva fra gli uomini. Il figliolo

suo, quell’incinta, la casa che sasso

costruiva su sasso, eran di cure

un monte

su lui, che gli facea talora al basso

piegar la fronte.

Come il merlo operava che di canti

consola

la sua donna che cova, e in largo vola

tanto e tant’alto che ne basti al nido,

da cui saluta il suo ritorno un grido

discorde.

D’assoluto padrone l’assoluto 

comando egli poteva adesso imporre. 

E molti ne temevano lo sguardo, 

che acuto

aveva, e pronto a discoprir l’errore

nell’opra incorso onde sperava onore

gli provenisse e vantaggio. Fu buono

coi suoi; con gli altri, o almeno parve, duro.

Nessuna

cosa la vita gli lasciava in dono;

non donò alcuna.

Or si pensava a suo profitto solo 

le some

recar pesanti sulle spalle. E come 

degli anni suoi nell’aspra primavera, 

di forze ancor piú imperiose egli era 

lo schiavo.

Era, con tutta la sua forza, in mano

del Fato. E il Fato lo trasse dai suoi,

da quanto piú tenacemente amava,

lontano.

Vide, al ritorno spasimato, i guasti

dell’assenza; in potere dei rimasti,

o qua e là sperso, di sue pene il frutto.

Col costruito in giovanezza a terra

giacente,

fece come colui che sa il suo tutto

cavar dal niente.

Alla sua casa messa insieme pietra

su pietra,

piú cose aggiunse; e a farla meno tetra

in vista, e a dare piú spazio ai giocanti,

un giardinetto le piantò davanti,

ombroso.

Fu lieto piú che in giovanezza. In gioco 

seppe volgere, in chiasso, ogni querela; 

degli stessi dei quali era il padrone, 

un poco

essere il servo. Se un uomo sostare 

vedeva in mezzo alla fatica, a dare

egli era pronto la sua forza. Porre

gli era nulla in quel tempo il dorso a un peso,

per molto

che fosse, e con la sua letizia torre

l’ombra da un volto.

Donava solo quanto gli riusciva

soverchio.

Ma parco egli era, e mai volle dal cerchio

delle sue antiche costumanze uscire.

Con sé nessuno lo poteva dire

ingiusto.

Era all’estate della vita, al pieno

della sua grazia generante. I giorni

si aggiungevano ai giorni in un uguale

sereno.

Ogni compiuta fatica gli dava

il meritato compenso; sbocciava

qualche fiore da lui che della terra

viva nel grembo intrecciava le vive

radici.

Sempre piú mite fu nella sua guerra;

tornò agli amici.

Sopravvenne improvvisa la tempesta, 

di dove

non seppe mai. Dentro una nube muove 

il Dio che ne castiga. Le sue imprese 

volsero al male, chi d’aiuto chiese 

non volle.

Il ventre della sua donna s’apriva

anche una volta. Egli non n’ebbe gioia,

che d’un pensiero spaventoso il filo

seguiva.

Il novonato morí; né si dolse

egli di questo, né in pianto disciolse

quel suo nodo di dentro. Nell’attesa

si restrinse del peggio. E fu piú astuta

la morte,

e nel suo primo gli recò l’offesa

che urlar fa forte.

Come percossa da un’ira divina,

la casa

edificata dall’amore, invasa

dall’ombra della morte in ogni canto,

pareva a tratti sopra lui di schianto

crollare.

Dei rimasti il migliore un dí l’immerse

nell’angoscia, e partí lontano. Accanto

quel gli restava che cresceva in forme

perverse,

ed una giovanetta che di gelo

aveva il cuore, e cieca allo sfacelo,

solo un tormento non trovava vano:

tutta a se stessa di rose intrecciare

la vita.

La sua moglie col mento in una mano

parea impietrita.

Ora la casa assomigliava a quella 

del padre,

da cui fuggiva fanciullo, e la madre 

sua gli baciava, di celato, il volto. 

Di ciò sofferse; da principio molto, 

poi meno.

Lo prese come un sopore. Godeva

star fra gli estranei silenzioso; senza

un rimbrotto coi suoi, né una parola

sedeva.

Tornò, domato, al lavoro; di questo

non ebbe in prima che il tormento. Mesto

vi si recava; nel pieno talvolta

del suo affluire si sentiva addosso

gravare

come il disgusto di colui che ascolta 

quale pena ha da fare.

Come in quel tempo lo subiva, ormai

quando le sue catene egli e l’amico 

si pensavan di frangere. Piú dolce 

poi gli si fece, ché ogni affanno molce

il tempo.

Ed ancora una volta lo conquise,

come in un mondo mutato, la vita.

Di cose apprese a rallegrarsi un tempo

invise.

Parve agli amici nei diporti un lieto

compagno; quello che sempre un segreto

era rimasto fra lui e il suo cuore:

dell’amorosa delizia il pensiero,

non tacque

fra i non tacenti; di piú d’un errore

rider gli piacque.

Era a quel punto d’una traversata

di mare,

quando la sponda lasciata non pare

piú da gran tempo; dell’altra, tra cielo

e mare, scoprí, se niente fa velo,

un’ombra.

Altre braccia s’avvinsero al suo vasto

petto, che ancora egli era bello, ancora

egli piaceva alla donna. Degli anni

il guasto,

la sua esperienza d’ogni male, caro

anche a taluna lo fece. Se amaro

era nei detti, e mal soffriva un torto,

poi piú che in giovanezza egli era grato

del bene,

da cui sperava un ultimo conforto

alle sue pene.

Ed il lavoro gli portò i suoi frutti 

di pace.

N’era ancor piú degli altri egli capace, 

che, se al sonno le membra rilasciava, 

una scolpita immagine sembrava 

del vespro.

Rifiorí l’agiatezza a lui d’intorno,

creata ancor dalle sue mani. Quelli

ch’era partito fece un improvviso

ritorno;

poi lo lasciò nuovamente. Il distacco

gli parve meno doloroso. Fiacco

non batteva il suo cuore; ma una sosta

gli concedeva la vita, un respiro

piú lento,

un adagiarsi nella legge imposta

men violento.

Alto e diritto andava per le usate

faccende.

Di quella luce fruiva che splende

all’orizzonte sul far della sera,

e dura a lungo, e in un punto s’annera

col resto.

Di ricordi viveva la deserta

casa, dove invecchiata innanzi tempo

la sua donna vagava come un’ombra

incerta.

Quella che un giorno fu l’intima ebbrezza

della conquista, la sua giovanezza

per lei, pei loro figli, altrui spietata,

or lo seguiva con negli occhi un muto

rancore,

quasi fosse la colpa in lui piantata 

del suo dolore.

Dentro sentiva quello sguardo come 

il morso

di cui soffre chi pensa essere incorso 

involontario nel delitto atroce. 

E se mai le parlava, era con voce 

piú piana.

Come ai morenti parlava alla cara 

sua donna, che, fanciulla ancor, sedeva 

mano in mano con esso e bocca a bocca;

l’amara

e dolce cosa egli premendo in seno, 

che o nell’acuta voluttà vien meno 

del possesso, od uccide. L’ombra nota 

per lei tornava della casa in ogni 

suo canto.

A quel pensiero sentiva alla gota 

umido il pianto.

Rimase solo come un tronco in mezzo 

d’un prato.

Qualche virgulto ancora, delicato 

troppo per esser vitale, n’usciva, 

che dopo un breve sorriso periva 

sul ramo.

E lasciò andare ogni cosa. Non ebbe,

o non espresse a parole, rimpianti;

non disse quanto di lasciar la vita

gl’increbbe,

ch’era la vita il suo lavoro, il duro

mestiere appreso da fanciullo. Oscuro

un pensiero gli nacque: ogni diletto

essere un male; e come dell’infanzia

già fuori,

la notte si stringevano al suo letto

strani terrori.

Qualche amico veniva ancor dei vecchi. 

Con esso

di sotto il pergolato d’ombre spesso, 

all’osteria gli era dolce sedere.

E rosseggiava a metà del bicchiere 

il vino.

O a lenti passi lí tornava d’onde

con tanta pena era uscito. I garzoni

dall’opera sostavano, le facce

gioconde

verso di lui rivolgendo nell’atto

di chi mira uno strano oggetto. Affatto

egli non era necessario. Uguale

si volgeva la ruota delle cose.

Quel poco

che v’era di mutato, in bene o in male,

gli parve un gioco.

Ripensava stupito a quel suo umano

destino.

Si riviveva, a tratti, da bambino

fino a quel nulla ch’era ormai. Le larve

dei terrori, ogni sua inquietezza sparve,

per sempre.

Il tempo fu come sospeso. L’ore

rispondevano ai giorni, i giorni ai mesi,

i mesi agli anni d’una volta. Lotta,

furore,

non recava il presente, e non la gioia

breve rompeva la serena noia,

ed il silenzio in cui sedeva immerso.

Disutile sedeva, e come a mezzo

restato

tra i morti e i vivi; assai da quel diverso

ch’egli era stato.

Un nato da un suo nato, un bel monello

v’era, che un ciuffo di capelli aveva

sulla fronte spioventi. A lui parlava

di quello

no che al suo cuore era ancor triste, d’altro

gli parlava, di feste, di nient’altro

che di spassi e di feste. Sí che quando 

piú non ne chiese, dissero le donne: 

«Finita,

è finita col vecchio. A lui mancando 

viene la vita».

A lui la lunga giornata finiva, 

di cose

piena ora liete ed ora paurose; 

ritornava soffrendo al buio eterno, 

ei che dal buio dell’alvo materno

veniva.

Diventato era il corpo che si sface, 

già poco piú d’un oggetto. Se un volto 

sopra il suo si chinava, e, com’è l’uso, 

di pace

mormorava parole, egli talvolta 

poteva ancor sembrare uno che ascolta, 

ma non degna rispondere. Fu lento 

il suo morire; come il lume a estinguersi

vicino

mandava ancora qualche lampo; spento 

giacque al mattino.

Era, morto sul letto, anche piú bello

d’allora

che sullo stesso egli adagiava, ancora

di voluttà desiderose, o affrante

di fatica, le membra di gigante

sommesso.




Preludio 


Oh, ritornate a me voci d’un tempo, 

care voci discordi!

Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi 

io non vi faccia risuonare ancora?

L’aurora

è lontana da me, la notte viene.

Poche ore serene

il dolore mi lascia; il mio e di quanti

esseri ho intorno.

Oh, fate a me ritorno

voci quasi obliate!

Forse è l’ultima volta che in un cuore 

– nel mio – voi v’inseguite. 

Come i parenti m’han dato due vite, 

e di fonderle in una io fui capace,

in pace

vi componete negli estremi accordi,

voci invano discordi.

La luce e l’ombra, la gioia e il dolore

s’amano in voi.

Oh, ritornate a noi

care voci d’un tempo!




Prima fuga 

 (a 2 voci) 


La vita, la mia vita, ha la tristezza 

del nero magazzino di carbone, 

che vedo ancora in questa strada. Io vedo, 

per oltre alle sue porte aperte, il cielo 

azzurro e il mare con le antenne. Nero 

come là dentro è nel mio cuore; il cuore 

dell’uomo è un antro di castigo. È bello 

il cielo a mezzo la mattina, è bello 

il mar che lo riflette, e bello è anch’esso 

il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori 

viventi. Se nel mio guardo, se fuori 

di lui, non vedo che disperazione, 

tenebra, desiderio di morire, 

cui lo spavento dell’ignoto a fronte 

si pone, tutta la dolcezza a togliere 

che quello in sé recherebbe. Le foglie 

morte non fanno a me paura, e agli uomini 

io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi, 

del nero magazzino di carbone, 

vedono il cielo ed il mare, al contrasto, 

piú luminosi: pensa che saranno 

chiusi domani. Ed altri s’apriranno, 

simili ai miei, simili ai tuoi. La vita, 

la tua vita a te cara, è un lungo errore, 

(breve, dorato, appena un’illusione!) 

e tu lo sconti duramente. Come in me 

in questi altri lo sconto: persone, 

mansi animali affaticati; intorno 

vadano in ozio o per faccende, io sono 

in essi, ed essi sono in me e nel giorno 

che ci rivela. Pascerti puoi tu 

di fole ancora? Io soffro; il mio dolore, 

lui solo, esiste. E non un poco il blu

del cielo, e il mare oggi sí unito, e in mare

le antiche vele e le ormeggiate navi,

e il nero magazzino di carbone,

che il quadro, come per caso, incornicia

stupendamente, e quelle piú soavi

cose che in te, del dolore al contrasto,

senti – accese delizie – e che non dici?

Troppo temo di perderle; felici

chiamo per questo i non nati. I non nati

non sono, i morti non sono, vi è solo

la vita viva eternamente; il male

che passa e il bene che resta. Il mio bene

passò, come il mio male, ma piú in fretta

passò; di lui nulla mi resta. Taci,

empie cose non dire. Anche tu taci,

voce che dalla mia sei nata, voce

d’altri tempi serena; se puoi, taci;

lasciami assomigliare la mia vita

– tetra cosa opprimente – a quella nera

volta, sotto alla quale un uomo siede,

fin che gli termini il giorno, e non vede

l’azzurro mare – oh, quanta in te provavi

nel dir dolcezza! – e il cielo che gli è sopra.




Seconda fuga 

 (a 2 voci) 


L’ultima goccia di dolcezza esprimi, 

anima stanca e muori. Oh, nella mia, 

di fresco nata, tu degnassi pia

mente passare! Un dono tu mi stimi

ben grande! Che se a me tu lo facessi, 

come una nuvoletta i rai del sole, 

t’accoglierei nel mio seno. Non vuole 

questo il destino; ed io, se pur potessi,

non lo farei. Perché cosí m’affliggi? 

Perché t’amo. Di amarmi dici, e il dono 

ài te non mi faresti. Chiedi un dono 

che sarebbe un castigo. Oh, me lo infliggi!

Anima fanciulletta, anima cara, 

ecco prendi di me quel che tu puoi. 

Io prendo tutto: la dolcezza, e poi, 

che piú mi piace, la tua essenza amara.




Terza fuga 

 (a 2 voci) 


Mi levo come in un giardino ameno 

un gioco d’acque;

che in un tempo, in un tempo piú sereno, 

mi piacque.

Il sole scherza tra le gocce e il vento 

ne sparge intorno; 

ma fu il diletto, il diletto ora spento 

d’un giorno.

Fiorisco come al verde Aprile un prato

presso un ruscello.

Chi sa che il mondo non è che un larvato

macello,

come può rallegrarsi ai prati verdi, 

al breve Aprile? 

Se tu in un cieco dolore ti perdi, 

e vile,

per te mi vestirò di neri panni,

e sarò triste.

La mia tristezza non farà ai tuoi danni

conquiste.

Ascolta, Eco gentile, ascolta il vero 

che viene dietro,

che viene in fondo ad ogni mio pensiero 

piú tetro.

Io lo so che la vita, oltre il dolore, 

è piú che un bene.

Le angosce allora io ne dirò, il furore, 

le pene;

che sono la tua Eco, ed il segreto 

è in me delle tue paci. 

Del tuo pensiero quello ti ripeto 

che taci.




Quarta fuga 

 (a 2 voci) 


Sotto l’azzurro soffitto è una stanza 

meravigliosa a noi viventi il mondo. 

A guardarla nei cuori la speranza 

e la fede rinasce. Da un profondo

carcere ascolto. Tutto in lei risplende, 

nuovo e antico: ogni vita al suo cammino 

prosegue lieta, e ad altro piú non tende 

che ad esser quale ti appare. Il destino

fu cieco e sordo: io dentro una segreta 

mi chiusi, dove l’un l’altro tortura 

nell’odio e nel disprezzo. E chi ti vieta 

d’uscirne, e qui goder con noi la chiara

luce del giorno? Oh tu, che troppo sai 

farti del mondo una bella visione, 

hai mai sofferto di te stesso? Oh assai, 

oh al di là di ogni immaginazione!




Quinta fuga 

 (a 2 voci) 


M’ascolta, voce fraterna, m’ascolta 

voce perdutamente un giorno amata: 

io t’odio e con la mia ti «devo» spegnere. 

Tu m’ami ancora, tu m’amerai sempre, 

tu mi sarai sempre congiunta. Forse 

una certezza che non provi ostenti, 

forse t’illudi. Nei tuoi cari accenti 

altro mai non udivo che me stessa, 

me stessa ed il lontano mio avvenire; 

m’erano cari per questo. Non altra 

cosa in «noi» t’era cara, altro piú eterno 

in me non ascoltavi? Troppo scaltra 

tu mi risuoni, e troppo antica; io sono 

l’acerba primavera. Ed io l’autunno, 

il tardo autunno. Amo i paesi strani, 

i mari azzurri d’isole fioriti, 

dove, come qui il sole, arde la luna. 

Ed io le nebbie e la deserta duna. 

Se un’isola è tra quelle, cui nessuna 

nave approdava, ad essa io voglio giungere, 

ad essa dare il mio nome. V’è presso 

alla duna un fanale: tutta notte 

risplende solitario, e al navigante 

il pericolo accenna. Or quello sono 

io veramente: un monito a chi stanco 

rincasa; nella notte un lume rosso 

acceso fra le brume. Io un lume verde, 

in una barca alla ventura andante. 

Che importa a me degli scogli? Non amo 

chi pericoli accenna; altro non amo 

che me sulla mia barca, e quel richiamo 

che si rispecchia nell’onda, 

che l’onda allunga giú fino ai porti. Restare,

andare – tu non sai? – sono una cosa. 

Tutto è sempre in un punto che paurosamente 

circonda lo stesso infinito. 

Il vecchio stanco ed il ragazzo ardito 

sono anch’essi una cosa? Un aureo anello, 

che nel suo giro mirabile ha unito 

il principio e la fine. Ed io il principio 

sono di un’altra primavera; io «sono» 

la primavera. Ed io l’autunno; un tardo, 

un dolcissimo autunno. E quando a sera 

il cor d’occulta nostalgia si sface, 

vorrei lasciarti, fuggire. Con pace 

lasciami dunque; sotto l’ingiallito 

fogliame parlerò sola a me sola. 

Ecco, al pianto m’inclini; ecco, tu sola 

spegni in me la mia forza. Oh, non è giusto 

che in te io spenga la tua debolezza? 

Come potresti? Da me nell’ebbrezza 

ti slanci, e in me ricadi. E, se non menti, 

dirai che m’ami. Quando i tuoi accenti 

mi sono cari, è perché in essi ascolto, 

credo ascoltare, il mio avvenire. O il nostro, 

invece, il nostro lontano passato?




Sesta fuga 

 (a 3 voci) 


1) Io non so piú dolce cosa 

dell’amore in giovanezza, 

di due amanti in lieta ebbrezza, 

di cui l’un nell’altro muore.


Io non so piú gran dolore 

ch’esser privo di quel bene, 

e non porto altre catene 

di due braccia ignude e bianche,


che se giú cadono stanche 

è per poco, è a breve pace. 

Poi la sua bocca che tace, 

tutto in lei mi dice: ancora.


Spunta in ciel la rosea aurora, 

ed il sonno ella ne apporta, 

che a goder ci riconforta 

della grande unica cosa.

2) Io non so piú dolce cosa 

dell’amore; ma piú scaltro, 

ma di te piú ardente, è un altro 

che a soffrir nato mi sento.


Non la gioia, ma il tormento 

dell’amore è il mio diletto; 

me lo tengo chiuso in petto, 

la sua immagine in me vario.


E cammino solitario 

per i monti e per i prati,

con negli occhi imprigionati 

cari volti, gesti arcani.


Mi dilungo dagli umani: 

profanar temo repente 

quella ch’è nella mia mente 

una tanto dolce cosa.

3) Io non so piú dolce cosa 

di pensarmi. Il puro amore 

di cui ardo, dal mio cuore 

nasce, e tutto a lui ritorna.


Quando annotta e quando aggiorna 

io mi beo d’esser me stessa. 

È la cura mia indefessa 

adornarmi per me sola.


La mia voce in alto vola, 

scende al basso; il male e il bene 

tutto è puro quando viene 

all’azzurra mia pupilla,


come a un’acqua che tranquilla, 

coi colori della sera, 

specchia i monti, la riviera, 

i viventi, ogni lor cosa.

1) Io non so piú dolce cosa 

dell’ascosa mia dimora, 

in cui tutto annuncia un’ora, 

in cui tutto la ricorda.


Dentro come tomba è sorda, 

non le giungono rumori; 

vi riflettono splendori 

del dí vetri pinti ad arte.


D’Oriente in lei v’è parte 

per i miei lunghi riposi;

per i giochi gaudiosi

ampio ha il talamo e profondo.


Tutto il bello che nel mondo 

prende e alletta gli occhi tuoi, 

là raccolto veder puoi 

per la grande unica cosa.

2) Io non so piú dolce cosa 

dell’ascosa mia stanzetta, 

sempre in vista a me diletta, 

nuda come una prigione.


Poche cose vi son, buone 

sol per me, per la mia vita. 

I rumori della vita 

giungon sí, ma di lontano.


Tutto quanto al mondo è vano, 

che mal dura e mal s’innova, 

spazio amico in lei ritrova 

qual pulviscolo in un ciglio.


Là in un canto è il mio giaciglio, 

quasi il letto d’un guerriero. 

Con me giace il mio pensiero, 

la mia grande unica cosa.

3) Io non so piú dolce cosa, 

né dimora altra mi piace, 

che vagar nella mia pace, 

come nube in cielo vasto.


A me stessa, è vero, basto, 

non mi punge alcuna brama; 

pure amar posso chi m’ama, 

e investirlo del mio fuoco.


Voi m’udite ora; fra poco 

chi sarà da me beato?

Forse un misero cascato 

fino al fondo giú dell’onta.


Una grazia piena e pronta 

gli fa impeto nel cuore; 

trasfigura il suo dolore 

nella grande unica cosa.

1) Io non so piú dolce cosa 

dell’amore in giovanezza; 

pur v’ha, dicono, un’ebbrezza 

che sta sopra anche di quella.


Non per me che in una bella 

forma appago ogni desio, 

ma per chi si sente a un dio 

nel volere assomigliante.


Non fanciulla, non amante 

– vivo grappolo autunnale – 

la dolcezza per lui vale 

di piegarti al suo destino.


E si taglia egli un cammino 

tra gli ignavi e tra gli ostili. 

Pei tuoi sogni giovanili 

io non so piú grande cosa.

2) Io non so piú grande cosa 

di chi, al cenno altrui soggetto, 

sente d’essere un eletto 

all’interna libertà.


E non ha felicità 

che non venga a lui da questo. 

Non t’inganni il suo esser mesto, 

il suo aspetto non t’inganni.


Fra i tormenti, negli affanni 

propri solo alla sua sorte,

solo a lui s’apron le 

porte d’un occulto paradiso.


Là uccisor non v’è, né ucciso, 

e non torbida demenza. 

Dalla mesta adolescenza 

io non so piú lieta cosa.

3) Io non so piú lieta cosa 

del sereno in cui mi godo. 

Pure quando parlar v’odo, 

e parlando vaneggiare,


la mia pace vorrei dare 

per la vostra, oh lo potessi! 

Ma dai limiti concessi 

non c’è dato, o cari, uscire.


Folle amore, orgoglio d’ire, 

paradiso me non tocca. 

Se baciarmi sulla bocca 

fosse lecito a un mortale,


proverebbe un senso, quale 

della morte è forse il gelo: 

tanto azzurro è in me di cielo, 

tanto in me brucia l’amore.

1) Io non so piú caldo amore 

dell’amor di questa terra, 

quando tutta al cor la serra 

nell’abbraccio il suo fedele.


Come pomo sa di miele 

e d’acerbo al mio palato; 

se un amaro v’è mischiato 

è perché mai me ne sazi.


Se i tormenti, se gli strazi 

che tu esalti, mi prepara,

quale ho mai cosa piú cara 

della sola che possiedo?


Ma mi guardo intorno, e vedo 

altro ancor che strazio e lutto 

sulla terra, dove al frutto 

morde ognun del caldo amore.

2) Io non so piú cieco amore

dell’amore della vita.

Nella mia stanza romita;

passeggiando solitario;


da un delirio unico e vario 

tutta notte posseduto, 

quante, quante volte ho avuto 

il pensiero io di lasciarla!


Te felice se puoi darla 

del tuo amor nei rischi avvolto; 

piú felice ancora, e molto, 

chi a gettarla si fa un vanto;


chi la getta come un guanto 

al destino che disprezza. 

Ah, perché la giovanezza 

della morte ha in sé l’amore?

3) Io non so di questo amore,

io non so di questa morte:

immutabile è la sorte

conceduta alla mia gioia.


Ch’altri viva, ch’altri muoia 

il pensiero in me non nacque. 

A crearmi si compiacque 

forse un’anima in un sogno.


Forse un’anima in un sogno 

cosí bella mi creava,

con la mente al bene schiava, 

con l’azzurra mia pupilla,


come un’acqua che tranquilla 

tutto specchia e nulla offende. 

Ah, perché tra voi mi prende 

desiderio d’altra cosa?

1) Io non so piú dolce cosa 

del presente. Ai di remoti 

mi smarrivo anch’io in ignoti 

desideri, ora non piú.


Voglio il bene, e nulla piú, 

di cui possa uomo godere. 

Belle forme amo vedere, 

possederle amo piú ancora.


La bellezza m’innamora, 

e la grazia m’incatena; 

e non soffro un’altra pena, 

se non è di ciò l’assenza.


Alla mesta adolescenza 

ho lasciati i sogni vani. 

Esser uomo tra gli umani, 

io non so piú dolce cosa.

2) Io non so piú dolce cosa, 

né piú amara a chi n’è privo. 

Nel presente appena vivo, 

vedo piú ch’altri non vede.


Beni a cui nessuno crede 

mi sorridono al pensiero. 

Tutto il mondo un cimitero, 

senza quelli mi diventa.


Tutta in me la gioia è spenta, 

sana gioia in cui t’esalti.

Troppo bassi son, tropp’alti 

forse i sogni che altrui taccio?


Ahi, sognando io mi disfaccio; 

notti ho insonni e giorni vani. 

Esser uomo tra gli umani, 

no, non v’è piú dolce cosa.

3) Io non so piú dolce cosa 

che potermi in voi mutare, 

solo un’ora; ma tornare 

potrei dopo alla mia pace?


Sarei dopo ancor capace 

di adornarmi per me sola? 

La delizia che s’invola 

chi sa mai se si riacquista?


Io che vedo e non son vista, 

se soffrir potessi il morso 

della brama, forse il corso 

qui piú a lungo avrei fermato.


Forse avrebbe uno ascoltato 

sul mio labbro accenti vani: 

ch’esser uomo tra gli umani 

parve a me una dolce cosa.

1) Io non so piú dolce cosa 

della dolce giovanezza. 

Fino il vento l’accarezza 

sulla gota, o poco punge.


Se la gloria a lei s’aggiunge 

sommo è il bene che in te rechi. 

A me basta udirne gli echi, 

berne a lungo le parole.


Giovanezza in me si duole 

solo d’esser fuggitiva.

Altra pena non ho viva, 

fuori questa, nel mio cuore.


E obliarla dell’amore 

anche appresi nell’incanto. 

Rattristare in te di pianto 

come puoi sí breve cosa?

2) Io non so piú breve cosa 

della dolce giovanezza. 

Di me forse piú l’apprezza 

chi è già giunto alla sua sera.


Della gloria menzognera 

non ascolto io la lusinga. 

Bella ogni altro se la finga, 

io il suo fascino ho in me estinto.


Amo sol chi in ceppi avvinto, 

nell’orror d’una segreta, 

può aver l’anima piú lieta 

di chi a sangue lo percuote.


Bagna il pianto le sue gote, 

cresce in cor la strana ebbrezza. 

Per lui prova giovanezza 

la sua grazia anche ai supplizi.

3) Non mi nego ai tuoi supplizi, 

non ho in odio i tuoi piaceri; 

non so come, i miei pensieri 

si smarriscono nei vostri.


Per la fede che mi mostri, 

tu a una gioia, e tu a un dolore, 

se mortai fosse il mio cuore 

di lui quanto vorrei darvi!


Pur son lieta di mirarvi, 

e l’udirvi anche m’è caro.

Per voi provo un dono raro, 

del diamante la virtú;


che in bei gialli, in rossi, in blu, 

quando a un raggio di sol brilla, 

lo splendor nativo immilla; 

e non so piú dolce cosa.

1) Io non so piú dolce cosa 

di ascoltarti, chiara voce. 

Ma se nulla a te non nuoce, 

ecco, esaudi quanto chiedo.


Te che ascolto e che non vedo 

sei, celata, una fanciulla? 

Se tal sei, dalla tua culla 

d’aria scendi al mio richiamo.


La tua faccia veder bramo, 

senza lei m’è il giorno oscuro. 

Tanto bella io ti figuro 

come dolce a udirti sei.


La tua bocca io bacerei, 

tenerezza che tu ignori. 

Uno fare di due ardori, 

io non so piú dolce cosa.

2) Io non so piú dolce cosa, 

né piú vana, amico errante. 

Parla un angelo, e un amante 

in lui pinge il tuo desio.


Oh t’inchina invece al mio, 

che di solo udirti ho sete. 

D’onde vieni, a quali mète 

sei rivolta, io dir ti prego.


All’abbraccio te non lego 

d’un mortale, aereo fuoco.

Ma dimora ancora un poco 

qui con noi, fra terra e cielo.


Forse invan mirarti anelo? 

Non hai corpo, non hai viso; 

non sei forse che un sorriso. 

Parla, amica, oh parla ancora!

3) Parla tu, gentile, ancora, 

se di udirmi ancora agogni. 

Non m’hai forse nei tuoi sogni 

prima d’ora mai raggiunta?


Quando in ciel l’aurora spunta? 

Nella veglia che beata 

chiama questi, e n’ha celata 

la sua nausea egli, il disgusto.


Nata son dal suo disgusto, 

nata son dal tuo tormento: 

tanto viva esser mi sento 

quanto amate il viver mio.


Ma se voi tacete, anch’io, 

ecco, in aere mi risolvo; 

con voi libera m’evolvo, 

muoio libera con voi.




Settima fuga 

 (a 2 voci) 


La vita,

che d’altre vite si nutre, o è fugace,

o tace,

pauroso arcano, la sua propria mèta.

Sapessi almeno, non triste e non lieta,

giungere, in pace con me stessa, al giorno

estremo.

Io tremo

quando tu parli, io tremo d’ogni cosa.

Il mio cuore è una piaga dolorosa

aperta.

Esperta

io di mali, pur vivo ansia dell’ora

che ancora

deve arrecarmi il piú grande. Un amore

mi nomava alla gioia, ed il dolore,

solo il dolore, è quello che mi ha fatta

matura.

Oscura

è ancor piú la mia sorte, e disperata.

Tale sei divenuta, io sono nata

tremante.

Amante

delle forme immutabili, a me intorno

il giorno

con la sua guerra, con i suoi piaceri

la notte, mi fa l’oggi ognor dall’ieri

diverso, e cosa in tanto moto ferma

non trovo.

M’innovo

con onta. In triste vicenda infinita,

quante vite per vivere una vita

divora!

L’aurora

e il tramonto, che il del tingon di rosa,

che cosa

vedono, questa non sia che tu dici?

Siamo prese nel turbine, infelici

sorelle; e penso che una colpa è stata

il nascere.

Il nascere,

come il vincere, è contro gentilezza. 

E la pietà di chi soggiace spezza 

il cuore.

Orrore,

pietà, di lacerarmi fanno a gara.

Amara

sono ad altri e a me stessa... Eppure in fondo,

nell’intimo dell’essere, profondo

piú del dolore, hanno stanza pensieri

celesti.

Ridesti

anche in me sono. È come se oltre il folto 

del bosco a un tratto m’apparisse il volto 

del cielo.

Il gelo

si scioglie al fiato della primavera,

la nera

terra discopre di germogli piena.

Tale è l’anima mia sotto la pena.

Che mi vorrebbe ad essere felice?

Osare.

Mi pare

ch’io lo potrei. Ma nell’attimo sento

che un piú dolce rifugio è il mio tormento

antico.

Mi dico

non piú triste di te, né piú beata,

io nata

col nome di Letizia. E ascolto che ogni

vita è come la nostra, ma o di sogni

si pasce, o estranei del suo proprio male

accusa.

Rinchiusa

in me stessa, vorrei non piú vedere, 

né udire. Viva, di morta giacere

fò prova.

S’innova

ogni vita per altre in lei distrutte;

di tutte

una non v’è che dica di sí atroce

legge il modo d’uscire. E quanto nuoce

n’è caro, ed anche noi l’incerta vita

amiamo.

Restiamo,

per meglio amarla, in questo ascoso porto. 

Qui nessuno può toglierci il conforto 

di piangere.




Ottava fuga 

 (a 2 voci) 


Sono una fogliolina appena nata, 

e intenerisco ai giovanetti il cuore. 

Son la fresca vernice d’un vapore 

che fischia per salpar la prima volta.

La dolcezza di muovermi m’è tolta, 

se non è al venticello della sera. 

Duolmi lasciarti, affollata riviera, 

dove con esso anch’io venni ammirata.

Oh potessi seguirti! Oh te beata 

che «devi» rimanere! E tu, potendo, 

non partiresti? Non lo so. M’attendo, 

come il giovane mozzo alla sua prima

prova, veder di grandi cose. In cima 

del mio ramo attaccata, io ti saluto. 

Io, se ritorno, quello che ho veduto, 

ed altro ti dirò, foglia bennata.




Nona fuga 

 (a 2 voci) 


Cielo che splende dopo l’uragano 

piú terso;

bimbo che trova la materna mano, 

ch’errava sperso;

tale io mi faccio, se da me il dolore 

vien tolto;

e la felicità torna al tuo cuore, 

e sul tuo volto.

Ma come un’ombra in me rimane, un mesto

pensiero.

Anch’esso, credi, anch’esso come il resto

è passeggiero.

No, che in me potrà solo con la morte

passare;

sí che dovresti la tua umana sorte

ancor piú amare.

Noi gli effimeri siamo, e siamo quelli

cui tocca

maggior grazia? Un mio bacio ti suggelli 

ora la bocca.

Dov’eri, che piú baci non mi davi,

fuggita?

Non sono quella che un tempo tu amavi,

la calda vita?

che piú fugge chi n’è piú disperato 

amante;

che nel petto il suo artiglio t’ha piantato 

piú straziante;

che in me la voluttà, l’amore ardente

profonde;

e se ti lagni, oh come dolcemente

l’Eco risponde!




Decima fuga 

 (a 2 voci) 


Io che una tregua vanamente imploro, 

sempre agitato da un intimo moto; 

io che sempre ritorno, e ti percuoto 

sempre, eppure non t’odio, amica sponda;

– ti sento come una carezza: l’onda

a me che fa? – la ferma tua quiete

oh quanto, io mare, invidio! In mare liete 

vivono l’onde; io solitaria esploro;

– non vedi come e in quante vite io moro, 

per ricompormi in lor sonoramente? –

e alla mia noia immobile silente 

nave alcuna da lungi piú non viene.

D’essere un porto nostalgia ti tiene? 

Già l’ero, e grande. E azzurro cielo ed acque, 

altro non vedi? Il fanciullo cui piacque 

a te sposarsi nel tramonto d’oro.




Undicesima fuga 

 (a 2 voci) 


La vita,

come per me piú inclina al suo tramonto,

piú pronto

trova alla gioia il mio danzante piede.

Da quali abissi il cielo mi rivede?

O forse un nuovo mi sorrise antico

affetto?

Diletto

fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera. 

Torna l’anima mia, per lei, qual’era 

un tempo.

D’un tempo

alle lacrime torno ed al sorriso.

Ucciso

forse ho il triste pensiero a me funesto

sí lungamente? Non è, ahimè!, che questo

che la vita mi fa sí dolcemente

amare?

Cantare

io devo dunque un inno alla vittoria;

altri al tuo capo il serto della gloria

imporre.

Se torre

mi vuoi di colpo alla conquisa gioia,

che muoia

in te il mio canto incominciato appena,

parla di gloria a me, della sua pena.

Il prezzo che per noi grida il mercato

ben sai;

né mai

piú saggia d’ora m’apparivi e scaltra. 

Nasconderti in te stessa, è questa un’altra 

tua grazia.

Io sazia

mai non sarò di udire le mie lodi,

se m’odi

tu, se sei tu che mi rispondi. Invano

ci mesceremmo alla folla; ogni umano

spregio sarebbe contro noi rivolto,

sorella.

È bella

la nostra solitudine. Ma pure

sento in essa echeggiar le altrui sventure

piú grandi.

Espandi

la materna pietà tu in ogni accento,

che spento

non ricade nel nulla. Io qui t’ascolto;

che t’importa del resto? Una di volto

e d’animo noi siamo, una nell’altra

beate;

rinate

una nell’altra. E il nostro amor profondo 

è pure un dono che facemmo al mondo 

noi sole.

Chi vuole

cosí non so, ma una forza fatale

il male

sempre al bene rivolge. Or fu abbastanza

detto di questo; all’intima esultanza

ritorni il canto, che la notte è forse

vicina.

Turchina

è ancor la volta del cielo, ma gli ori

delle nubi già volgono ai fulgori

supremi.

Tu tremi

a quell’immagine nostra. Per quanto

fu il pianto

che in passato versammo, che versare

dovremo ancora, or piú ci sieno care

le gioie fuggitive e il nostro eterno

affetto.

Diletto

fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera.

Ci fu l’autunno e non la primavera

propizio.

Propizio

piú della lunga e troppo accesa estate.

Ingrate

saremo dunque alla vita? ed il viso

dove col pianto combatte il sorriso,

non vuoi che ad essa per l’ultima volta

volgiamo?

Serbiamo

di questo istante il ricordo, sorella. 

Può farci il male meno atroce, e bella 

la morte.




Dodicesima fuga 

 (a 3 voci: l’Uomo, l’Eco e l’Ombra) 


Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri 

del cielo la tua voce ti rimando. 

Ma il fanciullo dov’è che qui esultando 

corse a destarti, aerea meraviglia?

Dallo stupore inarcava le ciglia, 

commosso udendo i tuoi suoni lontani. 

E batteva di gioia anche le mani. 

Ne serba l’Eco il ricordo? Ne serba.

Io del tuo corpo son l’ombra. Sull’erba 

la tua forma ripeto ingigantita. 

Non ti compiaci a mirarmi? La vita 

che ricevi da me, ripeti in strana

forma. E una cosa tu mi credi vana 

perché ti riesco impalpabile? Eppure 

esisto. Esisti; ma le mie sventure 

non provi. Anche tu a vuoto, Eco, sussurri.

*

Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri 

parlo ad un cuore onde ogni cura è sgombra. – 

Se in pace siedi sull’erba, anche l’Ombra 

che con te siede ti può divagare. –

Di quante voci tu ascolti, piú care

non ti sono le mie? Eco ripete

le tue parole. Se le dici liete,

liete le ascolti; se tu piangi io piango. –

Discacciarmi non puoi; con te rimango, 

io che nacqui con te. Ma fare io posso 

che non mi veda. – Che non m’oda io posso 

fare. – Egli tace. – Nelle dure membra,

grave in volto, dimora. – Sí che sembra 

il demonio, che in fine è poi scornato. 

Perché dite cosí? Di voi beato 

non fui già lungo tempo, ombre e sussurri?

*

Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri 

del cielo, se m’interroghi, rispondo. 

Ma io non sono un fanciullo, un giocondo 

fanciullo. Io sono un’ombra, vana cosa,

lo so, ma ad occhi mortali paurosa

anche talvolta. E da me vuoi che ancora

di te mi meravigli? Come allora

che a te nuovo sembravo – ahi! – troppo nuova. –

Se t’accorgi di noi, questa è la prova 

che la vita non t’ha, Uomo, distrutto; 

che sai ancora stupire. Del tutto 

a voi m’arrendo, amabili parvenze

di me stesso. E di molte amare assenze 

consolarti sapremo. Ed io in mercede 

godrò sempre di voi, di voi che fede 

tenete, da me nate ombre e sussurri.




Primo congedo 


Dalla marea che un popolo ha sommerso,

e me con esso, ancora

levo la testa? Ancora

ascolto? Ancora non è tutto perso?




Secondo congedo1 


O mio cuore dal nascere in due scisso, 

quante pene durai per uno farne! 

Quante rose a nascondere un abisso!

1 Non essendo pubblicabile (nel 1928) il «Primo Congedo», l’avevo sostituito nell’edizione originale («Solaria») con questo. Ora pubblico volentieri e l’uno e l’altro; che dànno, il primo, il clima esterno; ed il secondo una delle ragioni interne dalle quali – in parte – sono nate le «Fughe».




Tre poesie alla mia balia 


1

Mia figlia

mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;

ed io alla sua carezza m’addormento.

Divento

legno in mare caduto che sull’onda 

galleggia. E dove alla vicina sponda 

anelo, il flutto mi porta lontano. 

Oh, come sento che lottare è vano! 

Oh, come in petto per dolcezza il cuore 

vien meno!

Al seno

approdo di colei che Berto ancora 

mi chiama, al primo, all’amoroso seno, 

ai verdi paradisi dell’infanzia.


2

Insonne

mi levo all’alba. Che farà la mia 

vecchia nutrice? Posso forse ancora 

là ritrovarla, nel suo negozietto? 

Come vive, se vive? E a lei m’affretto, 

pure una volta, con il cuore ansante.

Eccola: è viva; in piedi dopo tante 

vicende e tante stagioni. Un sorriso 

illumina, a vedermi, il volto ancora 

bello per me, misterioso. È l’ora 

a lei d’aprire. Ad aiutarla accorso 

scalzo fanciullo, del nativo colle 

tutto improntato, la persona china 

leggera, ed alza la saracinesca.

Nella rosata in cielo e in terra fresca 

mattina io ben la ritrovavo. E sono 

a lei d’allora. Quel fanciullo io sono 

che a lei spontaneo soccorreva; immagine 

di me, d’uno di me perduto...


3

... Un grido 

s’alza di bimbo sulle scale. E piange 

anche la donna che va via. Si frange 

per sempre un cuore in quel momento.

Adesso 

sono passati quarant’anni.

Il bimbo 

è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto 

di molti beni e molti mali. È Umberto 

Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca, 

a conversare colla sua nutrice; 

che anch’ella fu di lasciarlo infelice, 

non volontaria lo lasciava. Il mondo 

fu a lui sospetto d’allora, fu sempre 

(o tale almeno gli parve) nemico.

Appeso al muro è un orologio antico

cosí che manda un suono quasi morto.

Lo regolava nel tempo felice

il dolce balio; è un caro a lui conforto

regolarlo in suo luogo. Anche gli piace

a sera accendere il lume, restare

da lei gli piace, fin ch’ella gli dice:

«È tardi. Torna da tua moglie, Berto».




Infanzia 


Emilio ha ricevuto da sua madre 

un caro dono.

Ed io, per un ricordo, gli perdono 

la sua felicità.

La gabbia è appesa al muro; entro le sta

il caro dono. Egli ha un amico adesso

che assai gli piace. E quando anch’io per gli anni

ero un fanciullo, tre ne avevo. Sopra

di loro, come madre in lieti affanni,

con il piú tenero affetto imperavo.

Al merlo austero m’identificavo; 

uno stornello era il fanciul vivace, 

che non ero, che avrei voluto 

essere. In pace 

parlavo, e a lungo, a una gallina.

A lungo 

cosí oggi parlo alla donna che tiene 

del villaggetto carsico natio, 

a lei che il seno mi porse.

E ora addio, 

ma non per sempre, amata infanzia. Il fiore 

della mia vita a te lo devo; ad essere 

io rimasto un fanciullo, uno che reggere 

ben sa gli umani pesi, e ha, in piú, il dolore 

che di tra i gravi e tetri uomini appena 

può far la cosa che non far gli è pena 

grande: giocare.




Berto 


Timidamente mi si fece accanto, 

con infantile goffaggine, in una 

delle mie ore piú beate e meste. 

Calze portava di color celeste; 

quasi un muto rimprovero gli errava 

negli occhi. Una dolcezza al cor m’inferse, 

grande, che poco piú, credo, sarei 

morto od un grido avrei gettato. «Dammi

– pregai – la tua manina». Obbediente 

egli la mise nelle mie. Ed a lungo

ci guardammo in silenzio; oh, cosí a lungo 

che il tempo, come in una fiaba, a noi 

non esisteva. Senza voce: «Berto

– gli dissi al fine – non sai quanto t’amo. 

Io che me stesso oggi non amo, privo 

del tuo pensiero vivere non posso». 

Ma non pareva quanto me commosso; 

anzi tolse alle mie mani la sua,

ai miei occhi i suoi occhi. «Ho tante cose,

bambino, che vorrei chiedere a te».

Quasi atterrito si ritrasse, e in se

stesso di rientrar desideroso.

«Berto – gli dissi – non aver paura.

Io ti parlo cosí, sai, ma non oso,

o appena, interrogarti. Non sei tu,

tornato all’improvviso, il mio tesoro

nascosto? Ed io non porto oggi il tuo nome?»

«Non hai – rispose; ed un sorriso come

disincantato gli corse sul volto –

non hai lí al petto la catena d’oro,

con l’orologio che mi fu promesso

un giorno?» – «Piú non usa, bimbo, adesso.

Ed il solo orologio che mi piace

ha colonnine d’alabastro, in cima

genietti che giocan con l’alloro;

è fermo a un’ora per sempre». Egli volse

a quello la gentil testina, e rise;

poi la sua mano nella mia rimise,

mi guardò in volto. «Ed io ricordo – disse –

uno ancora piú antico». – «Ed io ricordo

l’amor che in collo ti tenne, e i tuoi passi

guidava ai verdi giardini, l’amore

che ti fece – e lo sai quanto – beato». –

«Ed in guerra – rispose – ci sei stato?

Hai ucciso un nemico?» – «E sei tu Berto,

tu che mi fai queste domande? Or come

non parli invece a me della tua mamma,

che nel giorno che a noi fu cosí atroce,

per solo averti lei sola, all’amore

di cui tre anni vivevi, ti tolse?»

«La mamma che alla mia Peppa mi tolse

è morta?» – «Sí. Morí fra le mie braccia,

e di morire fu lieta. Ma prima

del tuo volto rivide ella una traccia

nella mia figliolina. Invece vive,

vive sí la tua balia, e quanto bene

ti vuole ancora! Se un bambino vede

che a te un poco assomigli, ecco che in collo

lo prende, al seno se lo stringe, dice

quelle parole che diceva a te,

tanti e tanti anni or sono. È viva ancora,

io te lo giuro; ma mutata è molto,

molto mutata d’allora... Perché,

Berto, in volto t’oscuri? Parla». – «Io sono

– rispose – un morto. Non toccarmi piú».




Cucina economica 


Immensa gratitudine alla vita 

che ha conservate queste care cose; 

oceano di delizie, anima mia!

Oh come tutto al suo posto si trova!

Oh come tutto al suo posto è restato!

In grande povertà anche è salvezza.

Della gialla polenta la bellezza

mi commuove per gli occhi; il cuore sale,

per fascini piú occulti, ad un estremo

dell’umano possibile sentire.

Io, se potessi, io qui vorrei morire,

qui mi trasse un istinto. Indifferenti

cenano accanto a me due muratori;

e un vecchietto che il pasto senza vino

ha consumato, in sé si è chiuso e al caldo

dolce accogliente, come nascituro

dentro il grembo materno. Egli assomiglia

forse al mio povero padre ramingo,

cui malediva mia madre; un bambino

esterrefatto ascoltava. Vicino

mi sento alle mie origini; mi sento,

se non erro, ad un mio luogo tornato;

al popolo in cui muoio, onde son nato.




Ninna-nanna 


Fa la nanna, bambin. Nell’altra stanza 

veglia tua madre, e il cuore le si spezza, 

sola. E una lieta ti annuncio certezza: 

Piú non ritorna il tuo cattivo padre.

Oggi tuo padre 

son io. Mi assumo, e m’è lieve, il tuo affanno. 

I tuoi dolori e le tue gioie vanno 

pei cieli azzurri come squille d’oro.

Se v’è un tesoro 

nel mondo sarà tuo – e lo senti – un giorno. 

Domani, come il sol farà ritorno, 

tra balio e balia ti risveglierai.

Tu li vedrai, 

le manine battendo come a un gioco, 

portarti il cibo appena desto, un poco 

contendersi i tuoi primi ingenui amori.

Semplici cuori 

ti concede, all’inizio, il tuo destino, 

perché, riconoscente ad essi, e fino 

alla morte, non ami tu altra cosa.

La paurosa 

notte è nemica ai pargoli mal desti. 

Possono indizi scoprirvi funesti, 

veder cosa che impetra al muto orrore.

Nessun dolore 

ti viene in sogno dalla tua adorata. 

È la goccia di nettare che data 

t’è per sola una volta, e non per nulla.

Nella sua culla 

dorme il tuo amico e tuo rivale Armando, 

che ti piace col pugno a quando a quando 

mandar piangente sulla nuda terra.

Diversa guerra 

t’attende, di maggiori rischi ingombra. 

Forse presso ad avvolgerti è già l’ombra 

che muterà in tristezza il tuo coraggio.

Del tuo viaggio, 

che lungo io penso e quasi occulto, un’orma 

dietro ti lascerai, profonda. Or dorma 

l’anima tua; di piú dirti non posso.

Domani in rosso 

dipinto o in giallo, e col suo verde stelo, 

la balia un fiore ti farà di un velo 

di carta, a riguardar meraviglioso.

Lieto il suo sposo, 

a lei tornando dal lavoro, un dono 

ti recherà, molto gradito. È buono 

con te il tuo balio, il mite macellaio.

Qual è il piú gaio 

lo sai di tutti i giochi e il piú piacente. 

E lo sa la tua amica, che ridente 

si getta, o ad arte minacciosa, al suolo;

e là, tra strilli acutissimi, solo 

ti gode a sola. Ché, nel suo pensiero, 

è lei tua madre, e tu il suo figlio vero, 

cui prende e giura amorosa costanza.

Nell’altra stanza 

veglia una donna e il cuore le si spezza, 

sola. Ti viene di là la tristezza 

che avvolge la tua vita a poco a poco.




Preghiera all’angelo custode 


Mi abbatto a un caro ricordo. Chi eri? 

Quale sostanza t’informava? In sogno 

t’ho veduto una volta: un fanciulletto 

di me piú grande, ma non molto. Azzurri 

calzoncini vestivi e, ben rammento, 

in mano avevi una candida piuma. 

Chi eri? Di saperlo oggi m’illudo, 

poi che in me stesso l’appresi. Sostanza 

eri d’amore, eri l’amore intorno 

alla mia vita vigilante. E tutto 

il tuo bel sogno ricordo. Volavi 

per la stanzetta, ove il mio letto unito 

poggiava a quello di mia madre. Un poco 

t’abbassavi, chiedevi a lei se buono 

era il figlio, e se il dí dato le avesse 

l’obbedienza dovuta. Diceva 

ella di sí; sul mio guanciale allora 

tu deponevi la candida piuma; 

e poi dalla finestra t’involavi; 

e poi non sei piú ritornato. Ed oggi 

che in sulla fine a me ritorni, quasi 

del morto bimbo un aereo riflesso, 

il liberato fantasma; io prego 

solo una cosa: che fra crolli tanti, 

sopra tanta rovina, a lungo io possa 

e il mio compenso ritrovare, e un poco 

del mondo nuovo con esso, in fra questi 

puerili adorabili pensieri.




Lo specchio 


Guardo un piccolo specchio incorniciato 

di nero,

già quasi antico, semplice e severo 

a un tempo.

Una fanciulla 

– nude l’esili braccia – gli è seduta 

di contro. Ed un ricordo 

d’altri tempi mi viene, mentre in quello 

seguo le sue movenze, e come al capo 

porta le braccia, e come ai suoi capelli 

rende la forma voluta. E il ricordo 

narro a mia figlia, per diletto:

«Un giorno 

fu, che tornavo di scuola. Il maestro 

ci aveva fatta ad alta voce, e come 

allora usava, la lettura. Immagina 

un bambino che va solo in America, 

solo a trovare sua madre. E la trova 

sí, ma morente. Che se appena un attimo 

ritardava, era morta. Io non ti dico 

come a casa giungessi. E quando, vinto 

dai repressi singhiozzi, apro la porta 

e volo incontro a mia madre, lei vedo 

al tuo specchio seduta, nello specchio 

il primo suo capello bianco... Ed ecco 

tu ridi adesso, e anch’io ne rido, o quasi, 

ma non quel giorno o quelli poi».

«Non rido, 

babbo, di te – mi risponde; – ma tanto 

s’era a quei tempi, o eri tu solo tanto 

stupido?»

E getta

le braccia intorno al mio collo, e mi bacia; 

e dallo specchio e da me s’allontana.




Il carretto del gelato 


Una tragedia infantile adorabile

 mi si va disegnando.

Ecco il cortile: nel cortile in bianco 

dipinto e in rosso un carretto. Bambini 

gli fanno ressa d’intorno: montato 

uno è sul mozzo della ruota. Io guardo 

dalla finestra: l’occhialino al punto 

stesso ha rivolto anche mia madre. «Vedi 

– mi dice – se tu fossi oggi restato, 

non dico molto (due ore) a studiare, 

beata adesso io ti direi: Va’, e prenditi 

come gli altri uno svago». Io non rispondo; 

né pur le dico: Ma è vacanza. Sento 

che a capo in giú cado dalla finestra, 

giú lungo il muro della casa. E penso, 

cosí precipitando: Oh che dolore 

avrà mia madre! Quando sarò giunto 

al basso, e morto sarò là trovato! 

Quanto per me dovrà piangere! E lieto 

non fui per me, ma per lei, come in piedi 

rinvenni, a un tratto, alla finestra.

Un buono

tra i buoni? Un figlio generoso verso 

la sua colpevole madre? O tra i piccoli 

mostri, un mostro crudele? La vendetta 

in sé trovare, cosí atroce ed abile!

Una tragedia infantile adorabile 

mi si va disegnando.




Il figlio della Peppa 


Le rondini

han fatto il nido intorno alla casetta,

dove mi accoglie colei che mi aspetta

ogni domenica sera; il sorriso,

solo a me dolce, del suo vecchio volto

tigrino.

Mi accoglie come accoglieva il bambino 

quando saliva beato alla povera 

casa della sua balia. Paradiso 

era al fanciullo, è paradiso ancora 

all’uomo in lotta colla vita. In tavola 

mette l’usata cena; a lungo parla 

di cose vive a noi soli; mi narra 

come, morto il suo figlio unico, in luogo 

m’ebbe di quello; il suo dolore quando 

anch’io le fui, senza sua colpa, un giorno 

rubato.

Da una madre amorosa a lei rubato, 

dopo tre anni, all’improvviso. Troppo 

tardi – mi dico – mentre l’alberato 

lungo viale discendo, che al turbine 

mi riconduce. Una freschezza ignota 

agli altri gravi mortali la gota

mi bagna d’una lacrima, mi rende 

dei giovanetti e dei fanciulli il mesto, 

il solitario coetaneo. In un mondo 

nuovo m’aggiro; quello ch’era al fondo 

dolore si fa lieto in superficie.




Vacanze 


Emilio è a Grado, ai suoi amati bagni 

di mare.

Ma piove un giorno e un altro ancora. Fare 

che può un bambino in casa chiuso? Offrirsi 

di suo fratello maggiore, che a macchina 

scrive, alla giusta collera? Nel mezzo 

della stanzetta, con fracasso orrendo, 

tirare il canapè? Dar noia agli altri 

quanta egli stesso ne prova?

Ritorno,

a lui pensando, fanciullo in vacanza, 

in un giorno di pioggia. Come Emilio, 

e piú, mi annoio. E strane cose invento 

onde alcuno di me s’occupi. Invano. 

Da sé mia madre mi vuole lontano; 

se la carezza ne cerco mi accusa 

piú fastidioso di una mosca. Fingo 

di rompere un oggetto, né un castigo 

pur ne ricevo; è molto se a una smorfia 

son fatto segno di dispregio. E sento, 

come mi passo sul viso una mano, 

che devo agli altri apparire, che sono 

io veramente diventato brutto.

Mi butto

sulla mia bella cugina materna

Elvira. È bella, ma perfida. Come

nella sua casa signorile (un anno

v’ero vissuto in sua custodia) odora

di rose e mandorle amare. Se al seno,

solo un momento, mi stringesse! O almeno,

di me tediata, mi picchiasse! Invece

la bella mano mi scosta, poi dice

ella a mia madre: «Hai educato molto 

male tuo figlio». E sull’altero volto 

la mia condanna per sempre s’incide.

Mi ride

l’anima adesso a queste cose. Allora 

io ne soffrivo. Chi ne soffre è ancora 

Emilio, che i miei lieti versi ispira.




Partenza e ritorno 


Di padre

serbo in Serbia era nata. E aveva a Padova

la bella casa signorile.

Disse 

mia madre un giorno: «Se mandassi Umberto 

da zia Stellina e dall’Elvira? Forse 

al suo ritorno alfine m’amerà. 

Forse, lontano restando, la Peppa, 

l’eterna Peppa dimenticherà».

E andai lontano, a Padova. L’Elvira 

molto mi piacque, meno assai la zia, 

vecchia donna e severa. E quante cose 

la bella Elvira m’apprese! le lettere 

dell’alfabeto, un po’ d’astronomia 

perfino. Il nome di lei mi piaceva, 

e la sua stanza, e il suo profumo ch’era 

di rose e mandorle amare. E una sera, 

dalla finestra che dà sul giardino, 

sento per nome chiamarmi. «Mi pare

– dico – mi pare di sentir la voce 

della mia mamma di Trieste».

Un muro

vedo ed ombre danzanti, un’altra ombra 

china su me, che mi tranquilla. Sono 

ritornato a Trieste; in un lettuccio 

giaccio ammalato. Ma, guarito appena, 

chiedo ancora di lei, della mia amica. 

E tanto faccio che le son condotto, 

subito. Piú non m’aspettava, io credo, 

la mia buona, la mia fida nutrice.

«Oh Berto, oh Berto!» esclamava, felice 

a me versando il caffelatte. Io tutti 

i miei progressi le appresi. Poi quando

– come un secreto fra noi due – mi chiese

se stavo bene a Padova, se stavo

meglio laggiú o con mia madre: «Era bello 

coll’Elvira – le dissi; – ma con te

– e la pregai si abbassasse, che dirle

io volli questo in un orecchio – è ancora 

piú bello».

Alla sua cara Itaca Ulisse 

non ebbe forse un piú lieto ritorno 

del mio, di Berto in via del Monte. Il giorno 

era sereno fulgido; modello 

rimasto in me d’ogni bel giorno, immagine 

viva parlante di felicità.




Eroica


Ecco el vapor che fuma, 

 che vien dalla montagna. 

 Addio papà e mama, 

 me tocca de andar soldà.

Nella mia prima infanzia militare 

schioppi e tamburi erano i miei giocattoli; 

come gli altri una fiaba, io la canzone 

amavo udire dei coscritti.

Quando 

con sé mia madre poi mi volle, accanto 

mi pose, a guardia, il timore. Vestito 

piú non mi vide da soldato, in visita 

da noi venendo, la mia balia. Assidui 

moniti udivo da mia madre; i casi 

della sua vita, dolorosi e mesti.

E fu il bambin dalle calze celesti, 

dagli occhi pieni di un muto rimprovero, 

buono a sua madre e affettuoso. Schioppi 

piú non ebbi e tamburi. Ma nel cuore 

io li celai; ma nel profondo cuore 

furono un giorno i versi militari; 

oggi sono altra cosa: il bel pensiero, 

forse, onde resto in tanto strazio vivo.




Appunti 


Un tiro di cannone ed una fuga 

di colombi nell’aria.

Mezzogiorno 

annuncia ai cittadini il lieto sparo 

che i volanti impaura.

Ad un vicino 

tavolo un uomo con cura gelosa 

regola al polso l’orologio; a leggere 

riprende, grave, il suo giornale. Io l’odio; 

l’odia in me il piccolo Berto. E ad un tempo 

di non assomigliargli mi fa onta, 

d’essere solo e diverso...

I colombi 

si sono in pace rimessi; il becchime 

cercano nella piazza al sol deserta.




Congedo 


O troppo per te stesso d’amor cupido

– come i deboli, ahimè! – piccolo Berto,

molto m’hai detto. Eri un bambino, io penso,

non dagli altri dissimile; minore,

in parte, ai molti tuoi compagni, larve 

oggi nei sogni, che intravedo ancora 

con te seduti in una stanza, e strane 

cose fra loro si dicono. L’ultimo 

tuo segreto mi celi? Un giorno, senza 

ch’io te lo chieda, a me vorrai spontaneo

– è nei tuoi modi – confidarlo. In pace, 

fino a quel giorno, in me dimora. O a prova

– se piú t’aggrada – sulle buie scale 

le angoscie e i pianti di quel dí ripeti 

che alla piú forte eri ceduto. O in cielo, 

come due nuvolette una ne fanno, 

diventa col tuo angelo custode

un sol roseo ricordo. O fra due madri, 

la lieta e quella di che il mesto viso 

rinnovi, oscilla. Ma da me diviso, 

come una cosa a riguardarsi bella, 

che tardi stringersi al cuore non giova.




Parole 


Parole,

dove il cuore dell’uomo si specchiava

– nudo e sorpreso – alle origini; un angolo

cerco nel mondo, l’oasi propizia

a detergere voi con il mio pianto

dalla menzogna che vi acceca. Insieme

delle memorie spaventose il cumulo

si scioglierebbe, come neve al sole.




Risveglio 


La notte vede piú del giorno.

Parte 

di quella ancora, ad occhi aperti sono 

il montone dipinto da Bolaffio, 

che solo torce di tra il branco il muso 

umano.

Non vano

godimento ne provo; quasi vivo

fosse l’amico che pur ieri è morto.




Neve 


Neve che turbini in alto ed avvolgi

le cose di un tacito manto,

una creatura di pianto

vedo per te sorridere; un baleno

d’allegrezza che il mesto viso illumini,

e agli occhi miei come un tesoro scopri.

Neve che cadi dall’alto e noi copri,

coprici ancora, all’infinito. Imbianca

la città con le case e con le chiese,

il porto con le navi; le distese

dei prati, i mari agghiaccia; della terra

fa’ – tu augusta e pudica – un astro spento,

una gran pace di morte. E che tale

essa rimanga un tempo interminato,

un lungo volgere d’evi.

Il risveglio, 

pensa il risveglio, noi due soli, in tanto 

squallore.

In cielo 

gli angeli con le trombe, in cuore acute 

dilaceranti nostalgie, ridesti 

vaghi ricordi, e piangere d’amore.




Ceneri 


Ceneri

di cose morte, di mali perduti,

di contatti ineffabili, di muti

sospiri;

vivide

fiamme da voi m’investono nell’atto

che d’ansia in ansia approssimo alle soglie

del sonno;

e al sonno,

con quei legami appassionati e teneri 

ch’ànno il bimbo e la madre, ed a voi ceneri 

mi fondo.

L’angoscia

insidia al varco, io la disarmo. Come 

un beato la via del paradiso, 

salgo una scala, sosto ad una porta 

a cui suonavo in altri tempi. Il tempo 

ha ceduto di colpo.

Mi sento, 

con i panni e con l’anima di allora, 

in una luce di folgore; al cuore 

una gioia si abbatte vorticosa 

come la fine.

Ma non grido.

Muto 

parto dell’ombre per l’immenso impero.




Primavera 


Primavera che a me non piaci, io voglio

dire di te che di una strada l’angolo

svoltando, il tuo presagio mi feriva

come una lama. L’ombra ancor sottile

di nudi rami sulla terra ancora

nuda mi turba, quasi anch’io potessi

dovessi

rinascere. La tomba

sembra insicura al tuo appressarsi, antica

primavera, che piú d’ogni stagione

crudelmente risusciti ed uccidi.




Distacco 


Muta il destino lentamente, a un’ora 

precipita.

Per lui dovrò lasciarti, 

mia città cosí aspra e maliosa, 

dove in fondo a una bigia via è il celeste 

mare.

La tua scontrosa 

grazia saluterò, già vecchi amici 

e pietre bacerò – cuore fedele –; 

come piange il fanciullo sopra il seno 

amaro, a distaccarsene per sempre.




Ritratto di Dionisio Romanelis 


Dietro gli occhiali che un tuo gesto raro 

squilibria, questo dicono i tuoi occhi: 

«Un dio mi sento nella vecchia pelle

d’un uomo».

Un uomo 

non forse, un pe2zo 

sei di Trieste, come la sua Piazza 

Piccola,

o degli amici a me il piú caro.




Confine 


Parla a lungo con me la mia compagna 

di cose tristi, gravi, che sul cuore 

pesano come una pietra; viluppo 

di mali inestricabile, che alcuna 

mano, e la mia, non può sciogliere.

Un passero 

della casa di faccia sulla gronda 

posa un attimo, al sol brilla, ritorna 

al cielo azzurro che gli è sopra.

O lui 

tra i beati beato! Ha l’ali, ignora 

la mia pena secreta, il mio dolore 

d’uomo giunto a un confine: alla certezza 

di non poter soccorrere chi s’ama.




Ulisse 


O tu che sei sí triste ed hai presagi

d’orrore – Ulisse al declino – nessuna

dentro l’anima tua dolcezza aduna

la Brama

per una

pallida sognatrice di naufragi

che t’ama?




Cinque poesie per il gioco del calcio 


1 SQUADRA PAESANA

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso 

alabardati,

sputati

dalla terra natia, da tutto un popolo

amati.

Trepido seguo il vostro gioco.

Ignari 

esprimete con quello antiche cose 

meravigliose

sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari 

soli d’inverno.

Le angosce,

che imbiancano i capelli all’improvviso,

sono da voi sí lontane! La gloria

vi dà un sorriso

fugace: il meglio onde disponga. Abbracci

corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi; 

vi porta il vento a sua difesa. V’ama 

anche per questo il poeta, dagli altri 

diversamente – ugualmente commosso.


2 TRE MOMENTI

Di corsa usciti a mezzo il campo, date

prima il saluto alle tribune. Poi,

quello che nasce poi

che all’altra parte vi volgete, a quella

che piú nera s’accalca, non è cosa

da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

Il portiere su e giú cammina come

sentinella. Il pericolo

lontano è ancora.

Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora

una giovane fiera si accovaccia,

e all’erta spia.

Festa è nell’aria, festa in ogni via. 

Se per poco, che importa? 

Nessun’offesa varcava la porta, 

s’incrociavano grida ch’eran razzi. 

La vostra gloria, undici ragazzi, 

come un fiume d’amore orna Trieste.


3 TREDICESIMA PARTITA

Sui gradini un manipolo sparuto 

si riscaldava di se stesso.

E quando 

– smisurata raggiera – il sole spense 

dietro una casa il suo barbaglio, il campo 

schiarí il presentimento della notte. 

Correvano su e giú le maglie rosse, 

le maglie bianche, in una luce d’una 

strana iridata trasparenza. Il vento 

deviava il pallone, la Fortuna 

si rimetteva agli occhi la benda.

Piaceva

essere cosí pochi intirizziti

uniti,

come ultimi uomini su un monte,

a guardare di là l’ultima gara.


4 FANCIULLI ALLO STADIO

Galletto

è alla voce il fanciullo; estrosi amori

con quella, e crucci, acutamente incide.

Ai confini del campo una bandiera

sventola solitaria su un muretto.

Su quello alzati, nei riposi, a gara

cari nomi lanciavano i fanciulli,

ad uno ad uno, come frecce. Vive

in me l’immagine lieta; a un ricordo

si sposa – a sera – dei miei giorni imberbi.

Odiosi di tanto eran superbi 

passavano là sotto i calciatori. 

Tutto vedevano, e non quegli acerbi.


5 GOAL

Il portiere caduto alla difesa 

ultima vana, contro terra cela 

la faccia, a non veder l’amara luce. 

Il compagno in ginocchio che l’induce, 

con parole e con mano, a rilevarsi, 

scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi 

nel campo. Intorno al vincitore stanno, 

al suo collo si gettano i fratelli. 

Pochi momenti come questo belli, 

a quanti l’odio consuma e l’amore, 

è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere

– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,

con la persona vi è rimasta sola.

La sua gioia si fa una capriola,

si fa baci che manda di lontano.

Della festa – egli dice – anch’io son parte.




Cuore 


Cuore serrato come in una morsa,

mio triste cuore, 

rallegrati di questa ultima corsa

contro il dolore.

Quale angoscia non hai viva abbracciata,

vivo restando? 

Una piccola cosa ti è bastata,

di quando in quando.




Inverno 


È notte, inverno rovinoso. Un poco

sollevi le tendine, e guardi. Vibrano

i tuoi capelli selvaggi, la gioia

ti dilata improvvisa l’occhio nero;

che quello che hai veduto – era un’immagine

della fine del mondo – ti conforta

l’intimo cuore, lo fa caldo e pago.

Un uomo si avventura per un lago 

di ghiaccio, sotto una lampada storta.




Poesia 


È come a un uomo battuto dal vento, 

accecato di neve – intorno pinge 

un inferno polare la città – 

l’aprirsi, lungo il muro, di una porta.

Entra. Ritrova la bontà non morta, 

la dolcezza di un caldo angolo. Un nome 

posa dimenticato, un bacio sopra 

ilari volti che piú non vedeva 

che oscuri in sogni minacciosi.

Torna 

egli alla strada, anche la strada è un’altra. 

Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci 

spezzano mani operose, il celeste 

rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa 

che ogni estremo di mali un bene annunci.




Stella 


Stella che m’hai veduto un giorno nascere 

– passavi in cielo al primo mio apparire – 

del bene in cambio che, nudo ed inerme, 

da tanto male ho derivato, dammi 

scendere in breve volontario all’altra 

riva; ogni linea si cancella, tace 

ingiustizia, non pesa piú abbandono, 

fuori della tua orbita ch’io giunga,

o tu che in cielo passavi funesta.




Fantasia 


Come la schiuma sul mare galleggi 

sulla vita, resisti ad ogni ondata, 

ogni ondata ti genera, incantevole 

fantasia di un mattino rosa e oro. 

Le tue oscure cagioni non ignoro, 

non velo; cara al mio petto ti stringo, 

come giovane madre il suo bambino, 

vestito di soavità, giocondo,

io che ho messo lo sguardo fino in fondo 

al mio cuore, al mio triste cuore umano.




Felicità 


La giovanezza cupida di pesi 

porge spontanea al carico le spalle. 

Non regge. Piange di malinconia.

Vagabondaggio, evasione, poesia, 

cari prodigi sul tardi! Sul tardi 

l’aria si affina ed i passi si fanno

leggeri. 

Oggi è il meglio di ieri, 

se non è ancora la felicità.

Assumeremo un giorno la bontà

del suo volto, vedremo alcuno sciogliere

come un fumo il suo inutile dolore.




Tre città 


1 MILANO

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio

villeggiatura. Mi riposo in Piazza

del Duomo. Invece

di stelle

ogni sera si accendono parole.

Nulla riposa della vita come 

la vita.


2 TORINO

Ritornerò dentro la cerchia amabile

dei tuoi monti, alle vie che si prolungano

come squilli. Poi tosto in uno strano

silenzio fuggirò ritrovi, amici.

Ma cercherò il soldato Salamano,

il piú duro a parole, il piú al dovere

fermo, che in sé la tua virtú rispecchia.

Cercherò l’officina ov’egli invecchia.


3 FIRENZE

Per abbracciare il poeta Montale

– generosa è la sua tristezza – sono 

nella città che mi fu cara. È come

se ogni pietra che il piede batte fosse

il mio cuore, il mio male

di un tempo. Ma non ho rimpianti. Nasce

– altra costellazione – un’altra età.




Nutrice 


Guardo, donna, il tuo volto incoronato

di capelli bianchissimi, piú duro

delle pietraie del tuo Carso, inciso

di rughe, come di solchi la terra.

So che il prodigio a cui m’attendo, un attimo,

scioglie delle tue labbra la minaccia,

quei solchi appiana, gli occhi grigi illumina,

o mia madre di gioia, o tu cui devo

la dorata letizia onde il mio canto

si vena, che una gloria oggi incorona,

che ignori, come i tuoi capelli bianchi.




Sobborgo 


Vecchio sobborgo improvvisato e squallido, 

già campagna sassosa, poi conquista.

Sul tetto di una casa cresce l’erba, 

come sui resti di un incendio. Pochi 

passi piú in là c’è il Pastificio, il rosso 

suo fumaiolo. Ma la giostra suona 

all’ultima miseria delle cose, 

alle merci che sembrano rifiuti, 

alle facciate delle case invase 

di una lebbra che ieri era colore, 

e rallegrava lontano la vista.

Come diverso il giovane barista, 

pure nato di te, da te si sente! 

Mi fa un caffè come un trionfo, e i buoni 

occhi in volto gli ridono sportivi.




Alba 


È l’alba. La giornata che si annuncia 

sarà per me come uno strazio. Pure 

io la vivrò, ritroverò la fresca 

sera, la pace coi nemici vinti 

anche in me stesso. La mia vita è tutta 

cosí; cosí me la dipingo, e lieto 

per l’aperta finestra guardo l’ora 

– come dentro una bolla di sapone – 

ricreare gli alberi le case.




«Frutta erbaggi» 


Erbe, frutta, colori della bella 

stagione. Poche ceste ove alla sete 

si rivelano dolci polpe crude.

Entra un fanciullo colle gambe nude, 

imperioso, fugge via.

S’oscura 

l’umile botteguccia, invecchia come 

una madre.

Di fuori egli nel sole 

si allontana, con l’ombra sua, leggero.




Donna 


Quand’eri

giovinetta pungevi

come una mora di macchia. Anche il piede

t’era un’arma, o selvaggia.

Eri difficile a prendere.

Ancora

giovane, ancora 

sei bella. I segni

degli anni, quelli del dolore, legano 

l’anime nostre, una ne fanno. E dietro 

i capelli nerissimi che avvolgo 

alle mie dita, piú non temo il piccolo 

bianco puntuto orecchio demoniaco.




Lago 


Piccolo lago in mezzo ai monti – il giorno 

le calde mucche bevono ai tuoi orli; 

a notte specchi le stelle – mi sento 

oggi in un brivido la tua chiarezza.

La giovanezza ama la giovanezza. 

Due fanciulli qui vennero una volta. 

Ti scoprirono insieme occhio di gelo.




Lavoro 


Un tempo

la mia vita era facile. La terra

mi dava fiori frutta in abbondanza.

Or dissodo un terreno secco e duro. 

La vanga

urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo 

profondo, come chi cerca un tesoro.




Violino 


Avuto

di variopinti francobolli in cambio

e muto

da tanto, cosí dolci argentei suoni

dal tuo legno cavavo io questa notte,

mio violino, sostegno 

della difficile età, di lei nato 

miraggio, a oscure inquietudini porto, 

che il mio dono non eri.

A te nei sogni 

rivivo, a quando a quando, di una notte.




Fontanella 


Sotto gli alberi spogli del viale

degli svaghi offrí invano il suo zampillo.

Ma è venuta l’estate, altro le accade. 

È cara a tutti, al vecchio curvo come 

al giovane che il suo corpo modella 

nel segno sotto cui nacque, severo. 

Il passante che segue di un pensiero 

arido i fili e la scopre, devia 

verso una gioia pronta e gratuíta.

Offre un sorso di vita ad ogni vita, 

che in sé grata l’accoglie, poi l’oblia, 

per proseguire ignara al suo destino.




Bocca 


La bocca

che prima mise

alle mie labbra il rosa dell’aurora,

ancora

in bei pensieri ne sconto il profumo.

O bocca fanciullesca, bocca cara, 

che dicevi parole ardite ed eri 

cosí dolce a baciare.




Caro luogo 


Vagammo tutto il pomeriggio in cerca 

d’un luogo a fare di due vite una.

Rumorosa la vita, adulta, ostile, 

minacciava la nostra giovanezza.

Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli, 

quanto silenzio sotto questa luna.




Solo 


Sono solo. Nessuno ascolta dove

agli amici dispersi ogni richiamo

è vano.

Brilla come un ghiacciuolo l’odio, e penso

che vedrò questa sera te che amo.

Penso quanto nel sole

che rileva, nell’ombra che nasconde,

ho fatto, errato, a dirmi in pace alcune

parole.




Quando si apriva il velario 


Quando si apriva il velario sul mondo

della mia fanciullezza, accorsi come

ad una festa promessa. Cadute

sono le meraviglie ad una ad una;

delle concette speranze nessuna

che mi valga, al ricordo, anche una lacrima,

anche un solo sospiro. Ma possiedo,

giovane amica, il tuo bacio, che assenze

fanno, e pietà di noi stessi, piú raro.

Era questo la vita: un sorso amaro.




Amico 


Trovare,

quando la vita è al suo declino, il raggio 

che primo la beò: un amico. È il bene 

che mi fu dato.

Simile a me e dissimile, ribelle

e docile. Lo guardo

a me vicino respirare come

un figlio fuor d’ogni speranza nato

tenera madre.

In breve partirà, per la sua via 

andrà, dubbia e difficile. Alle angosce 

dei miei anni in discesa lascerà 

egli la casta dolcezza di un bacio.

Ma, se il tempo gli orrori suoi precipita, 

a serena letizia oggi si è volta 

per lui la mente mia.




I morti amici 


I morti amici rivivono in te,

e le morte stagioni. Che tu esista

è un prodigio; ma un altro lo sorpassa:

che in te ritrovi un mio tempo che fu.

In un paese m’aggiro che piú

non era, remotissimo, sepolto

dalla mia volontà di vita. È questo

il bene o il male, non so, che m’hai fatto.




Ecco, adesso tu sai 


Ecco, adesso tu sai che tra i beati 

non è dimora per noi. Che la vita, 

come un avido sguardo, è tutta piena 

di lacrime nascoste.

Amore, gelosia, taciuta brama

di belle cose come prede esposte,

ti lasciano un rimpianto oscuro, aggiungono

ancora un filo nell’antica trama

che spezzerà, forse, la morte.

A galla ti riportano 

non dettate virtú, ma d’altri accenti, 

che un tremito confonde, la memoria. 

La tua storia finisce, si nasconde... 

Ma quanti cari cuori hai conquistati!




Dall’erta 


Dall’erta solitaria che nel mare 

precipita – che verde oggi e schiumoso 

percuote obliquo la città – si vede 

il bianco panorama di Trieste.

Tu già le conoscevi – dici – queste

mie strade, ove s’incontra, al piú, una donna

che la lunga salita ansia, un fanciullo

che se Bòrea t’investe, mette l’ali

a ogni cosa, per te vola. Poi torna

a se stesso, ti passa accanto altero.

Tutto un mondo che amavo, al quale m’ero 

dato, che per te solo oggi rivive.




Partita 


Quante speranze nel gioco! Ma poi,

sul tavolo abbattute,

tutte le carte erano contrarie.

Fu il destino, e l’accetto. Non gli faccio

mal viso, non mi lagno

come nella chiassosa giovanezza.

Ma conosco la scala che all’altezza 

conduce a me possibile.

Mi levo 

tra volti amici, conto il mio guadagno.




Sul tavolo 


Sul tavolo del bar dove sedemmo 

l’amica estate, cadono le foglie 

degli alberi su cui posa un raduno 

di stornelli frenetici a emigrare.

Ma tu che mi sei prossimo hai le care 

speranze. Hai la tristezza che ti segna 

di un’ombra il volto giovanile. Oscuro 

è il mio pianto, che agli altri e a sé si cela.




Tappeto 


Cose piú belle della vita a lungo 

cercavi, fanciulletta, nel suo pallido 

disegno; chi sa quali evasioni...

Lo rivedi, al suo luogo.

Come allora, 

il palazzo di Mille ed una notte 

è aperto. Ma non v’entri tu, né alcuno 

che con te sulle tue orme vagava. 

Né le ceste ti allietano di frutta, 

cui sorride il ragazzo che le porta. 

Paradiso perduto, che rifugge 

l’occhio che piú l’amava, è il bel tappeto.




Principio d’estate 


Dolore, dove sei? Qui non ti vedo; 

ogni apparenza t’è contraria. Il sole 

indora la città, brilla nel mare. 

D’ogni sorta veicoli alla riva 

portano in giro qualcosa o qualcuno. 

Tutto si muove lietamente, come 

tutto fosse di esistere felice.




Anche un fiato di vento 


Anche un fiato di vento pare un sogno 

agli uomini del porto, alla bandiera 

afflosciata là in cima alla terrazza 

del Bagno della Diga. 

Il mare, come in burrasca, si leva.

Sotto il cielo coperto è volta l’ansia 

di tutti ad una raffica, alla prima, 

che sbatterà le tende lungo riva, 

chiuderà gli ombrelloni varieggiati, 

per i quali l’estate ci veniva, 

piú amica, incontro;

che sarà un refrigerio ed una fine.




Notte d’estate 


Dalla stanza vicina ascolto care 

voci nel letto dove il sonno accolgo. 

Per l’aperta finestra un lume brilla, 

lontano, in cima al colle, chi sa dove.

Qui ti stringo al mio cuore, amore mio, 

morto a me da infiniti anni oramai.




Colombi 


Alle curve rotaie che discendono

acqua azzurra piovana, un sorso chiedono,

un refrigerio nell’arsura.

Gravi

alle giovani noie, alla mia sera, 

che li ho soli vicini, e ascolto quella 

musica d’ali alla finestra, guardo 

la loro vita famigliare, bella, 

le loro lotte fratricide, ingenue; 

come vaghe creature a me li lego 

con l’offerta che so grata. La tesa 

mano è richiamo a tutti i voli; rosse 

zampine vi si apprendono; colori 

d’arcobaleno si spiegano. Oh ai miei 

portino bene, a me, nella dimora 

oggi per pochi sparsi 

chicchi di granoturco diventata 

la casa visitata da gli angeli.




Da quando 


Da quando la mia bocca è quasi muta 

amo le vite che quasi non parlano. 

Un albero; ed appena – sosta dove 

io sosto, la mia via riprende lieto –

il docile animale che mi segue.

Al giogo che gli è imposto si rassegna. 

Una supplice occhiata, al piú, mi manda. 

Eterne verità, tacendo, insegna.




Camioncino 


Camioncino che al Lido, azzurro e bianco, 

attraversa il viale – estiva folla, 

di bei colori, come sa, vestita –; 

spande una canzonetta che nel cuore, 

dove l’eco amorosa è ancora un bene, 

la musica intrattiene delle sfere.

Giovanetti ciclisti, come al lume 

farfalle, intorno gli vanno. Ma tu, 

che sulla superficie della terra 

cammini è tanto, e docile ti lasci 

prendere a un movimento della vita!




Piazza 


Chi va in caccia d’amori, chi di svaghi, 

chi solo di ricordi.

Baracconi 

non hanno mani a vendere la sera 

le indigeste castagne ai ragazzoni 

della libera uscita.

In alto regna 

la gloria ancora sull’antica piazza.

Personaggio a cavallo che si annoia 

nel marmo che lo adúla goffamente.




Per un fanciullo ammalato 


Nella casa paterna ti aggiravi 

silenzioso come un gatto. Il nome 

sapevi, non la realtà, del dolore.

Dai tuoi compagni diviso, le rose 

sulle guance affilate impallidivano.

Rinato dalla mia anima, fiore 

della vita, fanciullo amico. È tua 

questa che ancora mi rimane estrema 

lacrima che non vedi.




Teatro 


Eri il facile oblio; anche, alle volte, 

un tempio. Oggi la vita preme ad altre 

porte, si specchia a un’altra illusione. 

La voce tace da tanto alla quale, 

alla sua eco lunga nel ricordo, 

il mio giovane cuore si appoggiava.

Nei riposi suonava un’orchestrina.

Oh il loggione in tempesta che risuscita, 

per la mano del padre, Amleto! Caro 

premio al fanciullo, cui la madre dava, 

per te, nel pomeriggio di una festa, 

la piccola moneta. Ed alla sete 

acqua d’anice tinta era ristoro.




Contovello 


Un uomo innaffia il suo campo. Poi scende 

cosí erta del monte una scaletta, 

che pare, come avanza, il piede metta 

nel vuoto. Il mare sterminato è sotto.

Ricompare. Si affanna ancora attorno

quel ritaglio di terra grigia, ingombra 

di sterpi, a fiore del sasso. Seduto 

all’osteria, bevo quest’aspro vino.




Alberi 


La colomba che preda la festuca 

e la porta nel nido invidio, e voi 

alberi silenziosi, a cui le foglie, 

ben disegnate, indora il sole; belli 

come bei giovanetti o vecchi ai quali 

la vecchiezza è un aumento. Chi vi guarda 

– verdi sotto una nera ascella frondi 

spuntano; alcuni rami sono morti – 

le vostre dure sotterranee lotte 

non ignora; la vostra pace ammira, 

anche piú vasta.

E a voi ritorna, amico;

laghi d’ombra nel cuore dell’estate.




Finestra 


Il vuoto

del cielo sul color di purgatorio

delle tegole. Dietro, la materna

linea dei colli; in basso l’erta dove

dai cornicioni del teatro calano

i colombi; verdeggia

un albero che poca terra nutre;

statue portano alati sulla lira;

fanciulli con estrose grida vagano

in corsa.




Fumo 


Conforto delle lunghe insonni notti 

d’inverno

– allora in labirinti oscuri 

errò, di angoscia, il pensiero; la mano 

corse affannosa al tuo richiamo –

il filo

tenue che sale, poi si rompe, il cielo,

dall’aperta finestra, di un suo raggio 

colora;

e mi ricorda una casetta, sola

fra i campi, che fumava per la cena.




Quando il pensiero 


Quando il pensiero di te mi accompagna 

nel buio, dove a volte dagli orrori 

mi rifugio del giorno, per dolcezza 

immobile mi tiene come statua.

Poi mi levo, riprendo la mia vita. 

Tutto è lontano da me, giovanezza, 

gloria; altra cura dagli altri mi strana. 

Ma quel pensiero di te, che tu vivi, 

mi consola di tutto. Oh tenerezza 

immensa, quasi disumana!




Sera di febbraio 


Spunta la luna.

Nel viale è ancora 

giorno, una sera che rapida cala. 

Indifferente gioventú s’allaccia; 

sbanda a povere mète.

Ed è il pensiero 

della morte che, in fine, aiuta a vivere.




Prospettiva 


La gente in fretta dirada.

Filari 

d’alberi nudi ai lati del viale, 

in fondo là dove campagne sfumano, 

si avvicinano – pare – in una stretta. 

E v’entra un poco di quel cielo lilla 

che turba e non consola.

Breve sera, 

troppo, in vista, tranquilla.




Il vetro rotto 


Tutto si muove contro te. Il maltempo, 

le luci che si spengono, la vecchia 

casa scossa a una raffica e a te cara 

per il male sofferto, le speranze 

deluse, qualche bene in lei goduto. 

Ti pare il sopravvivere un rifiuto 

d’obbedienza alle cose.

E nello schianto 

del vetro alla finestra è la condanna.




Ultimi versi a Lina 


La banda militare che affollava 

vie piú il Corso la sera, i fanaletti 

oscillanti alla marcia – il battistrada 

tronfio alzava e abbassava il suo bastone –; 

le tue compagne: la buona, la scaltra, 

l’infedele in amore; il verde fuori 

e dentro la città; le laceranti 

sirene dei vapori che partivano; 

le osterie di campagna;

queste cose 

furono un giorno – ricordi – cui venne, 

una a una, una fine.

La memoria, 

amica come l’edera alle tombe, 

cari frammenti ne riporta in dono.




C’era 


C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva 

arnesi, intorno, di rame. Su quello 

si chinava la madre col soffietto, 

e uscivano faville.

C’era nel mezzo una tavola dove 

versava antica donna le provviste. 

Il mattarello vi allungava a tondo 

la pasta molle.

C’era, dipinta di verde, una stia, 

e la gallina in libertà raspava. 

Due mastelli, là sopra, riflettevano, 

colmi, gli oggetti.

C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo. 

Le sue speranze assieme alle faville 

del focolaio si alzavano. Alcuna 

– guarda! – è rimasta.




Spettacolo 


Tu non lasci deluso lo spettacolo 

dove amori t’incantano e venture

e senti in quelle truccate figure 

tutti i tuoi giovani sogni irritarsi.

Altre, quand’ero come te, ho versate 

dolci usurpate lacrime.

Ora è tardi. Si spogliano le cose, 

se ne tocca lo scheletro. Una veste 

ancora piace, se bella. Piú spesso 

è la menzogna inutile, che annoia.




Ritratto 


Lascia lo specchio. Non guardarti in quello 

come una giovanetta. Che alle donne 

è lume il corpo; a te l’animo vale.

La dolcezza che opponi ingenuo al male 

fa la bontà del tuo sguardo. Ma il ciuffo 

di capelli, che un po’ butti in disparte, 

d’esser te stesso la fierezza esprima,

come in cima a una casa già compiuta

la bandieretta

che libera lassú s’agita a un vento.




Luciana 


Che diresti di me, dopo tanti anni, 

anima cara, se tornassi al mondo?

Anche il luogo natio mutato è tanto! 

Ti riconosceresti, io credo, appena.

Rancor mi serbi come a uno spergiuro 

d’aver protratta senza te la vita?

M’hai perdonata quella che t’infersi 

– oh giovanezza! – amorosa ferita?




In treno 


Guardo gli alberi spogli, la campagna 

deserta, a tinte invernali. A te penso 

che ti allontani, che lasciai da poco. 

Mette la sera come un roseo fuoco 

sulle casette, sugli armenti; il treno 

in fuga volge nella corsa folle 

qualche animale giovane e galline 

versicolori.

Straziato è il mio cuore come sente 

che piú non vive nel tuo petto. Tace 

ogni altra angoscia per questa. Ed appena 

la dura vita a tanti mali regge.

Ma tu muti conforme la tua legge, 

e il mio rimpianto è vano.




alberto 


uno morendo m’hai lasciato in dono 

fiasco di vecchio vino e la tua pipa

da quella fumerò nell’ore dense 

di memorie pensando la dolcezza 

che si sparse da te come la vita 

ti si fece impossibile

quel vino 

inebbrierà una lacrima negli occhi 

di tuo fratello straniero in america

quando ritornerà.




Foglia morta 


La rossa foglia morta 

che il vento porta via, 

il vento e lo spazzino,

– sotto il fulgido cielo cadde, insanguina 

con le altre la via –

imiterei. Per nausea 

delle parole vane, 

dei volti senza luce.

Ma la tua voce, o gentile, mi parla; 

fa’ che non cada ancora.




Una notte 


Verrebbe il sonno come l’altre notti, 

s’insinua già tra i miei pensieri.

Allora,

come una lavandaia un panno, torce 

la nuova angoscia il mio cuore. Vorrei 

gridare, ma non posso. La tortura, 

che si soffre una volta, soffro muto.

Ahi, quello che ho perduto so io solo.




Fedra 


Soffia una bora omicida. Domani 

cadrà la neve, imbiancherà le strade 

che salivano amiche alla tua casa 

in cima al colle, lontana. Tra i verdi 

pini l’immensa vallata ripete 

in foglie innumerevoli il colore 

che amavi sempre ai tuoi capelli.

Fedra 

eri; ancor sei.

Piú preziosa adesso

che si accende alla stufa il primo fuoco 

in rare case; la stagione è un poco 

nostra, nostro il paesaggio; il pensiero 

irraggia un ultimo vero; s’illude 

che il peggio – forse – è passato.




Porto 


... A scordarla ancor m’aggiro io per il porto, come un levantino. 

(Trieste e una donna).

Qui dove imberbi scritturali il peso 

registravano, e curvi sotto il carico 

in fila indiana sudati braccianti 

salivano scendevano oscillanti 

scale dai moli agli alti bordi, preso 

fra bestemmie e muggiti, della vita 

solo un pensiero a me era nocente.

Cercavo a quello un angolo ridente. 

Molti, all’ombra di pergole, ne aveva 

la mia città inquieta. Mi premeva 

isolarmi con lui, mettere assieme 

versi, cavare dal suo male un bene.

Spero ancora un rifugio allo stratempo. 

Ecco: è stato miracolo trovarlo. 

Tutto, se chiedo, posso avere, fuori 

quel mio cuore, quell’aria mia e quel tempo.




Campionessa di nuoto 


Chi t’ha veduta nel mare ti dice 

Sirena.

Trionfatrice di gare allo schermo

della mia vita umiliata appari

dispari.

A te mi lega un filo, tenue cosa

infrangibile, mentre tu sorridi,

e passi avanti, e non mi vedi. Intorno

ti vanno amiche numerose, amici

giovani come te; fate gran chiasso

tra voi nel bar che vi raccoglie. E un giorno

un’ombra mesta ti scendeva – oh, un attimo! –

dalle ciglia, materna ombra che gli angoli

t’incurvò della bella bocca altera,

che sposò la tua aurora alla mia sera.




1944 

Avevo 


Da una burrasca ignobile approdato 

a questa casa ospitale, m’affaccio 

– liberamente alfine – alla finestra. 

Guardo nel cielo nuvole passare, 

biancheggiare lo spicchio della luna,

Palazzo Pitti di fronte. E mi volgo 

vane antiche domande: Perché, madre, 

m’hai messo al mondo? Che ci faccio adesso 

che sono vecchio, che tutto s’innova, 

che il passato è macerie, che alla prova 

impari mi trovai di spaventose 

vicende? Viene meno anche la fede 

nella morte, che tutto essa risolva.

Avevo il mondo per me; avevo luoghi 

del mondo dove mi salvavo. Tanta 

luce in quelli ho veduto che, a momenti, 

ero una luce io stesso. Ricordi, 

tu dei miei giovani amici il piú caro, 

tu quasi un figlio per me, che non pure 

so dove sei, né se piú sei, che a volte 

prigioniero ti penso nella terra 

squallida, in mano al nemico? Vergogna 

mi prende allora di quel poco cibo, 

dell’ospitale provvisorio tetto. 

Tutto mi portò via il fascista abbietto 

ed il tedesco lurco.

Avevo una famiglia, una compagna;

la buona, la meravigliosa Lina.

È viva ancora, ma al riposo inclina

piú che i suoi anni impongano. Ed un’ansia

pietà mi prende di vederla ancora, 

in non sue case affaccendata, il fuoco 

alimentare a scarse legna. D’altri 

tempi al ricordo doloroso il cuore 

si stringe, come ad un rimorso, in petto. 

Tutto mi portò via il fascista abbietto 

ed il tedesco lurco.

Avevo una bambina, oggi una donna. 

Di me vedevo in lei la miglior parte. 

Tempo funesto anche trovava l’arte 

di staccarla da me, che la radice 

vede in me dei suoi mali, né piú l’occhio 

mi volge, azzurro, con l’usato affetto. 

Tutto mi portò via il fascista abbietto 

ed il tedesco lurco.

Avevo una città bella tra i monti 

rocciosi e il mare luminoso. Mia 

perché vi nacqui, piú che d’altri mia 

che la scoprivo fanciullo, ed adulto 

per sempre a Italia la sposai col canto. 

Vivere si doveva. Ed io per tanto 

scelsi fra i mali il piú degno: fu il piccolo 

d’antichi libri raro negozietto. 

Tutto mi portò via il fascista inetto 

ed il tedesco lurco.

Avevo un cimitero ove mia madre 

riposa, e i vecchi di mia madre. Bello 

come un giardino; e quante volte in quello 

mi rifugiavo col pensiero! Oscuri 

esigli e lunghi, atre vicende, dubbio 

quel giardino mi mostrano e quel letto. 

Tutto mi portò via il fascista abbietto 

– anche la tomba – ed il tedesco lurco.




Teatro degli Artigianelli 


Falce martello e la stella d’Italia 

ornano nuovi la sala. Ma quanto 

dolore per quel segno su quel muro!

Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.

Saluta al pugno; dice sue parole

perché le donne ridano e i fanciulli

che affollano la povera platea.

Dice, timido ancora, dell’idea

che gli animi affratella; chiude: «E adesso

faccio come i tedeschi: mi ritiro».

Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro

rosseggia parco ai bicchieri l’amico

dell’uomo, cui rimargina ferite,

gli chiude solchi dolorosi; alcuno

venuto qui da spaventosi esigli,

si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli, 

quale lo vide il poeta nel mille 

novecentoquarantaquattro, un giorno 

di Settembre, che a tratti 

rombava ancora il cannone, e Firenze 

taceva, assorta nelle sue rovine.




Disoccupato 


Dove sen va cosí di buon mattino 

quell’uomo al quale m’assomiglio un poco? 

Ha gli occhi volti all’interno, la faccia 

sí dura e stanca.

Forse cantò coi soldati di un’altra 

guerra, che fu la guerra nostra. Zitto 

egli sen va, poggiato al suo bastone 

e al suo destino,

tra gente che si pigia 

in lunghe file alle botteghe vuote. 

E suona la cornetta all’aria grigia 

dello spazzino.




Vecchio camino 


Vecchio camino che dai tetti sporgi, 

che incornicia la mia finestra – un cielo 

pallido, annuvolato in parte, è sopra –

fumavi all’era dei Granduchi, al tempo 

che la seguiva imbandierato e in cuore 

deluso. Dalla guerra anche hai veduto 

tornare il figlio in licenza. Che festa 

gli facevano intorno! Egli la 

testa teneva tra le mani a lungo assorto 

in taciuti pensieri. «Mamma» a volte 

diceva, e basta. Altri diceva: «È un male; 

nascerà un bene anche piú grande». Invece...

Vecchio camino che una mano fece

d’uomo or sono piú secoli, se molti

passarono su te anni e stagioni,

nubi e sole alternando, forse nulla

di piú triste hai veduto. E un giorno vani

ballerini ti apparvero sui tetti,

giovani ai dí dell’emergenza paghi

– cosí sembrava – a un grammofono. E, vaghi

di fucilate, erano partigiani.

Era la fine. Lo si vide in breve

nella via sottostante a rosse prove.

Quasi inutile fatto oggi alle nuove 

scoperte – sempre piú raro un saluto 

di fumo mandi a quel cielo – se ammuto 

volentieri fra gli uomini, a te parlo 

volentieri che, pur tacendo, ascolti. 

Vecchio sei come me, sopravvissuto.




Dedica 


Perch’io non spero di tornar giammai 

fra gli amici a Trieste, a te Firenze 

questi canti consacro e questi lai.

Come t’amavo in giovanezza! Folli 

che abitavano te, t’han fatta poi 

difforme a tutti i miei pensieri, ostile.

Ma di giovani tuoi vidi gentile 

sangue un Agosto rosseggiar per via. 

Si rifece per te l’anima pura.

M’hai celato nei dí della sventura.




Varie 

Un ricordo dell’altra guerra 


Quali immagini sorgono sepolte

in una notte agghiacciata ed insonne!

A Cattaro uno spione 

che teneva un’osteria, 

vendeva il vino del paese, cibi, 

e secreti di morte alle due parti.

Per tutti – dice Carmen – l’ora viene. 

Si vide un fuoco tra le rocce, a galla 

dilatare una macchia d’olio. Verso 

Brindisi scompariva amica nave.

Oh, come amica! Veloce leggera.

Portava a picco la bandiera 

ch’era la mia.




Skotsch-terrier 


(A Linuccia)

Avevi un cane, Ilo di nome, bello,

che a vederlo su un prato in tondo correre

la sua felicità chiamava lacrime.

Ti morí quella volta della Francia.

E fu un lutto domestico e del mondo.




Due madrigali per la Duchessa d’Aosta 


1

Cosí giovane sei, cosí leggera 

cammini incontro alla dubbia fortuna, 

che se non fossi una 

principessa, saresti una ragazza.

Trieste, 1934.


2

Penso le mani, le tue belle mani.

Sono passati per farle duemila

anni di storia di Francia. Le fila

del destino il destino rompe. Ostaggio

sei – dicono – al tedesco dalla pancia

deforme, dallo scheletro odioso.

Forse appena ti regge un mesto orgoglio.

Altro di te non so, né saper voglio.

Firenze, 1944.




Privilegio 


Io sono un buon compagno. Agevolmente 

mi si prende per mano, e quello faccio 

ch’altri mi chiede, bene e lietamente.

Ma l’anima secreta che non mente

a se stessa mormora sue parole.

Anche talvolta un dio mi chiama, e vuole

ch’io l’ascolti. Ai pensieri

che mi nascono allora, al cuor che batte

dentro, all’intensità del mio dolore,

ogni uguaglianza fra gli uomini spengo.

Ho questo privilegio. E lo mantengo.




La visita 

a Bruno e Maria Sanguinetti 


Ho scritto fine al mio lavoro; messo, 

diligente scolaro, in bella, pagina 

dopo pagina. Il cuore mi mancava 

e proseguivo. Ora da te, partito, 

com’usi, a un tratto, con mia figlia sosto, 

i tuoi bimbi e Maria tua di Sardegna.

Il destino riuní queste persone

– né altrimenti poteva – in questa stanza. 

Ardono al caminetto alcune legna.

Si fa notte sui colli, sul giardino

che un triste inverno spogliò, nell’incongruo

di quei discordi pigolio che accusa

vicini l’ora della cena, il bacio

della mamma nel bianco caldo letto.

Si fa notte ai dipinti da Bolaffio, 

seduti due sopra una panca (parlano 

di politica), a quell’immensa dietro 

magnolia, alla bambina che sorvola, 

battendo il cerchio, un viale. Altri tempi 

era il mio quadro; tutta 

illuminava la mia casa. Amico 

l’ho ritrovato nella tua, che buono 

l’hai salvo al cieco disamore. E sono

– penso – vent’anni che passò Bolaffio.

Si fa notte negli occhi di mia figlia 

e in quelli della donna bruna. Ai miei 

scende, e non è dolore, umido un velo.

È tardi. Affronto lietamente il gelo 

di fuori. Ho in cuore di una vita il canto, 

dove il sangue fu sangue, il pianto pianto. 

Italia l’avvertiva appena. Antico 

resiste, come quercia, allo sfacelo.




Mediterranee 

Entello 


Per una donna lontana e un ragazzo

che mi ascolta, celeste,

ho scritte, io vecchio, queste

poesie. Ricordo,

come in me lieto le ripenso, antico

pugile. Entello era il suo nome. Vinse

l’ultima volta ai fortunosi giochi

d’Enea, lungo le amene

spiagge della Sicilia, ospite Anceste.

Bianche si rincorrevano sull’onde

schiume che in alto mare eran Sirene.

Era un cuore gagliardo ed era un saggio.

«Qui – disse – i cesti, e qui l’arte depongo».




Tre poesie alla Musa 


1

A te occhiazzurra questi canti deve 

uno che ha sete e alle tue labbra beve. 

Antichi come lui, come te nuovi, 

se giri tutto il mondo, non ne trovi.


2

Bigiaretti e compagni hanno veduto 

poco o nulla di te, mia Musa. Manca, 

ad una che di noi rendono immagine, 

ai tuoi occhi il colore dei tuoi occhi, 

azzurra luce che per te ho saputo 

cogliere estrema agli attimi fuggenti.

Sono buoni ragazzi. T’hanno amata 

anche diminuita, anche accecata.


3

Non quello che di te scrivono sotto. 

Pianse e capí per tutti era il tuo motto.




Due antiche favole 


1 IL RATTO DI GANIMEDE

Era un giorno fra i giorni. Era sereno 

l’Ida; le capre brucavano in pace, 

date in guardia a pastore adolescente. 

Solo il cane qua e là vagava inquieto.

Sul volto del fanciullo ombre passavano. 

Forse troppo severo il re suo padre. 

Forse anelava ai compagni

– sull’Ida 

erano molti della stessa età,

che tutti delle stesse gare amanti, 

per il bacio di un serto, violenti 

si abbracciavano a un coro d’alte grida. – 

Bianche in cielo correvano le nubi.

Sempre il cane su e giú fiutava all’erta, 

ed il gregge piú unito in sé stringevasi. 

Ai presagi insensibile, il pastore, 

oblioso al suo compito, sognava.

Fulminava dal cielo aquila fosca. 

Si sbandavano greggi, si sgolava 

il cane.

Già dell’azzurro il fanciullo 

bagnava un’ultima volta la terra.


2 NARCISO AL FONTE

Quando giunse Narciso al suo destino 

– dai pastori deserto e dalle greggi 

nell’ombra di un boschetto azzurro fonte – 

subito si chinò sullo specchiante.

Oh, il bel volto adorabile!

Le frondi 

importune scostò, cercò la bocca 

che cercava la sua viva anelante. 

Il bacio che gli rese era di gelo. 

Sbigottí. Ritornò al suo cieco errore.

Perché caro agli dèi si mutò in fiore 

bianco sulla sua tomba.




Tre vecchie poesie 


1 DAL VERO

Guarda il Banco di Napoli. Egli attigua 

ancora soffre dietro a sé, per poco, 

sgangherata dagli anni una casetta, 

con le imposte malchiuse ed una scritta 

che sporge in fuori e dice Trattoria.

Ma quello è cosí triste, e la casetta 

mette in cuore superstite allegria.

(1940).


2 FIERA DI SAN NICOLÒ

Cala l’umida nebbia della sera 

lungo gli alberi spogli. Vuoi tu ancora 

San Nicolò, fra tante afflitte cose, 

farmi di umana tenerezza un dono?

Mi riporti tra i vivi a una servotta,

la mano alzata sul monello come

le si faceva vicino, sparava

sotto i suoi piedi un petardo. Alla botta

chiaro visino con il naso in su,

di bianco e rosa, si mostrò vermiglio.

Dove cresce il frastuono della fiera, 

oggi e un tempo, mi perdo. E se una lacrima 

tenta ancora il mio ciglio, non la lascio 

sgorgare, che di lei quasi ho vergogna.

(1941).


3 FOGLIA

Io sono come quella foglia – guarda –

sul nudo ramo, che un prodigio ancora 

tiene attaccata.

Negami dunque. Non ne sia attristata 

la bella età che a un’ansia ti colora, 

e per me a slanci infantili s’attarda.

Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. 

Morire è nulla; perderti è difficile.

(1942).




Amai 


Amai trite parole che non uno

osava. M’incantò la rima fiore

amore,

la piú antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo, 

quasi un sogno obliato, che il dolore 

riscopre amica. Con paura il cuore 

le si accosta, che piú non l’abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona 

carta lasciata al fine del mio gioco.




Ignuda 


Ignuda come un ruscelletto e bocca 

a bocca, ogni tuo brivido addolciva 

quel bacio che mi torna oggi al pensiero.

M’era in sogno, ma forse ero nel vero, 

che in te parlasse, fatto carne, un angelo. 

Un angelo del bene anche acquiesce 

per bontà, per eccesso in lui d’amore.




Angelo 


O tu che contro me vecchio nel fiore 

dei tuoi anni ti levi, occhi che all’ira 

fiammeggiano piú nostra come stelle, 

bocca che ai baci dati e ricevuti 

armonizzi parole, è forse il mio 

incauto amarti un sacrilegio? Or questo 

è fra me e Dio.

Alto cielo! Mio bel splendente amore!




Mediterranea 


Penso un mare lontano, un porto, ascose 

vie di quel porto; quale un giorno v’ero, 

e qui oggi sono, che agli dèi le palme 

supplice levo, non punirmi vogliano 

di un’ultima vittoria che depreco 

(ma il cuore, per dolcezza, regge appena);

penso cupa sirena

– baci ebbrezza delirio –; penso Ulisse

che si leva laggiú da un triste letto.




Amore 


Ti dico addio quando ti cerco Amore, 

come il mio tempo e questo grigio vuole. 

Oh, in te era l’ombra della terra e il sole, 

e il cuore d’un fanciullo senza cuore.




Ebbri canti 


Ebbri canti si levano e bestemmie 

nell’osteria suburbana. Qui pure 

– penso – è Mediterraneo. E il mio pensiero 

all’azzurro s’inebbria di quel nome.

Materna calma imprendibile è Roma. 

S’innamora la Grecia alle sue sponde 

come un’adolescenza. Oscura il mondo 

e lo rinnova la Giudea. Non altro 

a me vecchio sorride sotto il sole.

Antico mare perduto... Pur vuole 

la Musa che da te nacque, ch’io dica 

di te, col buio alle porte, parole.




Raccontino 


La casa è devastata,

la casa è rovinata.

Mille e una notte non l’abita piú.

Come un giardino la sua verde Aleppo 

una tenera madre ricordava. 

Accoglieva le amiche, palpitava 

per il figlio inquieto. Ed il caffè 

porgeva, in piccole tazze, alla turca.

La casa è devastata,

la casa è rovinata.

Mille e una notte non accoglie piú.

La rovinò dal cielo 

la guerra, 

in terra

la devastava il tedesco. Piangeva 

la gentile le proprie sue e le umane 

miserie. (Odiare non poteva). Il figlio 

fuggí sui monti, vi trovò un suo caro 

amico, vi giocò con lui la vita.

Erano cari amici, si facevano 

meraviglia a vicenda, esageravano, 

un poco invidiosi, donne amori. 

Erano cari amici quando rompere 

tu li vedevi esterrefatto a calci: 

un’antilope e un mulo.

La casa è devastata,

la casa è rovinata.

Ma i due ragazzi sono vivi ancora;

vive ancora, imbianchite un po’, le madri.




Gratitudine 


Un anno, e in questa stagione ero a Roma. 

Avevo Roma e la felicità. 

Una godevo apertamente e l’altra 

tacevo per scaramanzia.

Ma tutto 

mi voleva beato a tutte l’ore; 

e il mio pensiero era di un dio creatore.

Milano sotto la neve è piú triste,

forse piú bella. Molte cose sono

passato, quali in me vivono ancora,

in questa umana città dolorosa.

Mi accoglie al caldo la cucina; un prossimo,

ritrovato e perduto, gli occhi leva

dai quaderni impossibili e la voce.

Vede i candidi fiori; vede, un poco

curva, la madre che sfaccenda. E dice,

volta l’ilare faccia a lei: «Mammina,

appena esci ti bacia la neve»;

ed il mio cuore quel bacio riceve.




Tre poesie a Telemaco 


1 QUASI UNA FAVOLA

Tutti portiamo della vita il peso, 

in ogni luogo, in ogni tempo nati.

Ma il giovane stornello in cui ponevo 

qualche speranza d’avvenire, e il cuore 

lasciava pegno a un’ochetta, ben giura 

che v’è al mondo un paese – agli altri in odio 

fortissimo paese – ove il migliore 

sempre vince, e per tutti è un bene nascere.

Odo, se veglio la notte, lamenti 

del raga2zo nel sonno; odo nel sonno 

sussulti d’anime in pena. E al risveglio 

ogni volto s’oscura.


2 METAMORFOSI

«Se non era l’Italia il tuo paese 

– dico per dire: lo so ben che l’ami – 

quale ti garberebbe patria?» Io taccio; 

egli ripete la domanda. – «E tu?»

Mi guarda coi suoi grandi occhi che toccano 

per dolcezza dell’anima i confini 

materni; forma un nome la sua bocca 

come un bacio. Pensoso, io nulla dico.

Ecco il suo volto al mio silenzio farsi 

severo, gli occhi a un odio scintillanti. 

Non fosse che pietà rispetto accoglie 

dei piú vecchi di lui, di lui garanti, 

su me si getterebbe, io penso, come 

sopra un nemico.


3 APPENA UNA CITAZIONE

Dici che lei ti lasciava, che solo 

porti la pena d’esser nato. Un’ombra, 

inseguo a lungo per vie solitarie, 

a un barlume di luce dei fanali, 

per sempre chiusa nella mia memoria.

Penso che i versi sono belli. E forse, 

l’ombra inseguendo, troverai un corpo.

Un dolce corpo ti consolerà.




Tre poesie a Linuccia 


1

Era un piccolo mondo e si teneva 

per mano.

Era un mondo difficile, lontano 

oggi da noi, che lo lambisce appena, 

come un’onda, l’angoscia. Tra la veglia 

e il sonno lento a venire, se a tratti, 

col suo esatto disegno e i suoi esatti 

contorni, un quadro se ne stacca e illumina 

la tua memoria, dolce in sé, ti cerca, 

come il pugnale d’un nemico, il cuore.

Era un piccolo mondo e il suo furore 

ti teneva per mano.


2

In fondo all’Adriatico selvaggio

si apriva un porto alla tua infanzia. Navi

verso lontano partivano. Bianco,

in cima al verde sovrastante colle,

dagli spalti d’antico forte, un fumo

usciva dopo un lampo e un rombo. Immenso

l’accoglieva l’azzurro, lo sperdeva

nella volta celeste. Rispondeva

guerriera nave al saluto, ancorata

al largo della tua casa che aveva

in capo al molo una rosa, la rosa

dei venti.

Era un piccolo porto, era una porta 

aperta ai sogni.


3

Da quei sogni e da quel furore tutto 

quello ch’ài guadagnato, ch’ài perduto, 

il tuo male e il tuo bene, t’è venuto.




Variazioni sulla rosa 


1

Per te piange un fanciullo in un giardino

o forse in una favola. Punivi,

rosa, inabili dita. E cosí vivi,

un giorno ancora, sul tuo ceppo verde.

Altri asciuga le sue lacrime, e perde 

egli in breve l’incontro e la memoria. 

Oh, nemico per sempre alla tua gloria 

non lo scopra l’errore d’un mattino!


2

Molti sono i colori ai quali l’arte 

varia il tuo incanto o la natura. In me, 

come il mare è turchino, esisti solo, 

per il pensiero a cui ti sposo, rossa.


3

Cauta i tuoi gambi ella mondava. Mesta 

a me sorrise ed al mio primo dono. 

Due mani l’aggiustavano al suo seno.

Andai lontano, disertai quel seno. 

Errai come agli umani è sorte errare. 

Mi sopraffece la vita; la vita 

vinsi, in parte; il mio cuore meno.

Ancora 

canta a me l’usignolo ed una rosa 

tra le spine è fiorita.




Ulisse 


Nella mia giovanezza ho navigato 

lungo le coste dalmate. Isolotti 

a fior d’onda emergevano, ove raro 

un uccello sostava intento a prede, 

coperti d’alghe, scivolosi, al sole 

belli come smeraldi. Quando l’alta 

marea e la notte li annullava, vele 

sottovento sbandavano piú al largo, 

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno 

è quella terra di nessuno. Il porto 

accende ad altri i suoi lumi; me al largo 

sospinge ancora il non domato spirito, 

e della vita il doloroso amore.




Pettirosso 


Trattenerti, volessi anche, non posso.

Vedi, amico del merlo, il pettirosso. 

Quanto ha il simile in odio egli di quella 

vicinanza par lieto. E tu li pensi 

compagni inseparabili, che agli orli 

di un boschetto sorpreso li sorprendi. 

Ma un impeto gioioso al nero amico, 

che vive prede ha nel becco, l’invola. 

Piega un ramo lontano, cui non nuoce, 

se un po’ ne oscilla, l’incarco; la bella 

stagione, il cielo tutto suo l’inebbriano, 

e la moglie nel nido. Come un tempo 

il dolce figlio che di me nutrivo, 

si sente ingordo libero feroce;

e là si sgola.




Cielo 


La buona, la meravigliosa Lina 

spalanca la finestra perché veda 

il cielo immenso.

Qui tranquillo a riposo, dove penso 

che ho dato invano, che la fine approssima, 

piú mi piace quel cielo, quelle rondini, 

quelle nubi. Non chiedo altro.

Fumare 

la mia pipa in silenzio come un vecchio 

lupo di mare.




Uccelli 


L’alata

genia che adoro – ce n’è al mondo tanta! – 

varia d’usi e costumi, ebbra di vita, 

si sveglia e canta.




Colombi in Piazza delle Poste 


Pianticelle con rossi fiori in cima 

fanno l’ombretta all’aiuola di fresco 

smossa. Colombi passeggiano in mezzo.

Uno lascia lo stormo e mi cammina,

che si lusinga di un’offerta, incontro.

Esita, si ritira; al volo pronto

sempre, e alla fuga; che dell’uomo – dice –

fido e non fido. – Anch’io. – Meno felice

di lui, nel chiuso

gli rispondo del cuore: Questa piazza,

cui giungevo affannato perché prima

abbia il mio augurio chi ben so l’attende,

la fontana che in vaga iride splende,

tra le pietre fiorita di gerani

ombrosa aiuola, ove di me deluso

ritorni in fretta, fece l’uomo all’uomo.

Pure è un triste bambino. E del suo dono 

chi piú diffida ha piú ragione, io penso.




L’ornitologo pietoso 


Raccolse un ornitologo pietoso 

un espulso dal nido. Come l’ebbe 

in mano vide ch’era un rosignuolo.

In salvo lo portò con il timore

gli mancasse per via. Gli fece, a un fondo

di fiasco, un nido; ritrovò quel gramo

l’imbeccata e il calore. Fu allevarlo

cura non lieve, ed il dispendio certo

di molte uova di formiche. E ai giorni

sereni, ai primi gorgheggi, l’esperto

in un boschetto libertà gli dava.

«Piú – diceva al perduto, e lo guardava

a terra e in ramo cercarsi – il tuo grazie

udrò sommesso». E si sentí piú solo.




Il fanciullo e l’averla 


S’innamorò un fanciullo d’un’averla. 

Vago del nuovo – interessate udiva 

di lei, dal cacciatore, meraviglie –

quante promesse fece per averla!

L’ebbe; e all’istante l’obliò. La trista, 

nella sua gabbia alla finestra appesa, 

piangeva sola e in silenzio, del cielo 

lontano irraggiungibile alla vista.

Si ricordò di lei solo quel giorno 

che, per noia o malvagio animo, volle 

stringerla in pugno. La quasi rapace 

gli fece male e s’involò. Quel giorno,

per quel male l’amò senza ritorno.




Quest’anno... 


Quest’anno la partenza delle rondini 

mi stringerà, per un pensiero, il cuore.

Poi stornelli faranno alto clamore 

sugli alberi al ritrovo del viale 

XX Settembre. Poi al lungo male 

dell’inverno compagni avrò qui solo 

quel pensiero, e sui tetti il bruno passero.

Alla mia solitudine le rondini 

mancheranno, e ai miei dí tardi l’amore.




Passeri 


Saltellano sui tetti 

passeri cinguettanti. Due si rubano 

di becco il pane che ai leggeri sbricioli, 

che carpire s’illudono al balcone. 

Vanno a stormi a dormire...

Uccelli sono:

nella Natura la sublimazione 

del rettile.




Merlo 


Esisteva quel mondo al quale in sogno 

ritorno ancora; che in sogno mi scuote? 

Certo esisteva. E n’erano gran parte 

mia madre e un merlo.

Lei vedo appena. Piú risalta il nero 

e il giallo di chi lieto salutava 

col suo canto (era questo il mio pensiero) 

me, che l’udivo dalla via. Mia madre 

sedeva, stanca, in cucina. Tritava 

a lui solo (era questo il suo pensiero) 

e alla mia cena la carne. Nessuna 

vista o rumore cosí lo eccitava.

Tra un fanciullo ingabbiato e un insettivoro, 

che i vermetti carpiva alla sua mano, 

in quella casa, in quel mondo lontano, 

c’era un amore. C’era anche un equivoco.




Rosignuolo 


Dice il nostro maggiore 

fratello, il rosignuolo:

Iddio, che ha fatto il mondo e se lo guarda, 

non di te si compiace, uomo, che a un’esca

– ahi, troppo irrecusabile! – dividi 

noi che abbiamo la casa in siepe o in fronda.

Si tace. E, dopo una nota pietosa:

La voce – dice – piú meravigliosa 

del silenzio, è la mia. Dei pleniluni 

d’Aprile a quali infiniti si sposa!

Dice a te il tuo maggiore 

fratello, il rosignuolo:

La dolcezza del mondo è una una una. 

Solo a lei canto al lume della luna.




Nietzsche 


Intorno a una grandezza solitaria 

non volano gli uccelli, né quei vaghi 

gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi 

che il silenzio, non vedi altro che l’aria.




Al lettore 


Se leggi questi versi e se in profondo

senti che belli non sono, son veri,

ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO.




Libreria antiquaria 


Morti chiedono a un morto libri morti.

Illusione non ho che mi conforti 

in questo caro al buon Carletto nero 

antro sofferto. Un tempo al mio pensiero 

parve un rifugio, e agli orrori del tempo. 

Ma quel tempo è passato oggi, e la vita 

con lui, che amavo. E di sentirmi inerme 

escluso piango come tu piangevi 

quando eri ancora un bambino e perdevi 

tra la folla la madre tua al mercato.




Dieci poesie per un canarino 


1 A UN GIOVANE COMUNISTA

Ho in casa – come vedi – un canarino. 

Giallo screziato di verde. Sua madre 

certo, o suo padre, nacque lucherino.

È un ibrido. E mi piace meglio in quanto 

nostrano. Mi diverte la sua grazia, 

mi diletta il suo canto. 

Torno, in sua cara compagnia, bambino.

Ma tu pensi: I poeti sono matti. 

Guardi appena; lo trovi stupidino. 

Ti piace piú Togliatti.


2 UCCELLO DI GABBIA

Tenorino di grazia egli le strofe

non sa dell’usignuolo e non ha il cuore

caldo del merlo.

Pago a due foglie di radicchio, in gabbia, 

dov’è nato non mette angoscia; libero 

per la stanza mi viene, e a quelle, incontro.

I miei risvegli sono un poco meno 

tristi per lui che alla finestra i passeri 

richiama: aeree zuffe. Ed io dal letto 

la sua nessuna meraviglia godo.


3 PALLA D’ORO

Con ali tese e il becco aperto a volte 

egli perfino mi sfida... Non vede 

sé, come vedo me stesso. Ed in questo 

non vedersi è la sua felicità.

Moto perpetuo non si ferma un breve 

momento. Verdi radicchi, altri uccelli 

che nutre involontario, il suo panico, 

sempre ha qualcosa da fare e la cosa 

che fa lo prende interamente. In canto 

(sia gioia o pena) in trilli si diffonde. 

Se Ciu lo chiami, il chiamato risponde.

Viene lenta la sera. Lentamente

tace, si gonfia. Fiducioso al sonno

si chiude, e in sé, come una palla d’oro.


4 I LIBRI...

I libri che ti rendo, amico (e sono 

meravigliosi) io non li ho letti. È molto 

se vi ho dato uno sguardo. A me riposo 

è il libro vivo che, se i tuoi non vale, 

vale quanto una favola. Per lui, 

vecchio fanciullo, questa volta ancora, 

nel mondo dei volatili mi perdo.

Copio i suoi usi e costumi. Gli amati 

bagni – disperazione di mia moglie – 

sono una festa ai miei occhi. E le foglie 

che nel becco qua e là porta. La vita, 

lei che tanti giocattoli mi ha tolto, 

mi rende al fine il piú innocente: in gabbia 

nato un uccello che in gabbia non soffre. 

Puoi d’un vecchio sorridere. Puoi anche, 

se piú ti piace, perdonargli.


5 CANARINA AZZURRA

Meravigliosa canarina azzurra

ti sceglievo a compagna. La piú bella,

la piú rara al mercato. Una gran dama.

Eros ha le sue leggi; è un dio difficile 

non solo – sembra – agli umani. L’uccella, 

immessa appena nella gabbia, subito 

saltò da te per un bacetto. (Come 

ti conoscesse da sempre). E tu come 

piccolo drago inferocito, subito 

(forse geloso di lei) la scacciavi. 

Durò tre giorni lo strazio; ed all’ultimo 

parve opportuno separarvi. Ancora 

coi tuoi radicchi ti consoli. E a un tratto 

non canti piú, rechi nel becco intorno 

filo od altro che trovi e stimi atto 

a un nido inesistente. M’hai deluso, 

e con me quella che mi disse: «Devi 

comperarle una moglie». Ed ira e pena 

mi fai. Pure la colpa è tua, se colpa 

v’è, v’è mai stata, in queste cose...


6 QUASI UNA MORALITÀ

Piú non mi temono i passeri. Vanno 

vengono alla finestra indifferenti 

al mio tranquillo muovermi nella stanza. 

Trovano il miglio e la scagliuola: dono 

spanto da un prodigo affine, accresciuto 

dalla mia mano. Ed io li guardo muto 

(per tema non si pentano) e mi pare 

(vero o illusione non importa) leggere 

nei neri occhietti, se coi miei s’incontrano, 

quasi una gratitudine.

Fanciullo, 

od altro sii tu che mi ascolti, in pena 

viva o in letizia (e piú se in pena) apprendi 

da chi ha molto sofferto, molto errato, 

che ancora esiste la Grazia, e che il mondo 

– TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.


7 SOMIGLIANZA

Fra te e la canarina azzurra sono 

affinità sorprendenti. Piú ancora 

se ti guardo lontana nell’immagine 

che di te ti sei fatta e appesa tengo 

a capo il letto incorniciata e cara. 

Sí, le assomigli. È questa somiglianza, 

lusinghiera ad entrambe, che mi strazia. 

Si avvicina l’estate e la tua casa 

ti aspetta, sgangherata come sempre. 

Non importa. Tua madre vive ancora, 

e tuo padre con lei, che nei sereni 

momenti inventa per te favolette. 

Poco ci troverai nuovo: l’azzurra 

che ti assomiglia e, forse a te spettacolo 

non discaro, fraterno al tuo pennello, 

quel rissoso uccellame alla finestra.


8 PRETESTO

C’è tanto miglio alla finestra. E i passeri 

si azzuffano tra loro; in gabbia due 

vaghi uccelletti che pensavo il nido 

facessero concordi. È tutto un grido 

di collera. E il mangiare avanza sempre, 

sprecato. Che per noi non sia e quei piccoli 

una ragione di guerra, un pretesto?


9 RISVEGLIO

Rissano tutto il giorno; a notte dormono, 

come gli altri uccelletti, piuma a piuma. 

(A riparo suppongo di un nemico, 

qui dove sono, improbabile). Sveglio 

prima ancora dei passeri, tra poco,

lo so, mi chiameranno. Creature

di Dio e del sole, oggi per voi ricordo 

la mia balia adorata, lei che prima 

mi regalava un lucherino e, ignara 

del mio destino, m’insegnò ad amarvi.


10 AMORE

Questa mattina, e come li portavo 

alla finestra, ebbi sorpresa lieta. 

Si scambiavano in becco il cibo, oggetto, 

ieri ancora, di tanta lite. È il modo 

– il loro – di baciarsi e dirsi grati 

l’uno all’altro di esistere. È già il nido.




Un Orientale 


Il racconto – una sfida al mio destino, 

che incombe grave e minaccioso (è quello 

di tutto il mondo) – un Orientale (ed io 

lo sono, almeno in parte; e il falso oblio 

dei mali è all’oppio che lo chiesi) in tempi 

o migliori o diversi, egli l’avrebbe 

per te favoleggiato un po’ altrimenti. 

STORIA sarebbe il suo nome DI UN VECCHIO

POETA E DI UN GIOVANE CANARINO.




Invio 


Dopo tre anni di silenzio ho scritto 

pochi versi. Non posso 

mandarli a te, di cui sí cara m’era 

(mi sarebbe) una lode. (Ignoro l’animo 

con cui li accoglieresti). Ma trafitto 

mi sento il cuore da una punta acuta 

come un rimorso.




Lina e la coinquilina 


La vita ti racconto una e che tutto 

in lei si tiene.

Tu puoi questo ascoltare ed anche il bene

togliermi di una breve ora, la pace

sua illusoria. Nutrire

odio non giusto per un’altra donna

(sempre diversa e sempre in te la stessa).

Era un giorno tua madre; oggi, mia Lina,

ha un altro nome. «Al bollitore – dici –

mi lascia sola una fiamma». Non dici:

«So che hai ragione; so che sempre un poco

ho raspato nei tuoi paraggi». Povera,

vecchia e stanca, gallina.




Passioni 


Sono fatte di lacrime e di sangue 

e d’altro ancora. Il cuore 

batte a sinistra.




Le mie poesie 


Il buon Carletto mi diceva: «Vedo 

che proprio deve farle». Devo come 

la gallina fa l’uovo. Questo un giorno 

me lo disse mia figlia. (Aveva allora 

dieci undici anni). Immaginava, 

con tutto il mondo in miniatura, chiudere 

suo padre in una gabbia. Il vino e i cibi 

erano buoni, anzi eccellenti. In cambio 

sua madre o lei tra le sbarre carpivano 

il mio lavoro d’ogni giorno in vari 

multicolori bei fogli volanti.




Carletto 


Il buon Carletto, come schedo un libro, 

ne muta il prezzo a suo arbitrio. Poi quello 

trascrive sui risguardi, mette a un lato 

la scheda, sceglie lo scaffale; vada, 

o no, venduto (egli spera venduto). 

La sua giornata in Libreria gli corre 

rapida, che il lavoro non gli manca, 

per lui, per me, per i suoi figli. Io grato 

gli sono, e piú che non creda. Ripenso 

(questo non glielo dico ancora; temo 

si offenderebbe; ha in odio i paragoni) 

il canarino in gabbia affaccendato.




Variante al precedente ritratto 


Oggi non faccio nulla. Faccio festa. 

(Sono stanco a morire). Non ho voglia 

di vecchi Le Monnier, d’altre anche peggio 

malinconie. Forse ascoltare appena 

il buon Carletto: progetti e ricordi 

(tempi e persone anche per lui lontani). 

Chiamo e forse non m’ode. Si dà pena 

salito a uno scaffale in fondo oscuro. 

Cerca e non trova. Fra se stesso mormora 

(è nei suoi usi e costumi). «Che fai – 

gli dico quasi con collera – in cima 

di quella scala maledetta come 

canarino su alto stecco?» Rido. 

Mi aspetto quasi un libro sulla testa.




Momento 


Gli uccelli alla finestra, le persiane 

socchiuse: un’aria d’infanzia e d’estate 

che mi consola. Veramente ho gli anni 

che so di avere? O solo dieci? A cosa 

mai mi ha servito l’esperienza? A vivere 

pago a piccole cose onde vivevo 

inquieto un tempo.




Richiamo 


Perché, gentile creatura, mi strazi?

Hai tutto, e il tuo richiamo è pianto. Hai gabbia

spaziosa e pulita, che governo

io stesso all’alba, ogni mattina (a farvi

il nido un poco maldestri, tu sei

che scacci adesso l’importuno); a coppia

le piú succose ciliege; pinolo

che mi sbricioli, cauta, in mano. Solo

la metà dei tuoi beni avesse lei

che ti assomiglia e poco si lamenta...

Ma tu, gentile creatura, mi strazi.




Lina e la canarina azzurra 


«Come a lei t’avvicini emette chiari

argentini suoi ciu cosí ploranti

che ti feriscono l’anima. Pianti

che vengono dal fondo della vita,

dell’esistere, e trovano la gola

sua d’uccelletta». «I suoi non sono pianti –

mi dice Lina – tu esageri». Mai,

se parla a mio conforto, le ho creduto.

Ed una falsa pietà mi ha perduto.




Sogno 


Mettere assieme i piú strani animali 

(intendo strani l’uno all’altro) e scrivere, 

solo e con loro, qualche favoletta.

È questo il sogno della mia saggezza 

ultima. E, come tutti i sogni, vano.




Fotografia 


Questo volto che indurano gli affanni

ed il tempo, e tu a volo,

Nora, gentile fotografa, hai colto;

è il mio, tu dici. – Io, se mi vedo, è solo

morto. O ragazzo di quindici anni.




Lettera 


Linuccia mia perdonami se invece 

di una lettera attesa mando ancora 

una poesia. Tuo padre che si fece 

di te sostegno, che da te rinacque 

(e sia per poco, sia per ricadere 

da piú alto) è ubriaco. E non di vino.

Sappi che il libro andrà pel suo destino 

col nome che gli hai dato tu: AMICIZIA1.

1 Com’è detto nella Prefazione il titolo è stato poi cambiato in Quasi un racconto.




Il bagno del passero 


C’era sul davanzale una scodella 

piena d’acqua. Era là dimenticata. 

Era l’alba. (L’avevo io là posata; 

ma per altri). Venuto per il pane 

suo quotidiano la scopriva un passero. 

Stupito si guardò (o mi parve) intorno. 

V’immerse prima la testina; poi 

(il mondo è tutto casa sua, e la mia 

col resto) entrava tutto quanto in quella. 

Breve fu il mio stupore ed il suo sguazzo. 

Improvviso partí come venuto.

Io credo in queste cose, io che ho creduto

sempre nei miei modelli. E se piú biasimi

n’ebbi che lode, non è stato sempre

– come illusa tu pensi oggi – un sollazzo.




Ai miei modelli 


Anche lui mi diceva, come il giovane 

comunista, che siete stupidini, 

l’amico che mi fu diletto tanto, 

che avrei per il suo bene dato il canto 

piú dolce e la mia vita anche.

Ma voi 

volate sopra le miserie umane. 

E quando all’alba spuntare rivedo, 

tra le griglie da me lasciate aperte, 

vostri cari musetti; in dubbio sempre 

tra il desiderio e la paura – il dono 

vi tenta e il rischio vi trattiene – o ramo 

farvi di cosa che sporga, se v’amo 

è come un bimbo ed un vecchio. Ma il vecchio 

sa piú cose, ed adora la purezza.

Che serve all’uomo anche la sua grandezza, 

se il mistero per lui resta mistero, 

e ha perduto, per via, la grazia?




«Ognuno a se stesso è fedele» 

(Dalle «Laudi» di Gabriele d’Annunzio) 


L’assenzio della vita, anche il suo miele, 

ho nel cuore. Operoso per me stesso, 

aiuto, come posso, gli altri. E gli altri 

sono, a volte, piú chiusi. I miei modelli

– un esempio – di oggi, che non tanto

li amava il fanciulletto (è lui che tardi

– un ultimo saluto – li dipinse),

visti insieme, o si azzuffano o s’ignorano. 

Penso agli Eroi di cui leggevo: OGNUNO 

A SE STESSO (e intendeva a sé soltanto 

il Vate che ai suoi dí piú Gloria attinse, 

piú vasta; a torto obliato) È FEDELE.




Nostalgia 


Con occhi intenti seguono ogni mossa

delle mie mani industri a rinnovare

la gabbia al novo giorno. Un’ombra appena

d’apprensione superstite, visibile

al buon custode. Contentezza provano

che m’occupi di loro, e quella esprimono,

se intendo il caro linguaggio, in sommessi

brevi trilletti.

Ma forse è umana illusione che ai tetti 

degli uomini e alle cure sieno paghi. 

Una gabbia è una gabbia; e in cuore vaghi 

serbano indistruttibili ricordi 

delle Canarie, dei natii boschetti.




Le donne... 


Le donne

mie di casa, o che vengono per casa, 

sono con te arrabbiatissime. Tutte. 

Dicono che sei bello (e in ciò si estasiano); 

forse il piú bel canarino; ma... un mostro. 

(Una pianse, sveniva quasi, in vista 

degli alti tuoi fatti). Perché ai fatti 

male assai con tua moglie ti comporti.

Non l’aiuti a covare; fuori porti

dal nido quanto puoi col becco, e il furto

o lasci a caso cadere o deponi

– come per farti un nuovo nido – in qualche

angolo della gabbia. È un’altra immagine

che di lei ti sei fatta; un’altra scelta

avevi in cuore, e non la mia... Ma io

come facevo a saperla?




Il nido 


Aggiustavo il tuo nido in cui preziosa, 

dimentica del cibo, o quasi, covi. 

E mi rammenti un’incisione (nuovi 

vi mettevo i colori) in lode della 

Natura o (tutto non ricordo) in quella 

della Divina Provvidenza.

Il solo 

che dovrebbe aiutarti è odioso. Sfa, 

tenta disfare, la tua casa.

Fosse 

un’incauta mia mossa od altro, presa 

di uno spavento insolito alla stretta, 

il caro luogo abbandonavi. Ed io 

sentii sfiorarmi la mano quel volo 

celeste di una celeste uccelletta.




Divertimento 


Con voi nella mia vecchia casa entrava 

della fresca Natura un soffio. E forza 

mi fu di separarvi un’altra volta. 

Suo diritto è covare in pace, e pace 

tu non le davi, l’inquietavi spesso. 

Corre assiduo di gabbia in gabbia adesso 

quel chiamarvi pietoso; e il bene fatto 

dalle mie mani, come chiaro mostri 

sol che a te m’avvicini, tu lo pensi 

un ingiusto castigo, una vendetta.

Per divertirti apro una scatoletta 

musicale. Il dolor del mondo n’esce 

in un suono cosí mite che riesce 

a commuovermi quasi. Ascolti. Un poco 

tenti imitarla sopraffarla. O i vostri 

sono cuori volubili e leggeri!




Da Leonardo 


Apro un libro, non brutto in sé né bello, 

per noia, a caso, e vi getto uno sguardo. 

Che pietà ritrovarvi, da Leonardo, 

il tuo scheletro fragile d’uccello!

Ma tu non puoi vederlo, tu che quello 

ti stimi di noi due piú forte. E in parte 

anche sei, che da me dipendi, e l’arte 

non ho, e ne soffro, di spiegarti cosa 

cui m’obblighi il mio ufficio di custode.




Un gioco 


T’era estraneo il suo nido, oggi il tuo mondo.

Solo a quello devoto, da un rotondo

foro ai suoi lati praticato – oblò

nella cabina d’una nave – sporge,

se l’indice vi appunto, alla difesa,

la tua gialla testina, si ritrae

cessata appena la minaccia. È un gioco

stolto e crudele a cui mi prendi. E un poco

anche ne rido. Piú ne riderebbe

Mariuccio od altro scolaro.




È tutto vero 


(A Giacomo Debenedetti)

È tutto vero. I canarini fanno

– ieri ne disperavo quasi – il nido.

E Giacomino mi scrive: «Il tuo libro 

è bello, è molto bello. Accordi statua 

arcobaleno. È questa tua stagione 

tarda, senza rancori, che mi piace». 

È tutto vero. Ma è piú vero ancora 

che sono stanco a morire; che a vivere

– non è per noi che si deve, è per altri –

SOLO DI SOLITUDINE HO BISOGNO.




Dialogo 


LUI

Di me diranno, quando sarò morto: 

Povero vecchio disperato e solo. 

Cantava come canta un rosignuolo.

LEI

Non sei un rosignuolo; sei un merlo. 

Fischi piú forte la sera; e nessuno 

può strapparti di becco il tuo pinolo.




Morte di un pettirosso 


(Alla memoria del dottor Amos Chiabov, 

 che me l’ha, circa cosí, raccontata)

Un gentile uccelletto, un pettirosso, 

delizia della casa, della casa 

diventato il padrone, un vizio aveva 

grave: era troppo curioso. Metteva 

sé dappertutto (un giorno lo trovarono 

fino dentro una scarpa). Poi fuggito 

lo dicevano i bimbi inconsolabili, 

che lo piansero a lungo. Ma fuggito 

non era; lo rinvenne, con un grido 

di spavento e d’orrore, la domestica, 

come, a deporvi il bucato, riapriva 

quell’armadio. Era lui, morto e stecchito.

Giudici gravi e togati sedettero 

per giudicare della colpa. Forse, 

troppo svelta nel chiudere un cassetto, 

la donna? O indiscrezione d’uccelletto, 

in suo libero arbitrio entrato dove 

mai non avrebbe dovuto? la causa, 

in qualche luogo, si discute ancora.




Fratellanza 


Ho fatto un sogno, e all’alba lo ritrovo. 

Parlavano gli uccelli, o in un uccello 

m’ero, io uomo, mutato. Dicevano:

NOI DI BECCO GENTILE AMIAMO I FRUTTI 

SAPORITI DEGLI ORTI. E SIAMO TUTTI 

NATI DA UN UOVO.

Proprio il sogno d’un bimbo e d’un uccello.




Al lettore 


Questo libro che a te dava conforto, 

buon lettore, è vergogna a chi lo crebbe. 

Parlava come un vivo ed era (avrebbe 

dovuto, per decenza, essere) morto.




L’uomo e gli animali 


Uomo, la tua sventura è senza fondo. 

Sei troppo e troppo poco. Con invidia 

(tu pensi invece con disprezzo) guardi 

gli animali, che immuni di riguardi 

e di pudori, dicono la vita 

e le sue leggi. (Ne dicono il fondo).




De gallo et lapide 


Dicevo un giorno al buon Carletto: «Dopo

anni che lavoriamo assieme – trenta,

io credo, o ventisette almeno; è stato,

buono o cattivo, il tuo destino – appena

oggi ho capito chi sei. Sei vivente

ed agente una favola d’Esopo.

Tutte, e in particolare una». Non chiese

quale; o temesse, nel confronto, offese;

o, quando estraneo ai suoi negozi, poco

curi il mio dire. «Voglio dire quella

del gallo e della pietra preziosa.

Come la scorse nel letame: – Va’, –

le disse; – tu vuoi farmi ricco invano.

Nulla è a un gallo un topazio –. E l’affamato

l’accusava, raspando, di non essere,

invece, un chicco d’orzo». «Giusto. Ma.

se poteva parlare, perché il gallo –

disse alfine Carletto, ed ovvia cosa

gli parve – non andò da un gioielliere?

Gli avrebbe dato due sacchi di grano

in cambio. O anche d’orzo, a suo piacere».




Il poeta e il conformista 


Come t’invidio, amico! Alla tua fede 

saldamente ancorato, in pace vivi 

con gli uomini e gli dei. Discorri scrivi 

agevole, conforme volontà 

del tuo padrone. In cambio egli ti dà 

pane e, quale sua cosa, ti accarezza. 

Arma non ti si appunta contro; spezza 

il tuo sorriso ogni minaccia. E passi, 

tra gli uomini e gli eventi, quasi illeso.

V’ha chi solo si pensa ed indifeso. 

Pensa che la sua carne ha un buon sapore. 

Meglio – pensa – chi è in vista al cacciatore 

passero che pernice.




I vecchi 


I vecchi dei villaggi hanno (se l’hanno) 

il tabacco. Hanno il vino rosso. A pochi 

passi il temuto cimitero. Ed io 

(non quello temo, ai vinti unico pio) 

avrei dovuto guarire, sottrarmi 

un farmaco letale, caricarmi 

di pesi sempre piú gravi (ed è questa 

– lo so – la legge della vita); darmi 

promettevano in cambio, essi, una festa;

essi, i miei buoni amici. Perché tutto 

ti concedono i buoni, e non la morte.




Ritratto di Marisa 


(Al Prof. Dott. Marino Gopcevich 

 – per una sua intuizione – 

 con affettuosa riconoscenza)

Marisa è un’infermiera. Ha gli occhi tondi

come gli uccelli;

ma non sa piú di che colore. Azzurri

li hanno detti una volta nella tessera,

verdastri un’altra. E cosí adesso è in dubbio.

Marisa è un’infermiera ed una brava 

bimba. Non si è dipinta mai la faccia, 

si mostra come Iddio la volle. Schiva 

appare di pietà verso i malati, 

sebbene in petto ella nasconda un raro 

gioiello (il piú nel nostro mondo raro): 

un cuore.

Marisa è un’infermiera. Ha gli occhi tondi 

come gli uccelli,

cangianti un po’ come le biglie, quali 

si giocava accosciata sotto un albero, 

contro i maschietti del paese. Spesso 

perdeva; non piangeva – dice – mai.




Ultima 


Guardo, donna, il tuo cane che adorato 

ti adora. Ed io... se penso alla mia vita! 

Variamente operai, se in male o in bene 

io non so; lo sa Dio, forse nessuno. 

Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno. 

Fui sempre («colpa tua» tu mi rispondi) 

fui sempre un povero cane randagio.




In questo libro... 


In questo libro tredici poesie,

che il nome hanno dall’ultima,

sono, me vivo, mie.

Poi le avrò scritte come l’altre invano,

per gli uccelli e un amico, al tempo triste,

nel mio triste italiano.

Trieste, 24 luglio 1948.




Vecchio e giovane 


Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo 

– gatto in vista selvatico – temeva 

castighi a occulti pensieri. Ora due 

cose nel cuore lasciano un’impronta 

dolce: la donna che regola il passo 

leggero al tuo la prima volta, e il bimbo 

che, al fine tu lo salvi, fiducioso 

mette la sua manina nella tua.

Giovinetto tiranno, occhi di cielo, 

aperti sopra un abisso, pregava 

lunga all’amico suo la ninna nanna. 

La ninna nanna era una storia, quale 

una rara commossa esperienza 

filtrava alla sua ingorda adolescenza: 

altro bene, altro male. «Adesso basta – 

diceva a un tratto; – spegniamo, dormiamo». 

E si voltava contro il muro. «T’amo – 

dopo un silenzio aggiungeva – tu buono 

sempre con me, col tuo bambino». E subito 

sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, 

con gli occhi aperti, non dormiva piú.

Oblioso, insensibile, parvenza 

d’angelo ancora. Nella tua impazienza, 

cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; 

ha un compito difficile; ha la vita 

non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, 

se puoi, tua morte. O non pensarci piú.




Per una favola nuova 


Ogni anno un passo avanti e il mondo dieci 

indietro. Al fine son rimasto solo.

Ma tu mi rendi il perduto, usignolo 

che sul mio ramo ti posi, e la storia 

narri per me dell’angelo che vive 

due giorni e mezzo sulla terra. Scrive 

la tua mano inesperta, e fa che intorno 

alla favola nuova i miei pensieri 

sciamano assidui come api al miele.

Accusi l’arte difficile e gelo 

la parola all’immagine. Ed io penso 

che sei piú dei tuoi anni giovinetto; 

che chi presto matura (è antico detto) 

manca in breve al suo stelo.




Opicina 1947 


Risalii quest’estate ad Opicina. 

Era con me un ragazzo comunista. 

Tito sui muri s’iscriveva, in vista, 

sotto, della mia bianca cittadina.

Nell’ora dei ricordi vespertina 

sedemmo all’osteria, che ancor m’attrista, 

oggi, se penso quella camerista 

che ci serví con volto d’assassina.

Due vecchie ebree, testarde villeggianti, 

io, quel ragazzo, parlavamo ancora 

lassú italiano, tra i sassi e l’abete.

«Dopo il nero fascista il nero prete; 

questa è l’Italia, e lo sai. Perché allora – 

diceva il mio compagno – aver rimpianti?»




Lettera 


Ti mando, amico, due poesie che sono 

ultime voci d’uno sulla terra, 

legate a un filo che la guerra rompere 

non può, né giovanile il tuo delitto.

Se ti piacque, per noi dattiloscritto

sogno mediterraneo, quell’azzurro

fascicolo che in dono

ti lasciavo partendo, oggi tu, buono,

le aggiungi a quelle a Telemaco. In breve,

spero, ci rivedremo. Il tuo delitto

non è grave: è di avermi un po’ scordato.




Epigrafe 


Parlavo vivo a un popolo di morti. 

Morto alloro rifiuto e chiedo oblio.




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